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L’adaptive management in materia ambientale: un confronto con i tradizionali strumenti di command and control

di Filippo De Simone

Categoria: Vigilanza e controlli

  1. Premessa

Il presente contributo si prefigge l’obiettivo di illustrare, in modo sintetico ma al tempo stesso il più possibile completo, due diverse modalità di gestione della normativa ambientale il cui confronto mette in luce quale dovrebbe essere il corretto modello normativo ed esecutivo da adottare.
In sintesi, di fronte a un danno o rischio di danno all’ambiente, ma lo stesso si può dire per la tristemente attuale crisi sanitaria, visto l’inscindibile legame tra salute umana e natura[1], bisognerebbe sempre più affiancare ai tradizionali meccanismi di command and control, tipici del diritto amministrativo, il più recente e complesso modello di adaptive management, al fine di garantire maggiore flessibilità e resilienza dell’intero sistema giuridico.

 

Da un lato quindi si osserva una regolamentazione fondata su divieti rigidi, controlli, sanzioni, dall’altro sono utilissimi anche meccanismi il più possibile elastici, in modo del tutto coerente con la complessità degli stessi ecosistemi.

 

I paragrafi seguenti sono dedicati all’approfondimento dei vantaggi e dei limiti di entrambi i modelli. Si può e si deve comunque affermare sin da ora la scarsa efficacia di quei sistemi normativi, molto legati ai tradizionali strumenti di comando e controllo, troppo rigidi per far fronte all’imprevedibilità e alla variabilità dei danni ambientali, precludendo quindi la possibilità di un adattamento efficace dinanzi alle sempre più complesse e difficili crisi che colpiscono prima la natura e poi la specie umana.
Si può affermare certamente che la costruzione di un sistema adattativo sempre più efficiente rappresenti una delle più complicate ma importanti sfide degli ordinamenti giuridici moderni. L’esperienza di gestione della pandemia da COVID-19 dà sicuramente la possibilità di compiere alcune riflessioni giuridiche di carattere generale, finalizzate alla realizzazione di un sistema più resiliente, e dunque applicabili anche alla disciplina ambientale strettamente intesa. In realtà però tale consapevolezza, quella di dover costruire un diritto dell’ambiente sempre più adattativo, sarebbe dovuta scaturire già da fenomeni di crisi ambientale ben più insidiosi e risalenti nel tempo, uno fra tutti il riscaldamento globale.

 

  1. Gli strumenti tradizionali di comando e controllo

Per comprendere cosa si intenda per adaptive management e come applicare tale modello al diritto ambientale, è prima opportuno e necessario esaminare gli strumenti giuridici che funzionano in modo opposto, in particolare i meccanismi di comando e controllo.

 

I modelli di intervento pubblico in materia ambientale solitamente prevedono una forte concentrazione del potere decisionale in capo alle istituzioni pubbliche[2] ed è proprio in questo contesto che è possibile inserire gli strumenti di command and control, intesi essenzialmente come interventi autoritativi. Si tratta, in altri termini, di discipline ambientali a standard uniformi o differenziati, cui si potrebbe aggiungere anche la programmazione ambientale regionale[3].

 

I molteplici strumenti di comando e controllo hanno sicuramente in comune l’accentramento del potere decisionale in capo agli apparati pubblici e di conseguenza tendono a non considerare in modo significativo le stime di convenienza personale decentrate[4].

 

Quelli di comando e controllo comunque sono strumenti che non vengono quasi mai applicati da soli all’interno della disciplina ambientale. A fianco degli stessi infatti sono collocabili anche dispositivi di regolamentazione che intervengono in realtà sui mercati, ad esempio attraverso l’attribuzione di marchi o attestazioni ecologiche, incentivando così comportamenti virtuosi da parte delle imprese di settore. In una posizione intermedia tra interventi autoritativi e dispositivi che influenzano il mercato, l’ordinamento predispone anche e soprattutto rimedi misti, ad esempio tasse ecologiche, sussidi verdi, permessi negoziabili[5]. Naturalmente nei vari ordinamenti le tipologie di strumenti appena delineate non sono mai contrapposte in modo netto, bensì tendono spesso a combinarsi tra loro. La maggior parte degli strumenti economici opera in effetti a supporto della regolamentazione, in una prospettiva di complementarietà[6].

 

I sistemi di comando e controllo risultano in ogni caso prevalenti nella tradizione giuridica italiana, nonostante siano poi stati introdotti anche meccanismi correttivi: la VIA o la VAS possono ad esempio rappresentare la volontà di realizzare un’alternativa alla rigidità dei meccanismi di comando e controllo.

 

Lo strumento di comando e controllo, declinato come imposizione di un divieto accompagnata alla minaccia di sanzione a carico di chi trasgredisce, rappresenta comunque, e continuerà a rappresentare, la più semplice e abituale misura dissuasiva[7]. Nel diritto positivo è possibile infatti riscontrare numerosissimi esempi di standard limitativi applicati alla disciplina delle emissioni ad esempio, con riferimento ai processi produttivi così come ai prodotti. Probabilmente proprio la presenza di tale sovrabbondanza di standard rigidi ha contribuito fortemente a tratteggiare l’idea che il diritto ambientale italiano abbia natura prettamente tabellare e formale.

 

Così come variegato e ampio è il ventaglio di obblighi e standard da osservare, altrettanto si potrebbe dire del sistema dei controlli. Anche questa è in effetti una componente essenziale, anche solo sul piano terminologico, dell’espressione “comando e controllo”.

 

I controlli in materia ambientale possono assumere la forma di un’attività amministrativa vera e propria, con funzione istruttoria, oppure un’attività di vigilanza tecnica a contenuto ispettivo, svolta da soggetti comunque pubblici ma dotati di specifiche competenze tecniche.

 

È molto importante sottolineare poi che il tema dei controlli ambientali va oggi considerato non più in un’ottica meramente repressiva, bensì come matrice interna a un sistema di generale prevenzione e risanamento[8]. Le Amministrazioni sono infatti chiamate non solo a verificare il rispetto della normativa, ma anche ad effettuare monitoraggi sulla quantità e qualità delle emissioni, nonché sulle caratteristiche di impianti e prodotti o la veridicità dei dati forniti dagli imprenditori. È evidente inoltre che la funzione dissuasiva di certe normative che impongono sanzioni ha l’obiettivo di prevenire il danno ambientale, oltre che punire il responsabile.

 

Ecco che pare emergere, allora, un sistema di comando e controllo in materia ambientale che forse altro non è che l’applicazione dell’ormai consolidato approccio precauzionale e preventivo rispetto all’eventualità del verificarsi di un danno all’ambiente e alla salute. Si ricorda che la distinzione diffusamente condivisa tra il principio di prevenzione e quello di precauzione nel diritto ambientale consiste nel fatto che, mentre il primo intende evitare un rischio scientificamente certo, il secondo si riferisce a un’incertezza del rischio medesimo, comunque richiamata da tesi scientifiche, eventualmente anche minoritarie[9].

 

Quanto alla ratio dell’intensa attività giuridica di comando e controllo in materia ambientale, oltre all’aspetto di tutela dell’ambiente in via preventiva, bisogna considerare anche che tutti i meccanismi sanzionatori basati su vincoli e penalità nascono dal fondato scetticismo riguardo alla probabilità che spontaneamente i soggetti privati assumano comportamenti virtuosi nell’interesse di tutti[10].

 

Nonostante le corrette intenzioni del legislatore, tuttavia, le peculiarità della materia ambientale impongono all’interprete di considerare con attenzione anche e soprattutto i limiti del sistema di comando e controllo.

 

 

  1. I limiti degli strumenti di comando e controllo

 

Essendo gli strumenti di comando e controllo fondati su scelte pubbliche accentrate e preventive, essi portano con sé indubbiamente il rischio di risultare più o meno sproporzionati in eccesso o in difetto, generando dunque a seconda dei casi livelli di inquinamento troppo alti oppure perdite di benessere[11]. Di conseguenza le Amministrazioni e il legislatore dovrebbero assolutamente disporre di informazioni complete e il più possibile accurate, anche nella prospettiva di creare vincoli e standard diversificati.

 

Bisogna considerare anche che non sempre i soggetti pubblici riescono ad accedere alla più variegata quantità di dati e informazioni necessari alla previsione di meccanismi di comando e controllo in materia ambientale. A questo limite si possono aggiungere le complicazioni causate dalla sovrapproduzione normativa, che si ripercuote negativamente sull’efficienza dei controlli e dei meccanismi sanzionatori, anch’essi parte integrante del sistema di command and control.

 

Una politica che preveda solo standard uniformi, inoltre, benché questo forse agevoli i meccanismi di controllo, di fatto rende difficile e meno utile l’adempimento delle prescrizioni normative, laddove non si tenga conto delle condizioni locali; sul versante opposto, la previsione di standard altamente diversificati potrebbe ridurre la capacità di controllo da parte delle Amministrazioni, fosse solo per l’enorme mole di dati e informazioni da dover gestire[12].

 

Riflettendo sulla necessità che il soggetto pubblico possieda il più ampio e dettagliato spettro di informazioni tecniche, al fine di produrre una normativa realmente efficace, viene da sé che la scienza occupa un ruolo fondamentale. Tuttavia, nonostante l’enorme progresso tecnologico e scientifico ormai raggiunto, non sempre quest’ultima riesce a fornire risposte certe alla politica; l’esperienza del COVID-19 lo ha dimostrato ampiamente, soprattutto con riferimento alla prima fase di gestione emergenziale, quando davvero il nuovo virus era praticamente sconosciuto.

 

Gli strumenti tradizionali di comando e controllo, soprattutto nella forma di meri limiti tabellari all’inquinamento, possiedono inoltre il grave difetto di non rappresentare incentivi o dissuasori adeguati al fine di non inquinare. Le imprese quindi non sono motivate a migliorare le proprie prestazioni in termini di sostenibilità ed efficienza ambientale, in quanto sono chiamate solo a non inquinare al disopra della soglia consentita dalla legge. Ciò non si verifica se invece sono le condizioni di mercato a rendere più conveniente non inquinare che inquinare, premiando di fatto le imprese più virtuose. Si è già fatto cenno all’utilità degli strumenti di regolazione della disciplina ambientale che incidono prevalentemente sul mercato, ad esempio ricorrendo a specifici marchi o attestazioni ecologiche.

 

Alcuni dei limiti già menzionati, inoltre, sono stati richiamati anche dalla Commissione europea, la quale già in passato ha messo in luce la difficoltà e la scarsa efficacia della regolamentazione tradizionale in materia ambientale[13].

 

Sul piano ecologico, inoltre, i meccanismi di comando e controllo dimostrano la tendenza, ovviamente non solo italiana, a vedere nei fenomeni ambientali non la variabilità e l’imprevedibilità, bensì la stabilità. Quest’ultima invece non è certamente una caratteristica propria dell’equilibrio dinamico degli ecosistemi[14], i quali sono in continua evoluzione e rispetto ai quali anche il sistema giuridico dovrebbe attualmente offrire prospettive di analisi, e conseguente attività normativa, il più possibile flessibili, adattative e resilienti. Tutelare giuridicamente l’ambiente, e con esso la salute umana, non significa infatti riportare la natura a un presunto stato di perfezione originaria, bensì garantire la sua resilienza intesa come capacità di adattamento a perturbazioni di vario genere[15].

 

La necessità di uscire dalla rigidità dei meccanismi tradizionali di comando e controllo ha portato gradualmente, come già accennato, alla formazione di particolari istituti ben distinguibili all’interno del panorama del diritto amministrativo nazionale, ad esempio VIA e VAS, che però non possono essere oggetto di approfondimento in questa sede.

 

Tuttavia risultano ancora necessari, attualmente, degli sforzi considerevoli per rendere il sistema giuridico davvero più resiliente e adattativo nei confronti delle crisi ambientali.
La resilienza del sistema giuridico dovrebbe indicare la capacità di affrontare una crisi o un evento estremo, non necessariamente di tipo ambientale, attraverso strumenti che consentano all’ordinamento di ritornare nella propria condizione di equilibrio. In altri termini la resilienza misura l’elasticità e la flessibilità nell’adattamento da parte di un qualsiasi sistema, il quale non deve giungere al punto di rottura, non deve collassare. Le strategie attuate per contrastare il COVID-19 oppure il riscaldamento globale costituiscono interessanti esempi applicativi di tali riflessioni giuridiche.

 

Si tenga presente che il sistema fondato sul comando e controllo in materia ambientale rappresenta tuttora comunque uno strumento irrinunciabile e fondamentale al fine di proteggere gli interessi ambientali[16] soprattutto nei momenti di crisi immediata, non esistendo ancora valide alternative.
Questo è oggi più che mai evidente anche se si parla di emergenze sanitarie, che andrebbero gestite in modo adattativo rispetto all’imprevedibilità dei danni arrecati all’intero sistema, ma che sono al tempo stesso difficilmente gestibili se non facendo emergere da un lato il potere autoritativo dello Stato e dall’altro i doveri dei cittadini[17]. In questo caso infatti la sola programmazione di strategie per l’adattamento sul medio e lungo periodo non è sufficiente se non accompagnata dalle concrete azioni dei consociati, i quali rispondono essenzialmente a doveri di solidarietà imposti dal soggetto pubblico.

 

Il modello del comando e controllo si rivela comunque indispensabile anche in tutti quei casi di contingibilità e urgenza nei quali si assiste a un serio ed immediato pericolo per le matrici ambientali, visto che l’intervento autoritativo offre comunque la possibilità di un’azione molto più rapida rispetto a un vero e proprio adattamento a livello di sistema.

 

Sembrano invece non valere le medesime considerazioni laddove ci si riferisca a deterioramenti ambientali di lungo periodo, cioè le crisi permanenti, prima fra tutte il riscaldamento globale, ma anche ad esempio la perdita di biodiversità, rispetto alle quali le rigide prescrizioni autoritative, in altri termini il command and control, non consentono un adattamento davvero resiliente ed efficace. La resilienza del sistema giuridico ai cambiamenti climatici, infatti, non dipende certamente dagli interventi autoritativi e tendenzialmente decentrati da parte dei soggetti pubblici.

 

 

  1. L’adaptive management in materia ambientale

 

Il modello di adaptive management, cioè il sistema il più possibile adattativo che il soggetto pubblico dovrebbe adoperare per amministrare il diritto ambientale, come già anticipato, assume una prospettiva quasi antitetica rispetto alle rigide prescrizioni di comando e controllo.

 

Ciò non significa, si badi bene, che si debba effettuare una scelta tra l’uno e l’altro meccanismo di produzione normativa; il sistema di divieti e sanzioni non può e non deve essere eliminato dall’ordinamento.
Al tempo stesso tuttavia bisognerebbe potenziare la tutela dell’ambiente anche in senso adattativo, soprattutto in fase di programmazione e pianificazione. Il presente paragrafo intende illustrare non solo cosa si debba concretamente intendere per gestione adattativa della materia ambientale, ma anche le valide ragioni per orientare sempre più l’intero ordinamento verso tale direzione.

 

Il sistema di adaptive management in materia ambientale è ormai conosciuto sia da dottrina nazionale[18] sia da dottrina straniera, in particolare statunitense[19], nonostante implichi riflessioni giuridiche molto ampie, non sempre facilmente e immediatamente attuabili. Questo perché l’adattabilità di un sistema giuridico prescinde sicuramente da questa o quella specifica e isolata previsione normativa, abbracciando prospettive ben più estese sul piano spaziale e temporale.

 

La gestione adattativa che il diritto ambientale dovrebbe fare propria riguarda dunque nuove strategie giuridiche resilienti basate soprattutto sulla raccolta d’informazioni e il monitoraggio dei risultati, in un quadro complessivo che sia interdisciplinare ed evolutivo.

 

Monitoraggio, valutazione e successiva ricalibrazione sono gli elementi alla base dell’approccio decisionale denominato adaptive management[20]. Seguendo questo modello il sistema giuridico dovrebbe determinare i propri obiettivi, soprattutto normativi, non in maniera aprioristica, ma sulla base di cicli interattivi, costruzione di nuovi modelli e definizione degli standard di prestazione.

 

Tra i vari passaggi in cui si articola una corretta gestione adattativa il primo e più importante è rappresentato dall’inquadramento del problema ambientale. Definire e visualizzare la portata del danno, tuttavia, non sempre è agevole, vista l’elevata variabilità e la scarsa prevedibilità dei fenomeni che possono costituire una crisi ambientale. Quanto all’imprevedibilità, anche in materia pandemica risulta ormai più che evidente la difficoltà per la scienza di prevedere in modo nitido e certo ciò che avverrà in futuro, con conseguente disorientamento prima politico, nel senso di non comprendere totalmente le conseguenze di certi interventi normativi, poi sociale[21].

 

L’approccio dell’adaptive management intende quindi abbandonare la prospettiva per cui tutti gli effetti dell’intervento normativo possano essere completamente previsti e valutati prima della decisione, introducendo invece meccanismi, da formalizzare a livello giuridico, in forza dei quali l’organo decisore deve costantemente integrare nuove informazioni in un processo decisionale già in corso[22].

 

Il sistema giuridico che adoperi tale modello adattativo potrebbe apparire in un primo momento inefficiente, poiché poco stabile, in continua evoluzione, senza punti fermi di riferimento, ma questa in realtà è una caratteristica positiva se si pensa che l’obiettivo è proprio offrire risposte alla variabilità e imprevedibilità dei problemi ambientali di lungo termine.

 

La stessa dottrina statunitense che ha approfondito tali riflessioni, comunque, riconosce che l’adaptive management potrebbe in realtà non essere un modello molto utile laddove invece le conseguenze dell’azione legislativa sull’ambiente si conoscano e siano ben prevedibili[23]. Al contrario, anche solo per sperare di gestire correttamente le conseguenze dei cambiamenti climatici, quello in oggetto è considerato l’unico modello di governance efficace[24], ovviamente sul lungo periodo.

 

 

  1. I limiti dell’adaptive management

 

Alla lettura del precedente paragrafo dovrebbe apparire subito chiaro il fondamentale vantaggio del sistema adattativo in materia ambientale: un approccio maggiormente flessibile è quello meglio corrispondente alle caratteristiche dei problemi ambientali di lungo termine, poco prevedibili e molto variabili. Tutto ciò comunque non significa che non possano esservi distorsioni o limiti di tale metodo, che dal punto di vista pratico rimane in parte difficile da attuare forse proprio per la sua complessità.

 

Il fondamentale ostacolo pare essere rappresentato dal principio di legalità, il quale, in senso molto generale, indica la conformità dei poteri pubblici alla legge, cioè l’atto formale dell’organo titolare della funzione legislativa, oppure qualsiasi norma giuridica dell’ordinamento[25]. È soprattutto l’azione delle Amministrazioni a dover rispondere a parametri normativi prestabiliti, sviluppati a priori rispetto alla fattispecie da regolare, i quali spesso rendono meno efficace la reazione immediata in un dato momento e su una certa area.

 

In altri termini, anche parlando di adaptive management, non ci si può muovere in un ambito che non sia stato in qualche misura già predeterminato dalla legge. Questo inevitabile richiamo al dato positivo potrebbe tuttavia ridurre sensibilmente la flessibilità di un ordinamento giuridico resiliente, dunque anche la sua capacità di learning while doing[26], poiché in quest’ultimo caso bisognerebbe invece creare processi decisionali volutamente lasciati aperti, non predeterminati, così da consentire il continuo reintegro di informazioni e quindi nuove valutazioni. Di questi aspetti si terrà conto nel successivo paragrafo, dedicato alle modalità concrete di realizzazione dell’adaptive management.

 

Se il problema è nelle norme, quest’ultime dovrebbero rappresentare la soluzione: l’unico modo per evitare la violazione del principio di legalità potrebbe essere la produzione di nuove specifiche normative pensate proprio per un adattamento di lungo periodo, che consentano alle Amministrazioni di costruire strategie resilienti senza appunto risultare in contrasto col dato positivo.

 

L’adaptive management tuttavia, insieme al learning while doing riferito alle Amministrazioni, possiede un secondo aspetto critico, ben diverso dall’eventuale contrasto con il principio di legalità: eventuali inefficienze derivanti dall’estremizzazione del concetto di adattamento ex post rispetto a una fattispecie critica.

 

Se infatti è vero che il sistema adattativo deve essere in grado di agire in modo repentino ed efficace, adeguando la reazione al danno eventuale o già prodotto, al tempo stesso non si può concepire alcun sistema adattativo che non possieda anche una forte componente legata alla prevenzione e analisi delle fattispecie di rischio. Se mancano corrette e approfondite valutazioni ex ante, infatti, le sole misure adottate ex post, seguendo empiricamente l’evolversi della crisi, potrebbero risultare presto inadeguate. In caso di costante peggioramento della situazione, infatti, saranno necessarie ulteriori e diverse misure, le quali a loro volta potrebbero mostrarsi inefficaci in breve tempo.

 

Il soggetto pubblico quindi non dovrebbe limitarsi ad aggiustare, adeguare, di volta in volta il proprio intervento alla luce delle contingenze, senza una corretta pianificazione ex ante. Entrambi gli elementi, reattività nella risposta adattativa e pianificazione degli interventi, o quanto meno degli scenari possibili, devono sussistere contemporaneamente all’interno dell’adaptive management. Se si tende solo verso uno dei due estremi, invece, i risultati ottenibili saranno parziali e dunque insoddisfacenti.

 

Le ampie riflessioni giuridiche sinora svolte potrebbero in realtà essere applicate a qualsiasi tipo di crisi che si manifesti con conseguenze scarsamente prevedibili e altamente variabili, a livello globale o localizzato, in un lasso di tempo più o meno esteso. Il lettore avrà sicuramente già colto ancora una volta il richiamo alla gestione dell’emergenza pandemica, condividendo forse con chi scrive la personale sensazione per cui in questo caso il diritto insegua il problema senza riuscire davvero a prevenirlo.

 

Si tenga presente tuttavia che quella sanitaria rappresenta una crisi davvero minima se confrontata con le conseguenze disastrose e per buona parte imprevedibili del riscaldamento globale o della perdita di biodiversità, assai più estese nel tempo e nello spazio.

 

 

  1. Costruire un sistema giuridico adattativo

 

Resta ora da comprendere in che modo, concretamente, sia possibile costruire un sistema giuridico maggiormente adattativo, così come è stato definito nel precedente paragrafo.

 

Il terreno applicativo, il laboratorio in cui sperimentare nuovi strumenti giuridici, rimane prevalentemente quello del cambiamento climatico, proprio perché, come già più volte anticipato, quest’ultimo rappresenta un complesso insieme di fenomeni dalle conseguenze quasi imprevedibili e altamente variabili. Si pensi solo a quante conseguenze possa avere l’inquinamento dal punto di vista dell’aumento delle temperature, della salute, della presenza di insetti impollinatori e quindi produzione ortofrutticola, i quali sono tutti fenomeni destinati a produrre a loro volta reazioni a catena disastrose. Come può allora il diritto valutare tutti questi aspetti nella costruzione di strategie adattative di lungo periodo rispetto alla crisi climatica?

 

Quanto alle modalità attuative dell’adaptive management, la dottrina statunitense che si è occupata del tema ha richiamato la necessità che i soggetti pubblici agiscano seguendo essenzialmente otto diverse fasi di intervento[27].

 

Si è già accennato alla prima di queste: la valutazione iniziale del problema. A ciò dovrebbe seguire la seconda fase riguardante la determinazione degli scopi e degli obiettivi che s’intende perseguire nella gestione di un certo ecosistema e la terza che concerne l’individuazione delle condizioni per l’equilibrio di base dello stesso[28]. Naturalmente per ecosistema non si deve necessariamente intendere una porzione di natura vergine da proteggere, peraltro sempre più difficile da trovare, quanto piuttosto le innumerevoli ipotesi di interrelazione tra ambiente e attività antropica.

 

La quarta, quinta e sesta fase si riferiscono rispettivamente allo sviluppo di modelli concettuali, alla selezione di future azioni di recupero o ripristino dell’ecosistema e alla concreta implementazione delle stesse. La settima fase è quella in cui si verifica, attraverso un successivo e necessario monitoraggio, quale sia la risposta dell’ecosistema rispetto agli interventi posti in essere dal soggetto pubblico. L’ultimo momento dell’adaptive management, infine, riguarda la valutazione di eventuali sforzi per nuovi interventi, cioè azioni correttive.

 

È evidente che la possibilità di agire nuovamente a seguito del monitoraggio, grazie a interventi correttivi, rappresenta il vero e proprio punto nevralgico dell’adaptive management. Solo così, infatti, si consegue il sopracitato obiettivo di costruire un processo decisionale che rimanga sostanzialmente aperto all’ingresso di nuove informazioni, abbandonando qualsiasi pretesa di riuscire a determinare aprioristicamente le risposte ecosistemiche.

 

Il sistema adattativo allora risulterebbe pienamente efficace se proprio a livello normativo venissero formalizzati dei meccanismi per arricchire eventualmente il processo decisionale già avviato, introducendo dunque azioni correttive. In altri termini, secondo i parametri dell’adaptive management, le Amministrazioni che tornano ad effettuare un secondo o terzo intervento, magari diversi, sulla medesima fattispecie, non sono fallimentari, bensì virtuose.

 

Tuttavia si è già detto che per garantire il rispetto del principio di legalità sono necessarie normative specifiche che rendano giuridicamente possibile tale gestione adattativa delle crisi ambientali. Le future ed eventuali normative di cui si sta discutendo rappresentano l’unico modo per favorire realmente la trasposizione nel contesto giuridico italiano dell’adaptive management, cioè il fatto che le Amministrazioni riescano quasi ad imparare nel momento stesso in cui agiscono, vista l’impossibilità di prevedere esattamente tutte le conseguenze dei loro interventi. È proprio qui che si rinviene il concetto di learning while doing, molto caro alla dottrina statunitense.

 

 

  1. Considerazioni conclusive

 

Alla luce di quanto scritto, in conclusione, si consideri che il sistema giuridico, a livello locale così come nazionale o sovranazionale, deve sempre essere in grado di ricalcolare anche con una certa frequenza i propri obiettivi, abbandonando prospettive eccessivamente rigide.

 

È inoltre fondamentale saper gestire la crisi ambientale in modo corretto non solo sul piano temporale ma anche dal punto di vista spaziale, visto il carattere transfrontaliero dei danni ambientali così come delle conseguenze dei cambiamenti climatici[29]. In effetti l’adaptive management, così come probabilmente l’intero diritto ambientale, mal si concilia con prospettive di analisi che siano eccessivamente localizzate.

 

Sarebbe allora estremamente importante, a livello di sistema sovranazionale, potenziare le reti intergovernative al fine di garantire sempre migliori interventi[30], senza comunque dimenticare il ruolo dei contesti locali nel favorire l’adattamento dell’intero sistema.

 

Un’eccessiva centralizzazione del processo decisionale, inoltre, potrebbe sottovalutare o non considerare adeguatamente ciò che avviene a livello localizzato, mentre i contributi offerti dai territori in cui la crisi ambientale si manifesta maggiormente sono di fondamentale importanza. Risulta di conseguenza utile stimolare, anche a livello normativo, la collaborazione tra componenti diverse nonché il decentramento delle strutture di governance. Sul piano strettamente giuridico, nuovi istituti partecipativi fondati su finalità collaborative e non meramente difensive di interessi privati potrebbero rappresentare un’interessante modalità di coinvolgimento delle comunità locali all’interno dei processi decisionali in materia ambientale.

 

L’attivazione dei meccanismi di adaptive management, in definitiva, o quantomeno una seria riflessione da parte dei soggetti pubblici sull’utilità di tale modello, pare essere il primo fondamentale passo per reagire giuridicamente alla crisi globale e perenne rappresentata dai cambiamenti climatici.

 

Si torna a ribadire infine che il presente contributo non intende richiamare la necessità di scegliere tra command and control e adaptive management, in quanto il secondo può e deve essere implementato, ma il primo non è certamente eliminabile dall’ordinamento. L’adaptive management in questo senso potrebbe rappresentare il tentativo di colmare gli inevitabili limiti che il solo meccanismo di comando e controllo presenta. Questo è il nucleo centrale della riflessione giuridica che è stata fin qui proposta.

 

 

 

 

Bibliografia

R.W. Adler, Resilience, Restoration, and Sustainability: Revisiting the Fundamental Principles of the Clean Water Act, in Washington University Journal of Law & Policy, Vol. 32, Issue 1, 2010

  1. Barone, Il diritto del rischio, Giuffrè, Milano, 2006

W.J. Baumol – W.E. Oates, The Theory of Environmental Policy, 2° ed., Cambridge University Press, 1988

  1. Bresso, Economia Ecologica, Jaca Book, Milano, 1997
  2. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Giappichelli, Torino, 2007
  3. Caravita, Diritto pubblico dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 1990, 41 ss
  4. De Gregorio, Poteri autorizzatori e poteri di controllo della pubblica amministrazione. Profili generali e di tutela dell’ambiente, Manuali e linee guida ISPRA 160/2017
  5. Greco, La resilienza degli ecosistemi in Micron, 2018
  6. Pantalone, M. Denicolò, Responsabilità, doveri e coronavirus: l’ossatura dell’ordinamento nelle emergenze “esistenziali”, in Il diritto dell’economia, n.101, 2020, 125-16
  7. Pantalone, Autorità indipendenti e matrici della legalità, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018

J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption in North Carolina Law Review, 2011

 

[1] La salute umana è indubbiamente connessa alla tutela dell’ambiente, basti pensare solo alle conseguenze dell’inquinamento sull’apparato respiratorio. Nonostante ciò è sempre opportuno trattare i due ambiti in modo differente e ben separato, sul piano teorico e pratico. La tutela della salute riguarda interventi posti in essere nei confronti della persona umana, mentre la protezione dell’ambiente si riferisce agli ecosistemi. In altri termini l’azione di prevenzione sanitaria non può essere identificata già negli interventi di protezione ambientale. Si veda sul punto B. Caravita, Diritto pubblico dell’ambiente, Bologna, 1990, 41 ss.

[2] M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007, 329.

[3] M. De Gregorio, Poteri autorizzatori e poteri di controllo della pubblica amministrazione. Profili generali e di tutela dell’ambiente, Manuali e linee guida ISPRA 160/2017, 22.

(disponibile su https://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/manuali-e-linee-guida/poteri-autorizzatori-e-poteri-di-controllo-della-pubblica-amministrazione.-profili-generali-e-di-tutela-dell2019ambiente)

[4] M. De Gregorio, Poteri autorizzatori e poteri di controllo della pubblica amministrazione. Profili generali e di tutela dell’ambiente, cit., 23.

[5] M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, cit., 330.

[6] Si veda ex multis W.J. Baumol – W.E. Oates, The Theory of Environmental Policy, 2° ed., Cambridge University Press, 1988.

[7] M. Bresso, Economia Ecologica, Milano, 1997, 24 ss.

[8] M. De Gregorio, Poteri autorizzatori e poteri di controllo della pubblica amministrazione. Profili generali e di tutela dell’ambiente, cit., 160.

[9] A. Barone, Il diritto del rischio, Milano, 2006, 77.

[10] M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, cit., 335.

[11] M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, cit., 336.

[12] M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, cit., 337.

[13] Secondo la Comunicazione della Commissione COM (2000) 576 def.: «La regolamentazione tradizionale in materia ambientale ha creato il diritto di inquinare indicando, ad esempio, dei valori limite che definiscono il livello massimo di inquinamento consentito per ogni fonte di emissione. Le imprese non sono dunque incentivate a raggiungere risultati superiori agli standard stabiliti. Questo tipo di regolamentazione adotta sempre più spesso standard differenziati a seconda del tipo di tecnologia di produzione. Anche le normative più sofisticate non tengono tuttavia completamente conto della diversa capacità delle singole fonti di ridurre le proprie emissioni. È estremamente difficile legiferare per un’ampia varietà di imprese dati i costi diversi che esse dovrebbero sostenere per passare a tecniche di produzione più pulite.»

[14] I sistemi ecologici (per una definizione si veda http://www.treccani.it/enciclopedia/ecosistema) sono in costante ricerca di un equilibrio, il quale tuttavia non è mai stabile. Si pensi solo alle continue interazioni tra specie selvatiche e attività antropica, in risposta alla quale animali e piante di tutto il mondo sono in uno stato di perenne adattamento. Frequenza dello stress, clima, suolo e biodiversità rappresentano le quattro principali variabili che determinano il grado di resilienza di un ecosistema. Per approfondimenti si veda ex multis P. Greco, La resilienza degli ecosistemi in Micron, 2018.

La resilienza degli ecosistemi

[15] R.W. Adler, Resilience, Restoration, and Sustainability: Revisiting the Fundamental Principles of the Clean Water Act, in Washington University Journal of Law & Policy, Vol. 32, Issue 1, 2010, 149.

[16] M. De Gregorio, Poteri autorizzatori e poteri di controllo della pubblica amministrazione. Profili generali e di tutela dell’ambiente, cit., 251.

[17] Sta emergendo in dottrina la tesi per cui, durante le gravissime emergenze, a differenza di quanto accade in situazioni ordinarie, i diritti e le libertà, pur trovando comunque un riconoscimento, arretrano per far spazio ai doveri e alle responsabilità. Si veda P. Pantalone, M. Denicolò, Responsabilità, doveri e coronavirus: l’ossatura dell’ordinamento nelle emergenze “esistenziali”, in Il diritto dell’economia, n.101, 2020, 125-166, 157.

[18] Si veda M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, cit.

[19] Si veda J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption in North Carolina Law Review, 2011.

[20] J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption, cit., 1390.

[21] Deve far riflettere ad esempio la dichiarazione del presidente francese Macron a fine ottobre 2020: «Il virus circola a una velocità che anche le previsioni più pessimiste non avevano previsto».

https://www.repubblica.it/esteri/2020/10/28/news/coronavirus_macron_lockdown_francia-272190365/

[22] J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption, cit., 1396.

[23]J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption, cit., 1401.

[24] Si veda la nota precedente.

[25] P. Pantalone, Autorità indipendenti e matrici della legalità, Napoli, 2018, 78.

[26] J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption, cit., 1392-1393.

[27] J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption, cit., 1391.

[28] Letteralmente «determination of the ecosystem baseline». J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption, cit., 1391.

[29] Anche le istituzioni europee sono di questo avviso. Già nel Libro Bianco del 2009 sull’adattamento ai cambiamenti climatici, ad esempio, si legge che: «Il ruolo dell’UE è particolarmente importante quando gli effetti dei cambiamenti climatici travalicano i confini dei singoli paesi (ad esempio nel caso di bacini fluviali e marittimi e di regioni biogeografiche). L’adattamento richiede la solidarietà tra gli Stati membri dell’UE, per permettere alle regioni svantaggiate e a quelle maggiormente colpite dai cambiamenti climatici di adottare le misure necessarie ai fini dell’adattamento. L’azione coordinata dell’UE sarà inoltre necessaria in alcuni settori (come l’agricoltura, le acque, la biodiversità, la pesca e le reti energetiche) che sono strettamente integrati a livello di UE attraverso il mercato unico e le politiche comuni.»

[30] J.B.Ruhl, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal system – with application to climate change adaption, cit., 1399.

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