Preveniamo rischi Risolviamo problemi Formiamo competenze
"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Con una recente nota inviata al Premier Mario Draghi, l’AGCM ha trasmesso una serie di proposte di riforma ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza. In questo documento vengono sottoposti ad analisi una serie di settori e, sulla scorta di tali valutazioni, avanzate modifiche normative.
Uno di questi settori è quello dei rifiuti. Al riguardo si affrontano diversi punti: la privativa dei comuni sulla gestione degli urbani, la nuova disciplina dell’accordo ANCI/CONAI e lo sviluppo dell’impiantistica nel settore degli urbani indifferenziati.
Sul primo aspetto viene rilevato come a seguito della recente riforma della disciplina la nuova definizione di rifiuto urbano sia diventata attrattiva anche rispetto a quello non domestico ma similare, modificando così la precedente impostazione secondo cui erano parificati agli urbani solo i rifiuti generati dalla attività produttive individuate con apposito provvedimento.
L’AGCM fa notare che oggi tutti i rifiuti simili ai domestici sono classificati in via di principio tra gli urbani, pertanto gli esercizi economici sono tenuti a conferire i rifiuti simili da loro prodotti al servizio pubblico di gestione (raccolta e trattamento) territorialmente competente, tranne il caso in cui non intendano avvalersi di operatori privati.
In questo ambito, l’AGCM non condivide la disposizione secondo cui una volta scelta la gestione pubblica, non si possa recedere se non dopo un periodo di 5 anni. L’Autority sostiene che in tal modo si verrebbe ad ostacolare la concorrenza e propone pertanto di cancellare il periodo dei 5 anni.
Eppure esistono forti argomenti che giustificano tale disposizione. Peraltro, l’AGCM non sembra rendersi conto che un simile ritocco normativo non cambierebbe nulla agli effetti pratici. Infatti, i comuni e gli ATO sono tenuti a pianificare la gestione dei rifiuti urbani su base pluriennale (art. 203, 3°, d. lgvo n. 152/06), quindi per poter procedere all’assegnazione del servizio di gestione dei rifiuti urbani dovranno prima definire il fabbisogno in termini di servizio di raccolta così come del loro trattamento. Ciò fa sì che il comune/ATO disponga di un dato affidabile almeno sul medio periodo.
Se fosse data piena libertà agli esercizi produttivi di entrare ed uscire liberamente dal servizio pubblico, il comportamento del comune/ATO sarebbe quello di orientare il proprio fabbisogno sulla base del worst case, ossia quello in cui ci si debba attendere che tutti i produttori di rifiuti simili agli urbani si avvalgono del servizio pubblico. In questa ipotesi, tali maggiori costi verrebbero riversati nella quota fissa della tassa/tariffa, che gli esercizi produttivi sarebbero comunque tenuti a pagare anche laddove intendano avvalersi del servizio privato.
Infatti, l’AGCM non sembra tenere nella giusta considerazione il passaggio contenuto nel testo del comma 10 dell’art. 238, del d. lgvo n. 152/06, allorquando stabilisce che le utenze non domestiche che producono rifiuti urbani e li conferiscono al di fuori del servizio pubblico sono escluse dalla corresponsione della componente tariffaria rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti. In altri termini, anche queste utenze dovranno pagare comunque la componente fissa.
Un altro tema che solleva l’AGCM è quello della previsione normativa di cui all’art. 224 del d. l.vo n. 152/06 che impone tra le parti dell’accordo ANCI/CONAI anche le associazioni rappresentative dei gestori delle piattaforme di selezione. È, in effetti, questa un’anomalia, e su questo possiamo essere d’accordo con l’AGCM. Anche se l’Autorità non sembra fornire argomentazioni valide al riguardo. E, in mancanza, proviamo noi.
Da una parte, infatti, non si capisce per quale motivo questo diritto/obbligo di partecipazione debba riguardare solo il settore degli imballaggi e non anche gli altri settori coperti da regimi EPR. Dall’altra non trova giustificazione che tale titolo di rappresentanza sia limitato solo agli operatori delle piattaforme e non anche a chi svolge altri servizi connessi alla definizione della copertura dei costi attribuibili ai produttori in regime EPR, come ad esempio la raccolta, la preparazione per il riutilizzo, la sensibilizzazione, etc …
Ma soprattutto è quantomeno fuori luogo far partecipare ad una negoziazione tra i soggetti sottoposti a regime EPR e i soggetti tenuti per legge a gestire i rifiuti urbani sulla definizione di costo efficiente da remunerare anche le rappresentanze di coloro che parteciperanno successivamente alle assegnazioni di tali servizi. Ciò offre a questa categoria l’arma del veto – rifiutandosi di sottoscrivere la stipula dell’accordo – per spuntare i prezzi più convenienti per loro, a dispetto dell’efficienza.
Sarebbe giusto dunque opportuno riscrivere questa disposizione.
Infine, l’AGCM propone di modificare il d.l.vo n. 152/06 introducendo opportune misure di snellimento burocratico degli iter autorizzativi degli impianti di incenerimento con recupero energetico. A questo punto sorgono diverse domande. Che c’entra questo con la concorrenza? Perché l’AGCM interviene in un settore che non è di sua competenza?
Ma qui, purtroppo, non si tratta di solo di incompetenza per materia, ma anche di altro. L’AGCM mostra ancora una volta di non (ri)conoscere le politiche a tutela dell’ambiente europee e nazionali. Essa ritiene che il problema della mancata realizzazione degli inceneritori sia dovuto all’effetto Nimby e presume che una banale semplificazione dovrebbe risolvere il problema.
L’articolazione argomentativa dell’AGCM, in realtà, difetta non tanto nelle conclusioni, quanto nella partenza. Quest’ente assume come obiettivo primario della disciplina della gestione dei rifiuti urbani quello di riduzione del conferimento in discarica e sulla base di ciò ritiene imprescindibile procedere alla costruzione di nuovi impianti di incenerimento. In realtà, l’obiettivo delle politiche di settore è quello della circolarità, che deve evitare non solo la discarica, ma quanto più possibile il recupero energetico, tranne nel caso delle cosiddette risorse rigenerative.
Basti solo citare il regolamento europeo 2020/852 – norma che trova diretta applicazione nel nostro ordinamento giuridico – sulla tassonomia degli investimenti ecosostenibili che all’art. 13, comma 1, lett. j) dispone che un’attività economica dà un contributo sostanziale alla transizione verso un’economia circolare, compresi la prevenzione, il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti, se riduce al minimo l’incenerimento dei rifiuti ed evita lo smaltimento dei rifiuti, compresa la messa in discarica, conformemente ai principi della gerarchia dei rifiuti. E all’art. 17 afferma, poi, che arreca un danno significativo all’economia circolare un‘attività che comporta un aumento significativo della produzione, dell’incenerimento o dello smaltimento dei rifiuti, ad eccezione dell’incenerimento di rifiuti pericolosi non riciclabili.
Quindi, la proposta che invoca l’AGCM non solo non incontra gli obiettivi dell’economia circolare, ma viola la Costituzione, in quanto contrasta con il diritto di emanazione europea.
Se volesse rimanere nel tema della concorrenza, in realtà, l’AGCM avrebbe dovuto chiedersi come mai in Italia esistono percorsi amministrativi più pesanti per chi fa riciclaggio, rispetto a chi invece fa incenerimento. Non contrasta con la concorrenza il fatto che gli inceneritori sono sovvenzionati – tassa/tariffa, prezzo premiale per l’elettricità immessa nella rete –, mentre chi fa riciclaggio non ha alcuna sovvenzione? O ancora, non contrasta con la concorrenza il fatto che chi ottiene un’autorizzazione EoW per riciclaggio è sottoposto a controlli più pesanti – e del tutto ingiustificati – rispetto a chi fa recupero energetico o a chi gestisce una discarica?
A questo punto, dopo ripetuti interventi di questo tipo, è lecito domandarsi come sia possibile che una struttura dello Stato – come l’AGCM – possa continuare a collezionare errori così pacchiani. E diventa fondato il sospetto che non si tratti solo impreparazione, quanto piuttosto di una posizione ideologica che deriva proprio dal fatto di essere un simile ente.
Infatti, tutte le Autority soffrono di un limite strutturale: giudicano tutto attraverso la lente dell’interesse, al quale sono preposti. Per l’AGCM è la concorrenza, che diventa un imperativo per le loro decisioni. L’AGCM non può – non è in grado? non vuole? – mettere in dubbio che in determinati casi la concorrenza è un ostacolo allo sviluppo di determinati settori – anche economici – e che l’ordinamento giuridico italiano e internazionale abbiano deciso di limitarla, se non addirittura escluderla. Come spesso accade nelle politiche di tutela ambientale.
Peraltro, è utile rammentare come, ad esempio, i Trattati istitutivi e di funzionamento dell’EU non parlino mai di un principio di concorrenza, bensì solo di regole di concorrenza. In altri termini, per l’UE la concorrenza deve essere regolata, ma non costituisce uno scopo fondante.
Il comma 3, dell’art. 3, del Trattato istitutivo dell’EU testualmente afferma che L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.
Aggiunge, poi, che tra le finalità dell’UE vi è la lotta all’esclusione sociale e la discriminazione, la promozione della giustizia e protezione sociali, della parità tra i sessi, della solidarietà tra le generazioni e della tutela dei minori, della coesione economica, sociale e territoriale.
Queste finalità, peraltro, trovano il loro fondamento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dove troviamo la tutela dell’ambiente e non la concorrenza.
È il Trattato sul funzionamento dell’UE che ci spiega che tra i settori di competenza dell’Unione vi è anche la definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno. Questo inciso ci spiega bene come la concorrenza non rappresenta un fine a sé stesso, ma solo uno strumento. Una distinzione fondamentale che riordina la gerarchia tra le materie di intervento. In altri termini, l’ordinamento giuridico europeo non potrà mai accettare un’interpretazione secondo cui le regole di concorrenza possano limitare lo sviluppo sostenibile o lo sviluppo di un’economia sociale di mercato. Invertire questa gerarchia significa violare i diritti fondamentali e minare le basi istitutive dell’Unione.
In un simile contesto normativo, si può ritenere l’azione dell’AGCM efficace ed efficiente e rispondente al principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione? Forse, è giunto il momento di rivedere il ruolo delle autority.
Peraltro, con il suo approccio ideologico l’AGCM diventa essa stessa un attore Nimby, poiché l’apertura di simili controversie non fanno altro che rallentare lo sviluppo delle politiche ambientali nel nostro Paese, nonché la realizzazione dell’idonea capacità impiantistica necessaria per lo sviluppo sostenibile e delle dinamiche della concorrenza nei settori dove dobbiamo ancora crescere.
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AGCM: ideologia contro la tutela dell’ambiente
di Stefano Leoni
Con una recente nota inviata al Premier Mario Draghi, l’AGCM ha trasmesso una serie di proposte di riforma ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza. In questo documento vengono sottoposti ad analisi una serie di settori e, sulla scorta di tali valutazioni, avanzate modifiche normative.
Uno di questi settori è quello dei rifiuti. Al riguardo si affrontano diversi punti: la privativa dei comuni sulla gestione degli urbani, la nuova disciplina dell’accordo ANCI/CONAI e lo sviluppo dell’impiantistica nel settore degli urbani indifferenziati.
Sul primo aspetto viene rilevato come a seguito della recente riforma della disciplina la nuova definizione di rifiuto urbano sia diventata attrattiva anche rispetto a quello non domestico ma similare, modificando così la precedente impostazione secondo cui erano parificati agli urbani solo i rifiuti generati dalla attività produttive individuate con apposito provvedimento.
L’AGCM fa notare che oggi tutti i rifiuti simili ai domestici sono classificati in via di principio tra gli urbani, pertanto gli esercizi economici sono tenuti a conferire i rifiuti simili da loro prodotti al servizio pubblico di gestione (raccolta e trattamento) territorialmente competente, tranne il caso in cui non intendano avvalersi di operatori privati.
In questo ambito, l’AGCM non condivide la disposizione secondo cui una volta scelta la gestione pubblica, non si possa recedere se non dopo un periodo di 5 anni. L’Autority sostiene che in tal modo si verrebbe ad ostacolare la concorrenza e propone pertanto di cancellare il periodo dei 5 anni.
Eppure esistono forti argomenti che giustificano tale disposizione. Peraltro, l’AGCM non sembra rendersi conto che un simile ritocco normativo non cambierebbe nulla agli effetti pratici. Infatti, i comuni e gli ATO sono tenuti a pianificare la gestione dei rifiuti urbani su base pluriennale (art. 203, 3°, d. lgvo n. 152/06), quindi per poter procedere all’assegnazione del servizio di gestione dei rifiuti urbani dovranno prima definire il fabbisogno in termini di servizio di raccolta così come del loro trattamento. Ciò fa sì che il comune/ATO disponga di un dato affidabile almeno sul medio periodo.
Se fosse data piena libertà agli esercizi produttivi di entrare ed uscire liberamente dal servizio pubblico, il comportamento del comune/ATO sarebbe quello di orientare il proprio fabbisogno sulla base del worst case, ossia quello in cui ci si debba attendere che tutti i produttori di rifiuti simili agli urbani si avvalgono del servizio pubblico. In questa ipotesi, tali maggiori costi verrebbero riversati nella quota fissa della tassa/tariffa, che gli esercizi produttivi sarebbero comunque tenuti a pagare anche laddove intendano avvalersi del servizio privato.
Infatti, l’AGCM non sembra tenere nella giusta considerazione il passaggio contenuto nel testo del comma 10 dell’art. 238, del d. lgvo n. 152/06, allorquando stabilisce che le utenze non domestiche che producono rifiuti urbani e li conferiscono al di fuori del servizio pubblico sono escluse dalla corresponsione della componente tariffaria rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti. In altri termini, anche queste utenze dovranno pagare comunque la componente fissa.
Un altro tema che solleva l’AGCM è quello della previsione normativa di cui all’art. 224 del d. l.vo n. 152/06 che impone tra le parti dell’accordo ANCI/CONAI anche le associazioni rappresentative dei gestori delle piattaforme di selezione. È, in effetti, questa un’anomalia, e su questo possiamo essere d’accordo con l’AGCM. Anche se l’Autorità non sembra fornire argomentazioni valide al riguardo. E, in mancanza, proviamo noi.
Da una parte, infatti, non si capisce per quale motivo questo diritto/obbligo di partecipazione debba riguardare solo il settore degli imballaggi e non anche gli altri settori coperti da regimi EPR. Dall’altra non trova giustificazione che tale titolo di rappresentanza sia limitato solo agli operatori delle piattaforme e non anche a chi svolge altri servizi connessi alla definizione della copertura dei costi attribuibili ai produttori in regime EPR, come ad esempio la raccolta, la preparazione per il riutilizzo, la sensibilizzazione, etc …
Ma soprattutto è quantomeno fuori luogo far partecipare ad una negoziazione tra i soggetti sottoposti a regime EPR e i soggetti tenuti per legge a gestire i rifiuti urbani sulla definizione di costo efficiente da remunerare anche le rappresentanze di coloro che parteciperanno successivamente alle assegnazioni di tali servizi. Ciò offre a questa categoria l’arma del veto – rifiutandosi di sottoscrivere la stipula dell’accordo – per spuntare i prezzi più convenienti per loro, a dispetto dell’efficienza.
Sarebbe giusto dunque opportuno riscrivere questa disposizione.
Infine, l’AGCM propone di modificare il d.l.vo n. 152/06 introducendo opportune misure di snellimento burocratico degli iter autorizzativi degli impianti di incenerimento con recupero energetico. A questo punto sorgono diverse domande. Che c’entra questo con la concorrenza? Perché l’AGCM interviene in un settore che non è di sua competenza?
Ma qui, purtroppo, non si tratta di solo di incompetenza per materia, ma anche di altro. L’AGCM mostra ancora una volta di non (ri)conoscere le politiche a tutela dell’ambiente europee e nazionali. Essa ritiene che il problema della mancata realizzazione degli inceneritori sia dovuto all’effetto Nimby e presume che una banale semplificazione dovrebbe risolvere il problema.
L’articolazione argomentativa dell’AGCM, in realtà, difetta non tanto nelle conclusioni, quanto nella partenza. Quest’ente assume come obiettivo primario della disciplina della gestione dei rifiuti urbani quello di riduzione del conferimento in discarica e sulla base di ciò ritiene imprescindibile procedere alla costruzione di nuovi impianti di incenerimento. In realtà, l’obiettivo delle politiche di settore è quello della circolarità, che deve evitare non solo la discarica, ma quanto più possibile il recupero energetico, tranne nel caso delle cosiddette risorse rigenerative.
Basti solo citare il regolamento europeo 2020/852 – norma che trova diretta applicazione nel nostro ordinamento giuridico – sulla tassonomia degli investimenti ecosostenibili che all’art. 13, comma 1, lett. j) dispone che un’attività economica dà un contributo sostanziale alla transizione verso un’economia circolare, compresi la prevenzione, il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti, se riduce al minimo l’incenerimento dei rifiuti ed evita lo smaltimento dei rifiuti, compresa la messa in discarica, conformemente ai principi della gerarchia dei rifiuti. E all’art. 17 afferma, poi, che arreca un danno significativo all’economia circolare un‘attività che comporta un aumento significativo della produzione, dell’incenerimento o dello smaltimento dei rifiuti, ad eccezione dell’incenerimento di rifiuti pericolosi non riciclabili.
Quindi, la proposta che invoca l’AGCM non solo non incontra gli obiettivi dell’economia circolare, ma viola la Costituzione, in quanto contrasta con il diritto di emanazione europea.
Se volesse rimanere nel tema della concorrenza, in realtà, l’AGCM avrebbe dovuto chiedersi come mai in Italia esistono percorsi amministrativi più pesanti per chi fa riciclaggio, rispetto a chi invece fa incenerimento. Non contrasta con la concorrenza il fatto che gli inceneritori sono sovvenzionati – tassa/tariffa, prezzo premiale per l’elettricità immessa nella rete –, mentre chi fa riciclaggio non ha alcuna sovvenzione? O ancora, non contrasta con la concorrenza il fatto che chi ottiene un’autorizzazione EoW per riciclaggio è sottoposto a controlli più pesanti – e del tutto ingiustificati – rispetto a chi fa recupero energetico o a chi gestisce una discarica?
A questo punto, dopo ripetuti interventi di questo tipo, è lecito domandarsi come sia possibile che una struttura dello Stato – come l’AGCM – possa continuare a collezionare errori così pacchiani. E diventa fondato il sospetto che non si tratti solo impreparazione, quanto piuttosto di una posizione ideologica che deriva proprio dal fatto di essere un simile ente.
Infatti, tutte le Autority soffrono di un limite strutturale: giudicano tutto attraverso la lente dell’interesse, al quale sono preposti. Per l’AGCM è la concorrenza, che diventa un imperativo per le loro decisioni. L’AGCM non può – non è in grado? non vuole? – mettere in dubbio che in determinati casi la concorrenza è un ostacolo allo sviluppo di determinati settori – anche economici – e che l’ordinamento giuridico italiano e internazionale abbiano deciso di limitarla, se non addirittura escluderla. Come spesso accade nelle politiche di tutela ambientale.
Peraltro, è utile rammentare come, ad esempio, i Trattati istitutivi e di funzionamento dell’EU non parlino mai di un principio di concorrenza, bensì solo di regole di concorrenza. In altri termini, per l’UE la concorrenza deve essere regolata, ma non costituisce uno scopo fondante.
Il comma 3, dell’art. 3, del Trattato istitutivo dell’EU testualmente afferma che L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.
Aggiunge, poi, che tra le finalità dell’UE vi è la lotta all’esclusione sociale e la discriminazione, la promozione della giustizia e protezione sociali, della parità tra i sessi, della solidarietà tra le generazioni e della tutela dei minori, della coesione economica, sociale e territoriale.
Queste finalità, peraltro, trovano il loro fondamento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dove troviamo la tutela dell’ambiente e non la concorrenza.
È il Trattato sul funzionamento dell’UE che ci spiega che tra i settori di competenza dell’Unione vi è anche la definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno. Questo inciso ci spiega bene come la concorrenza non rappresenta un fine a sé stesso, ma solo uno strumento. Una distinzione fondamentale che riordina la gerarchia tra le materie di intervento. In altri termini, l’ordinamento giuridico europeo non potrà mai accettare un’interpretazione secondo cui le regole di concorrenza possano limitare lo sviluppo sostenibile o lo sviluppo di un’economia sociale di mercato. Invertire questa gerarchia significa violare i diritti fondamentali e minare le basi istitutive dell’Unione.
In un simile contesto normativo, si può ritenere l’azione dell’AGCM efficace ed efficiente e rispondente al principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione? Forse, è giunto il momento di rivedere il ruolo delle autority.
Peraltro, con il suo approccio ideologico l’AGCM diventa essa stessa un attore Nimby, poiché l’apertura di simili controversie non fanno altro che rallentare lo sviluppo delle politiche ambientali nel nostro Paese, nonché la realizzazione dell’idonea capacità impiantistica necessaria per lo sviluppo sostenibile e delle dinamiche della concorrenza nei settori dove dobbiamo ancora crescere.
Piacenza, 29 marzo 2021
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