Preveniamo rischi Risolviamo problemi Formiamo competenze
"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
In queste ultime settimane, il dibattito “giuridico-ambientale” sul Coronavirus si è andato via via spostando dalla gestione dei rifiuti da D.P.I. (mascherine, guanti, etc …) alla sua presenza nelle acque di scarico di alcune città italiane ed europee. In questo contributo si cercherà di ricostruire gli studi effettuati, comprendere il significato degli esiti ottenuti e conoscere le motivazioni delle azioni future.
Premesso che l’epidemiologia delle acque reflue non è una novità di questo periodo, ma costituisce ormai da anni una scienza affermata che analizza – ad esempio – i residui metabolici presenti nei reflui urbani per valutare il consumo di sostanze stupefacenti in una determinata zona piuttosto che per valutare l’esposizione di una popolazione ai pesticidi[1], gli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità (I.S.S.), nel periodo di diffusione dell’epidemia, hanno condotto un’indagine rintracciando la presenza di materiale genetico del nuovo virus nelle acque di scarico di Milano e di Roma. Successivamente, i ricercatori hanno trovato l’R.N.A. (Ribo Nucleic Acid, ovvero l’acido nucleico presente nel nucleo e nel citoplasma di tutte le cellule) del virus nei campioni prelevati dalle acque di scarico delle metropoli sopraccitate.
Per ragioni scientifiche e per scopi di salute pubblica, l’I.S.S. ha deciso di estendere l’indagine ad altre regioni, al fine di capire meglio fino a che punto i risultati possano essere utili per rilevare la presenza del virus ed i focolai dell’epidemia. Ad esempio, in Lombardia, la comunità scientifica, il mondo accademico ed il gestore del servizio idrico integrato della provincia di Cremona collaboreranno per utilizzare questo territorio come test per rilevare la presenza del virus nelle acque di scarico[2]. Ci si attende che i risultati delle indagini permettano di comprendere la reale dimensione dei contagi fra la popolazione, soprattutto dei c.d. “asintomatici” che eliminano il virus lasciando, però, tracce nelle acque reflue e, conseguentemente, nei fanghi in uscita dai depuratori.
I dati raccolti verranno poi costantemente confrontati tra loro nel tempo, acquisendo così una funzione “sentinella” in grado di tracciare gli sviluppi epidemiologici del virus.
Non solo: i risultati italiani andranno, poi, valutati con quelli ottenuti da altri gruppi di ricerca (ad esempio, in Olanda, Stati Uniti, Australia e Francia) che hanno già rinvenuto tracce del virus negli scarichi. L’obiettivo è chiaro: i dati raccolti a livello mondiale, oggetto di studio, confronto e interpretazione, potranno essere utili per valutare la reale dimensione dell’epidemia, il suo andamento nel tempo, nonché la ricomparsa nei prossimi mesi.
Ciò detto in materia di scarichi, si ricorda che al termine di ogni processo di depurazione delle acque si generano inevitabilmente dei fanghi, che concentrano gli inquinanti rimossi dai reflui e costituiscono il principale residuo dei trattamenti depurativi.
Stando così le cose, bisogna domandarsi se sia possibile ritrovare il virus nei fanghi di depurazione.
Soccorre in risposta il Rapporto I.S.S. Covid-19 n. 9/2020[3] recante “Indicazioni ad interim sulla gestione dei fanghi di depurazione per la prevenzione della diffusione del virus SARS-CoV-2”, elaborate per garantire la sicurezza del recupero, trattamento, smaltimento o riutilizzo dei fanghi di depurazione, nell’ottica della prevenzione della diffusione del Coronavirus e della trasmissione dell’infezione.
Fermo restando che la produzione di fanghi è correlata al corretto ed efficiente espletamento del servizio pubblico essenziale di depurazione delle acque reflue urbane (il cui esercizio è indispensabile per garantire la tutela della salute pubblica e la protezione dell’ambiente), al momento in cui si scrive non risultano dati ufficiali, linee guida o valutazioni di rischio specifiche per il virus SARS-CoV-2 in relazione a fanghi di depurazione. In altre parole, ad oggi non è stata dimostrata la presenza del virus in fanghi di depurazione.
Ciò nonostante, in tale iniziale contesto risulta essenziale valutare le condizioni di trattamento dei fanghi in relazione alla (plausibilità di? persistenza e virulenza del Covid-19 in questa matrice.
Infatti, a lato pratico, lo scenario di rischio si riferisce al possibile rilascio da parte di soggetti infetti di escreti che vengono prima trasferiti alla fognatura attraverso gli scarichi idrici, poi collettati con le acque reflue, infine trattate in impianti di depurazione generando fanghi che potrebbero causare esposizione al Coronavirus in funzione delle destinazioni d’uso.
“Il processo di trattamento dei fanghi, per essere ritenuto efficace deve garantire una sostanziale riduzione di densità dei patogeni presenti e l’assenza di fenomeni di ricrescita microbica. […] Per i virus, ad esempio, i fattori che maggiormente influenzano la sopravvivenza sono l’esposizione al calore, il livello di disidratazione, l’antagonismo microbico, l’irraggiamento e il pH”[4].
I fanghi da trattare derivano solitamente da una serie di processi volti alla riduzione del contenuto di sostanze organiche, della carica microbica e del contenuto di acqua, il cui obiettivo finale è univoco: rendere migliori le caratteristiche del fango prima dell’avvio al riutilizzo (in particolari ambiti, come l’agricoltura) o al trattamento finale.
L’I.S.S., pertanto, rispetto al rischio di infettività da SARS-CoV-2, con riferimento alle circostanze contingenti di emergenza della pandemia COVID-19, ritiene che:
– nel caso di impianti di compostaggio e digestione anaerobica, i tempi e le temperature di trattamento lasciano supporre che sia irrilevante il rischio di trasmissione dell’infezione da SARS-CoV-2;
– ugualmente, nel caso di incenerimento o disidratazione termica, le condizioni e le temperature di trattamento lasciano ritenere irrilevante il rischio di trasmissione dell’infezione da SARS-CoV-2;
-invece, nell’ipotesi di collocamento in discarica, devono essere rigorosamente rispettate le norme di buona tecnica e di igiene e sanità pubblica ovunque ed in ogni fase. In particolare, all’atto della raccolta dei fanghi deve essere evitata la formazione di aerosol (potenziale via di trasmissione di COVID-19) e polveri, mentre il trasporto deve tendere ad evitare ogni dispersione durante il trasferimento;
– infine, nel caso di riutilizzo in agricoltura (ovvero di spandimento, produzione di ammendanti e correttivi), i fanghi devono essere gestiti secondo le buone pratiche agricole, assicurando i dovuti trattamenti (ad esempio, stabilizzazione con calce, acido solforico, ammoniaca, digestione anaerobica o aerobica, etc …).
Ciò non toglie che, in considerazione delle criticità registrate negli ultimi anni in merito alla gestione dei fanghi di depurazione, sia – a maggior ragione – necessario rafforzare i controlli su eventuali smaltimenti illeciti di fanghi non adeguatamente trattati, che potrebbero causare esposizione al potenziale infettivo della SARS-CoV-2.
Quanto sopra vale per la depurazione delle acque reflue ed il trattamento dei fanghi di depurazione, che rappresentano una quota importante dell’attività dei gestori del Servizio Idrico Integrato (S.I.I.). Ma quest’ultimo si occupa anche dei servizi di adduzione, captazione e distribuzione di acqua potabile: quindi, quali rischi di natura sanitaria ci sono per il sistema idrico?
Al momento in cui si scrive sembrerebbe che l’impatto della crisi sanitaria non riguardi la sicurezza dell’acqua potabile, in quanto il virus non è stato ad oggi mai rilevato in queste ultime[5]. Infatti, il recente documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) relativo alla gestione dell’acqua e dei servizi igienico-sanitari in riferimento al Covid-19[6] afferma che non sono necessarie misure di prevenzione e controllo aggiuntive rispetto a quanto già indicato nelle Linee Guida della stessa O.M.S. sulla qualità delle acque potabili.
In questo contesto non si può non citare il Rapporto I.S.S. Covid-19 n. 10/2020[7] recante “Indicazioni ad interim su acqua e servizi igienici in relazione alla diffusione del virus SARS-CoV-2”. Anche se il documento si rivolge in primis ai gestori del S.I.I. ed alle autorità preposte alla tutela della salute e, pertanto, coinvolte nella prevenzione e gestione di rischi correlati alla contaminazione delle acque, il rapporto riporta interessanti informazioni e spunti di riflessione.
Nonostante i virus siano responsabili di un’ampia gamma di patologie e appartengano a diverse famiglie, ad oggi non vi sono evidenze di trasmissione idrica; tuttavia, essendone stata dimostrata la presenza nelle feci, urine ed escreti di pazienti infetti, ciò non toglie che essi possano entrare nel ciclo idrico attraverso le acque reflue ed è, pertanto, necessario prendere in considerazione l’ipotesi di diffusione del virus attraverso altre modalità.
Il Rapporto precisa altresì che “nell’ambito della filiera idro-potabile esistono tuttavia alcuni rischi indirettamente correlati all’emergenza pandemica e al lockdown che potrebbero avere un impatto sulla qualità dell’acqua e la continuità dell’approvvigionamento”: è per questo che, nelle attuali circostanze di emergenza sanitaria, la fornitura di acqua potabile negli ambienti di residenza, cura e lavoro, assieme alla gestione in sicurezza dei reflui, costituisce ancor più una misura essenziale di prevenzione primaria.
È, pertanto, fondamentale che i gestori del S.I.I., sulla base della valutazione del rischio, amplino i controlli sull’intera filiera idrica, ricercando anche parametri suppletivi, non previsti dalla attuale normativa, come i virus.
In ogni caso, “l’analisi di rischio di esposizione a SARS-CoV-2 attraverso l’acqua e i servizi igienici indica che sussistono allo stato attuale elevati livelli di protezione della salute”. Infatti, a che risulti, le pratiche di depurazione oggi in uso risultano essere efficaci nell’abbattimento del virus, unitamente a quelle condizioni ambientali ostili che ne pregiudicano la vitalità (temperatura, pH, etc …), le quali terminano con una fase finale di disinfezione che permette di ottimizzare le condizioni di rimozione integrale dello stesso.
[1]Covid-19: le acque reflue sono indicatori di diffusione, in www.marionegri.it
[2] Rassegna Stampa Utilitalia, in www.utilitalia.it
[5] L. LUCENTINI – P. ROSSI – G. BORTONE, La giornata Mondiale dell’acqua nella pandemia di CoViD-19, in www.arpae.it
[6]Water, sanitation, hygiene and waste management for COVID-19 (Technical brief) in https://www.who.int/publications-detail/water-sanitation-hygiene-and-waste-management-for-covid-19
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Acque, fanghi e Covid-19: quale rapporto?
di Miriam Viviana Balossi
In queste ultime settimane, il dibattito “giuridico-ambientale” sul Coronavirus si è andato via via spostando dalla gestione dei rifiuti da D.P.I. (mascherine, guanti, etc …) alla sua presenza nelle acque di scarico di alcune città italiane ed europee. In questo contributo si cercherà di ricostruire gli studi effettuati, comprendere il significato degli esiti ottenuti e conoscere le motivazioni delle azioni future.
Premesso che l’epidemiologia delle acque reflue non è una novità di questo periodo, ma costituisce ormai da anni una scienza affermata che analizza – ad esempio – i residui metabolici presenti nei reflui urbani per valutare il consumo di sostanze stupefacenti in una determinata zona piuttosto che per valutare l’esposizione di una popolazione ai pesticidi[1], gli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità (I.S.S.), nel periodo di diffusione dell’epidemia, hanno condotto un’indagine rintracciando la presenza di materiale genetico del nuovo virus nelle acque di scarico di Milano e di Roma. Successivamente, i ricercatori hanno trovato l’R.N.A. (Ribo Nucleic Acid, ovvero l’acido nucleico presente nel nucleo e nel citoplasma di tutte le cellule) del virus nei campioni prelevati dalle acque di scarico delle metropoli sopraccitate.
Per ragioni scientifiche e per scopi di salute pubblica, l’I.S.S. ha deciso di estendere l’indagine ad altre regioni, al fine di capire meglio fino a che punto i risultati possano essere utili per rilevare la presenza del virus ed i focolai dell’epidemia. Ad esempio, in Lombardia, la comunità scientifica, il mondo accademico ed il gestore del servizio idrico integrato della provincia di Cremona collaboreranno per utilizzare questo territorio come test per rilevare la presenza del virus nelle acque di scarico[2]. Ci si attende che i risultati delle indagini permettano di comprendere la reale dimensione dei contagi fra la popolazione, soprattutto dei c.d. “asintomatici” che eliminano il virus lasciando, però, tracce nelle acque reflue e, conseguentemente, nei fanghi in uscita dai depuratori.
I dati raccolti verranno poi costantemente confrontati tra loro nel tempo, acquisendo così una funzione “sentinella” in grado di tracciare gli sviluppi epidemiologici del virus.
Non solo: i risultati italiani andranno, poi, valutati con quelli ottenuti da altri gruppi di ricerca (ad esempio, in Olanda, Stati Uniti, Australia e Francia) che hanno già rinvenuto tracce del virus negli scarichi. L’obiettivo è chiaro: i dati raccolti a livello mondiale, oggetto di studio, confronto e interpretazione, potranno essere utili per valutare la reale dimensione dell’epidemia, il suo andamento nel tempo, nonché la ricomparsa nei prossimi mesi.
Ciò detto in materia di scarichi, si ricorda che al termine di ogni processo di depurazione delle acque si generano inevitabilmente dei fanghi, che concentrano gli inquinanti rimossi dai reflui e costituiscono il principale residuo dei trattamenti depurativi.
Stando così le cose, bisogna domandarsi se sia possibile ritrovare il virus nei fanghi di depurazione.
Soccorre in risposta il Rapporto I.S.S. Covid-19 n. 9/2020[3] recante “Indicazioni ad interim sulla gestione dei fanghi di depurazione per la prevenzione della diffusione del virus SARS-CoV-2”, elaborate per garantire la sicurezza del recupero, trattamento, smaltimento o riutilizzo dei fanghi di depurazione, nell’ottica della prevenzione della diffusione del Coronavirus e della trasmissione dell’infezione.
Fermo restando che la produzione di fanghi è correlata al corretto ed efficiente espletamento del servizio pubblico essenziale di depurazione delle acque reflue urbane (il cui esercizio è indispensabile per garantire la tutela della salute pubblica e la protezione dell’ambiente), al momento in cui si scrive non risultano dati ufficiali, linee guida o valutazioni di rischio specifiche per il virus SARS-CoV-2 in relazione a fanghi di depurazione. In altre parole, ad oggi non è stata dimostrata la presenza del virus in fanghi di depurazione.
Ciò nonostante, in tale iniziale contesto risulta essenziale valutare le condizioni di trattamento dei fanghi in relazione alla (plausibilità di? persistenza e virulenza del Covid-19 in questa matrice.
Infatti, a lato pratico, lo scenario di rischio si riferisce al possibile rilascio da parte di soggetti infetti di escreti che vengono prima trasferiti alla fognatura attraverso gli scarichi idrici, poi collettati con le acque reflue, infine trattate in impianti di depurazione generando fanghi che potrebbero causare esposizione al Coronavirus in funzione delle destinazioni d’uso.
“Il processo di trattamento dei fanghi, per essere ritenuto efficace deve garantire una sostanziale riduzione di densità dei patogeni presenti e l’assenza di fenomeni di ricrescita microbica. […] Per i virus, ad esempio, i fattori che maggiormente influenzano la sopravvivenza sono l’esposizione al calore, il livello di disidratazione, l’antagonismo microbico, l’irraggiamento e il pH”[4].
I fanghi da trattare derivano solitamente da una serie di processi volti alla riduzione del contenuto di sostanze organiche, della carica microbica e del contenuto di acqua, il cui obiettivo finale è univoco: rendere migliori le caratteristiche del fango prima dell’avvio al riutilizzo (in particolari ambiti, come l’agricoltura) o al trattamento finale.
L’I.S.S., pertanto, rispetto al rischio di infettività da SARS-CoV-2, con riferimento alle circostanze contingenti di emergenza della pandemia COVID-19, ritiene che:
– nel caso di impianti di compostaggio e digestione anaerobica, i tempi e le temperature di trattamento lasciano supporre che sia irrilevante il rischio di trasmissione dell’infezione da SARS-CoV-2;
– ugualmente, nel caso di incenerimento o disidratazione termica, le condizioni e le temperature di trattamento lasciano ritenere irrilevante il rischio di trasmissione dell’infezione da SARS-CoV-2;
-invece, nell’ipotesi di collocamento in discarica, devono essere rigorosamente rispettate le norme di buona tecnica e di igiene e sanità pubblica ovunque ed in ogni fase. In particolare, all’atto della raccolta dei fanghi deve essere evitata la formazione di aerosol (potenziale via di trasmissione di COVID-19) e polveri, mentre il trasporto deve tendere ad evitare ogni dispersione durante il trasferimento;
– infine, nel caso di riutilizzo in agricoltura (ovvero di spandimento, produzione di ammendanti e correttivi), i fanghi devono essere gestiti secondo le buone pratiche agricole, assicurando i dovuti trattamenti (ad esempio, stabilizzazione con calce, acido solforico, ammoniaca, digestione anaerobica o aerobica, etc …).
Ciò non toglie che, in considerazione delle criticità registrate negli ultimi anni in merito alla gestione dei fanghi di depurazione, sia – a maggior ragione – necessario rafforzare i controlli su eventuali smaltimenti illeciti di fanghi non adeguatamente trattati, che potrebbero causare esposizione al potenziale infettivo della SARS-CoV-2.
Quanto sopra vale per la depurazione delle acque reflue ed il trattamento dei fanghi di depurazione, che rappresentano una quota importante dell’attività dei gestori del Servizio Idrico Integrato (S.I.I.). Ma quest’ultimo si occupa anche dei servizi di adduzione, captazione e distribuzione di acqua potabile: quindi, quali rischi di natura sanitaria ci sono per il sistema idrico?
Al momento in cui si scrive sembrerebbe che l’impatto della crisi sanitaria non riguardi la sicurezza dell’acqua potabile, in quanto il virus non è stato ad oggi mai rilevato in queste ultime[5]. Infatti, il recente documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) relativo alla gestione dell’acqua e dei servizi igienico-sanitari in riferimento al Covid-19[6] afferma che non sono necessarie misure di prevenzione e controllo aggiuntive rispetto a quanto già indicato nelle Linee Guida della stessa O.M.S. sulla qualità delle acque potabili.
In questo contesto non si può non citare il Rapporto I.S.S. Covid-19 n. 10/2020[7] recante “Indicazioni ad interim su acqua e servizi igienici in relazione alla diffusione del virus SARS-CoV-2”. Anche se il documento si rivolge in primis ai gestori del S.I.I. ed alle autorità preposte alla tutela della salute e, pertanto, coinvolte nella prevenzione e gestione di rischi correlati alla contaminazione delle acque, il rapporto riporta interessanti informazioni e spunti di riflessione.
Nonostante i virus siano responsabili di un’ampia gamma di patologie e appartengano a diverse famiglie, ad oggi non vi sono evidenze di trasmissione idrica; tuttavia, essendone stata dimostrata la presenza nelle feci, urine ed escreti di pazienti infetti, ciò non toglie che essi possano entrare nel ciclo idrico attraverso le acque reflue ed è, pertanto, necessario prendere in considerazione l’ipotesi di diffusione del virus attraverso altre modalità.
Il Rapporto precisa altresì che “nell’ambito della filiera idro-potabile esistono tuttavia alcuni rischi indirettamente correlati all’emergenza pandemica e al lockdown che potrebbero avere un impatto sulla qualità dell’acqua e la continuità dell’approvvigionamento”: è per questo che, nelle attuali circostanze di emergenza sanitaria, la fornitura di acqua potabile negli ambienti di residenza, cura e lavoro, assieme alla gestione in sicurezza dei reflui, costituisce ancor più una misura essenziale di prevenzione primaria.
È, pertanto, fondamentale che i gestori del S.I.I., sulla base della valutazione del rischio, amplino i controlli sull’intera filiera idrica, ricercando anche parametri suppletivi, non previsti dalla attuale normativa, come i virus.
In ogni caso, “l’analisi di rischio di esposizione a SARS-CoV-2 attraverso l’acqua e i servizi igienici indica che sussistono allo stato attuale elevati livelli di protezione della salute”. Infatti, a che risulti, le pratiche di depurazione oggi in uso risultano essere efficaci nell’abbattimento del virus, unitamente a quelle condizioni ambientali ostili che ne pregiudicano la vitalità (temperatura, pH, etc …), le quali terminano con una fase finale di disinfezione che permette di ottimizzare le condizioni di rimozione integrale dello stesso.
[1] Covid-19: le acque reflue sono indicatori di diffusione, in www.marionegri.it
[2] Rassegna Stampa Utilitalia, in www.utilitalia.it
[3] Versione del 3 aprile 2020.
[4] Rapporto I.S.S. Covid-19 n. 9/2020, pag.4
[5] L. LUCENTINI – P. ROSSI – G. BORTONE, La giornata Mondiale dell’acqua nella pandemia di CoViD-19, in www.arpae.it
[6] Water, sanitation, hygiene and waste management for COVID-19 (Technical brief) in https://www.who.int/publications-detail/water-sanitation-hygiene-and-waste-management-for-covid-19
[7] Versione del 7 aprile 2020
Piacenza, 11 maggio 2020
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