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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Tutti parlano di questo benedetto nuovo CER, acronimo dell’Elenco Europeo dei Rifiuti, vero punto di riferimento obbligato per quanti – e sono davvero tanti – si occupano, a qualunque livello, di gestione di rifiuti.
Dal soggetto gestore, agli organi di controllo, ai meri produttori, sono milioni i soggetti interessati che in questi giorni si trovano ad occuparsi di questa – in buona sostanza, ed in realtà – assolutamente prevedibile e per certi aspetti indispensabile modificazione apportata dopo quasi otto anni alle Decisioni 93/3/CE e 94/904/CE (corrispondenti rispettivamente agli allegati A2 e D del DLvo 22/97) dalla Decisione CE n. 532 del 3 maggio 2000 (con tutte le modifiche seguenti): è oltre un anno e mezzo che in tutta Europa si sa che dal 1° gennaio del 2002 non sarebbe entrato in vigore solo l’euro, ma anche la suaccennata decisione. Pertanto nessuna sorpresa, solo la solita affrettata ed inconsulta corsa dell’ultimo secondo quando ormai tutto è inevitabile (MUD, smaltimento in discarica, procedure agevolate: sempre la stessa storia). V’è peraltro da notare che anche dal punto di vista giuridico questa “rivoluzione” offre spunto ad alcune interessanti considerazioni sul sistema comunitario di classificazione.
Procediamo innanzitutto con il ricordare il percorso normativo che ha portato all’applicazione dei nuovi CER.
L’art. 1, lett. A) della Direttiva 442/75 (quindi oltre 26 anni fa) prevedeva che “la Commissione…preparerà entro il 1° aprile 1993 un elenco dei rifiuti…che sarà oggetto di un riesame periodico e, se sarà necessario, sarà riveduto secondo la stessa procedura…”. In qualche modo questo periodo, che costituisce una sorta di norma primigenia relativamente al tema oggetto di questa trattazione, ci offre già un paio di spunti interessanti: in primo luogo in origine si pensava ad un unico elenco (sia per i pericolosi che per i non pericolosi), in secondo luogo si pensava già alla sua modificabilità. Quello che v’è da aggiungere è che, negli intenti di allora, si trattava di un elenco con meri scopi statistici o poco più. Solo in seguito è “divenuto uno dei cardini sui quali si reggono sia il complesso insieme di adempimenti previsti dalla disciplina sulla gestione dei rifiuti sia i molteplici procedimenti di qualificazione e autorizzazione degli operatori del settore” (C. Sangalli, Presidente Unioncamere, tratto da CER 2002, Ed. Hyper), con evidenti ripercussioni ed implicazioni sul terreno sanzionatorio (v. artt. 51 e 52 del Dlvo 22/97).
Ciò premesso è possibile ora tentare di elaborare qualche riflessione sul tema centrale della classificazione dei rifiuti.
Procedendo con ordine occorre innanzi tutto individuare il rifiuto, e pertanto è necessario verificare se la sostanza prodotta o gestita sia riconducibile a tale categoria.
A tal proposito il punto 1 dell’Introduzione all’Allegato alla Dec. 532 (come sostituito dalla Dec. 118/2001) ci dice che “l’inclusione di un determinato materiale nell’elenco non significa tuttavia che tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza. La classificazione del materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE”. Tale norma consente di ritenere che siamo di fronte ad un rifiuto solo a due condizioni:
1) si tratti di sostanze od oggetti di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi;
2) si tratti di sostanze od oggetti che rientrino in determinate categorie (da qui il nuovo CER).
A parte il fatto che già più volte sono intervenuto sul tema della psicologia del disfarsi, con particolare riferimento al concetto “dell’abbia deciso” (come si dimostra?), come tutti gli operatori ben sanno in realtà non è stata ancora affatto concretamente e definitivamente circoscritta la nozione di rifiuto (particolarmente sentita nel nostro Paese a causa di una non precisa traduzione del concetto inglese di “waste”), tendenzialmente – e pilatescamente – configurata il più delle volte in una visione “oggettiva” come hanno spesso espresso alcuni giudici italiani, ma in particolar modo il giudice europeo il quale, con la nota sentenza Corte giust. 15 giugno 2001, ha sostanzialmente “non chiarito” l’annoso concetto del “disfarsi” giungendo ad affermare la necessità del ricorso ad una non ben identificata valutazione “caso per caso” (“l’effettiva esistenza di un rifiuto va accertata alla luce del complesso delle circostanze del caso e tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l’efficacia”). Ciò non è certo fonte di certezza (e sicurezza) per gli operatori del settore, tanto che pochi anni or sono l’allora Ministro dell’Industria (Bersani) “provocò” il suo collega dell’Ambiente a dare una risposta definitiva alla vexata quaestio. La risposta arrivò sotto forma di vari disegni di legge che rimasero tali.
Ma questa valutazione è comunque fondamentale in quanto solo ai rifiuti viene applicato il CER. In altre parole, dunque,– ma questa non è una novità anche se è sempre opportuno ribadirlo – “l’inclusione di un determinato materiale nell’elenco non comporta automaticamente il fatto che esso sia un rifiuto in ogni circostanza” (P. Ficco, in Amb. e Sic. n. 10/2001). Prima si deve accertare che un materiale sia un rifiuto e solo allora deve farsi ricorso al CER per “gestirlo e classificarlo in base ad una nomenclatura comune ai 15 Paesi dell’Unione”.
Il nuovo CER scaturisce sostanzialmente dal reciproco integrarsi dei due precedenti cataloghi dei rifiuti, rispettivamente pericolosi e non pericolosi, contenuti anche nel Decreto Ronchi (allegati A2 e D).
Sintetizzando, possiamo certo affermare che alla luce della nuova decisione comunitaria per procedere alla individuazione dei rifiuti pericolosi si deve seguire un particolare procedimento identificativo.
In primo luogo solo i rifiuti contrassegnati con l’asterisco sono pericolosi. In secondo luogo se il rifiuto viene classificato pericoloso in quanto tale, la pericolosità è insita nello stesso ed in particolare deriva dalla sua origine. Qualora invece si faccia riferimento a sostanze pericolose in esso contenute, si renderà necessaria una analitica analisi chimica. Il superamento della concentrazione limite di sostanze pericolose contenute nel rifiuto, di cui all’art. 2 della dec. 2000/532/CE comporta l’automatica qualificazione di rifiuto pericoloso. Questo procedimento di identificazione e valutazione si traduce in un onere per il produttore-detentore di rifiuti. A questo punto sorgono spontanei almeno tre quesiti: 1) Quali sono queste sostanze pericolose?; 2) L’elenco dei rifiuti pericolosi è o non è più tassativo?; 3) Se l’analisi chimica è un onere, è anche un obbligo? E che sanzioni ci sono per gli inadempienti? E chi può fare queste analisi? E chi e come controlla la correttezza delle analisi?
Secondo quanto prescrive il punto 5 dell’introduzione all’allegato alla Decis. 532 “Ai fini della presente decisione per «sostanza pericolosa» si intende qualsiasi sostanza che è o sarà classificata come pericolosa ai sensi della direttiva 67/548/CEE e successive modifiche; per «metallo pesante» si intende qualunque composto di antimonio, arsenico, cadmio, cromo (VI), rame, piombo, mercurio, nichel, selenio, tellurio, tallio e stagno, anche quando tali metalli appaiono in forme metalliche classificate come pericolose”.
In realtà la Dir. 67/548/CEE (Ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura delle sostanze pericolose) non ci dà alcuna definizione di “sostanze pericolose”, ma solo di “sostanze” (art. 2, c.1, lett a) e di “pericolosi per l’ambiente” (art. 2, c.2, lett. o). Peraltro è da segnalare che la citata direttiva è stata trasposta nel nostro ordinamento del Dlvo 3 febbraio 1997, n. 52 (con successive modificazioni), decreto che dedica l’intero capo II al tema delle “sostanze pericolose”.
Un tema di straordinario interesse, a tal proposito, è quello relativo alla tassatività o meno dell’elenco dei rifiuti pericolosi.
La vera novità apportata dal nuovo sistema di classificazione è ben riassunta da C. Sangalli nell’introduzione a CER 2002 (cit.): “si passa dal precedente criterio di individuazione dei rifiuti pericolosi basato fondamentalmente su un elenco definito a livello europeo, e sottoposto a periodica revisione, alla necessità di sottoporre ad analisi chimica i rifiuti per verificare l’effettiva presenza di sostanze pericolose oltre determinati valori di soglia….I produttori di rifiuti, indipendentemente dal fatto che si tratti di autofficine, di lavasecco, di fotografi o di grandi complessi industriali, dovranno necessariamente effettuare una complessa serie di operazioni”. Per L. Musumeci (Rifiuti, n. 80/2000) “si ritorna ad un sistema basato sempre sull’origine del rifiuto ma anche sul contenuto delle sostanze pericolose eventualmente presenti nel rifiuto”.
Insomma ci sono due tipi di rifiuti pericolosi:
1) Pericolosi tout court: per il punto 4 della Introduzione all’Allegato della Decisione “i rifiuti contrassegnati nell’elenco con un asterisco «*» sono rifiuti pericolosi ai sensi della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi e ad essi si applicano le disposizioni della medesima direttiva, a condizione che non trovi applicazione l’articolo 1, paragrafo 5 (ovvero i rifiuti domestici).
2) Pericolosi sub condicione: per il punto 6, invece, “se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio percentuale rispetto al peso), tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all’allegato III della direttiva 91/689/CEE del Consiglio. Per le caratteristiche da H3 a H8, H10 e H11 si applica l’articolo 2 della presente decisione. Per le caratteristiche H1, H2, H9, H12, H13 e H14 l’articolo 2 della presente decisione non prevede al momento alcuna specifica”.
In realtà avverrà un procedimento inverso: per dimostrare che determinati rifiuti presuntivamente pericolosi nella realtà non lo sono il produttore/detentore dovrà dimostrare con adeguate analisi che certe sostanze non raggiungono determinate concentrazioni. Qui ovviamente si ripresentano gli annosi problemi di chi fa gli esami, di chi li controlla, di come si controllano i carichi, del rapporto con la disciplina del trasporto delle sostanze e delle merci pericolose (ADR), delle sanzioni (artt. 51 e 52 del decreto Ronchi, con sanzioni fino ad oltre 92.000 €), ecc. E non è questa la sede giusta per occuparcene, se non sottolineare il fatto che per il soggetto (produttore/detentore) si tratterà spesso di una scelta meramente economica (conviene di più fare tutte le analisi del caso – col rischio che si tratti comunque di quantitativi oltre i limiti – o assegnare la codifica del “pericoloso” comunque con tutti gli adempimenti che conseguono?).
Assai interessante è anche capire che fine ha fatto il vecchio concetto della tassatività dell’allegato D del Dlvo 22/97.
Un prospetto riassuntivo della vicenda ci potrà senz’altro aiutare:
– Art. 7, c. 4 del Dlvo 22/97: “Sono pericolosi i rifiuti non domestici precisati nell’elenco di cui all’allegato D sulla base degli allegati G, H ed I”.
– Cass. Pen. 28.10.97, n. 9617: “L’elenco dei rifiuti pericolosi contenuto nell’allegato D al Dlvo 22/97 ha natura tassativa”
– Corte giust. CE 22.6.00: “Le autorità giudicanti degli Stati membri possono qualificare come pericolosi rifiuti diversi da quelli figuranti nell’elenco dei rifiuti pericolosi”
A ciò si devono aggiungere le numerose norme emanate dai legislatori regionali in materia (fra tutte, vedasi l’art. 5 della Delib. della Giunta della Regione Emilia Romagna del 1° ottobre 2001).
A tal proposito si concorda con chi afferma che “con l’entrata in vigore del CER 2002 l’art.7 del Dlvo 22/97 va letto nel senso che sono pericolosi i rifiuti non domestici contrassegnati da un asterisco nel nuovo vigente elenco dei rifiuti, tenendo per giunta conto delle precisazioni di cui ai punti 5 e 6 dell’introduzione a detto elenco” (CER 2002, op. cit.).
Interessante al proposito è quanto dispongono gli artt. 2 e 3 della Dec. 532/2000:
Art. 2: “Si ritiene che i rifiuti classificati come pericolosi presentino una o più caratteristiche indicate nell’allegato III della direttiva 91/689/CEE e, in riferimento ai codici da H3 a H8 e ai codici H10 e H11 (*) del medesimo allegato, una o più delle seguenti caratteristiche:(Omissis)” (si noti che l’All. III citato corrisponde all’allegato i del Dlvo 22/97);
Art. 3: “In casi eccezionali gli Stati membri possono decidere, sulla base di riscontri documentati presentati dal detentore nella maniera più opportuna, che un determinato tipo di rifiuto classificato nell’elenco come pericoloso non presenta alcuna delle caratteristiche di cui all’allegato III della direttiva 91/689/CEE”.
Che significa “ritiene”? Presume, forse? E questa possibilità lasciata autonomamente agli Stati di poter decidere se un rifiuto pericoloso per tutti gli altri Stati europei non lo è più in presenza di particolari (quali?) riscontri documentati (come? Da chi?), quali problemi di coordinamento comporterà? E potrà “tornare a galla” l’inconcepibile presa di posizione della Corte di giustizia sulla possibilità che persino un giudice possa decidere se un rifiuto è o non è pericoloso?
Un dato è certo: la tassatività dell’elenco dei rifiuti pericolosi (con tutti i suoi limiti, ma altresì con tutte le sue certezze) non esiste sostanzialmente più.
Ciò premesso vi è ancora da ricordare che il nuovo elenco unico dei rifiuti, è entrato formalmente in vigore il 1 gennaio 2002 sostituendo il CER originario contenuto nella decisione 93/3/CE, e l’elenco europeo dei rifiuti pericolosi contenuto invece nella decisione 94/904/CE, come peraltro recepiti nel D.L.vo 22/97, rispettivamente negli allegati A e D. Tecnicamente con la decisione 2000/532/CE viene pertanto eliminato l’elenco dei rifiuti pericolosi, procedendo ad una globale ricatalogazione anche di tutti gli altri, che confluiscono in questo modo in un unico elenco. A questo proposito sembra opportuno precisare che sono stati eliminati 280 codici identificativi dei rifiuti, ma nel contempo ne sono stati introdotti 470 di nuovi (su circa 680 proposti). Questi ultimi non si limitano a sostituire i 280 soppressi, e non vi è quindi una mera rispondenza tra codice nuovo e codice eliminato. In particolare poi alcuni dei nuovi codici costituiscono una maggiore specifica di quelli già esistenti. Si noti che tutti i Paesi europei, tranne uno, il nostro, hanno contribuito a proporre l’inserimento di qualche nuovo rifiuto fra i pericolosi. Ma tant’è, non siamo spesso i primi della classe in Europa, almeno in questi campi. E’ del 24 gennaio scorso l’ultima “tirata d’orecchi” della Corte di Giustizia sulla (scusate il gioco di parole) scorretta gestione dei piani di gestione dei rifiuti nel nostro Paese.
Circa l’aspetto relativo alla applicabilità immediata della menzionata decisione nel nostro ordinamento, e alle conseguenze giuridiche in ordine alla conservazione degli allegati al decreto Ronchi, è bene svolgere alcune precisazioni.
Alcuni commentatori hanno ritenuto che per applicare la Dec. 532 fosse necessario un apposito atto dello Stato, basandosi in particolare su quanto dispone l’art. 18, lett. O) del Dlvo 22/97, per cui “sono di competenza dello Stato: l’aggiornamento degli allegati al presente decreto”. In realtà le Decisioni della Commissione europea sono fonti normative self executing, cioè spiegano la loro efficacia direttamente a prescindere da atti di recepimento o di attuazione degli Stati membri (così, anche C. Carruba, O.N.R.). Così scrive Pocar nel suo “Diritto delle comunità europee”: Le Decisioni sono obbligatorie in tutti i loro elementi e quindi non lasciano allo Stato destinatario la scelta della forma e dei mezzi di esecuzione, che possono essere stabiliti nelle decisioni stesse. Ciò comporta che per le Decisioni possa parlarsi di una efficacia diretta negli Stati membri, senza la necessità di provvedimenti statali di attuazione quando siano suscettibili di applicazione immediata”.
Ciò è anche in qualche modo avvalorato da quanto si legge nel comma 15 dell’art. della c.d. legge Lunardi, per cui “… dei rifiuti, la cui classificazione è stata modificata con la Decis. 2001/118/CE …”.
A cose serve dunque il DM 31 dicembre 2001? A cercare di evitare la paralisi del sistema nella fase transitoria. Dunque, non è normativamente indispensabile, lo è solo nel coordinamento con la fase autorizzatoria precedente e con il sistema dell’integrazione con le altre normative nazionali del settore. Insomma, dovrebbe servire ad aiutare gli operatori nella fase transitoria. Ciò è dimostrato non solo da quanto si legge nelle premesse al citato decreto (“considerata la necessità di disciplinare la fase di transizione dalla precedente, alla nuova codifica dei rifiuti in modo da consentire che i termini dell’aggiornamento dei codici inseriti nelle autorizzazioni o iscrizioni per la gestione dei rifiuti non determinino l’arresto delle attività in esercizio, con notevoli, gravi conseguenze sul piano economico e della tutela ambientale”), ma anche da quanto ha voluto precisare in più occasioni lo stesso Ministro dell’Ambiente (“In vista delle variazioni derivanti dal nuovo CER da applicarsi dal corrente mese di gennaio, si è resa necessaria la previsione di un’apposita procedura transitoria di adeguamento delle autorizzazioni: in mancanza molti operatori finirebbero col dover sospendere in tutto o in parte la loro attività”, tratto da CER 2002 di Unioncamere-Conai).
Quanto al perché a tale decreto sia stata “imposta” la data del 31 dicembre 2001 (anche se in realtà sanno tutti che è stato approvato dai quattro ministeri competenti almeno una settimana dopo) è presto detto: per l’art. 4 della Dec 532 “gli Stati membri adottano le misure necessarie per conformarsi alla presente decisione entro l’1 gennaio 2002”.
Infatti, nel sistema delle fonti del diritto, la forza e il valore di ciascuna fonte discende dalla idoneità ad innovare l’ordinamento giuridico modificando fonti di livello inferiore, ovvero di pari grado ma anteriori nel tempo, e nello stesso tempo a resistere alle modifiche introdotte da altre fonti. Il decreto Ronchi è indubbiamente un atto legislativo, e come tale può essere modificato unicamente dalla legge, o un atto ad essa equiparato, del legislatore italiano, non potendo un atto amministrativo o un atto normativo di secondo grado intervenire positivamente su di esso. Ma le cose stanno in modo differente se noi consideriamo il legislatore comunitario. Qualora quest’ultimo adotti una decisione in merito, questa viene ad incidere direttamente sull’impianto del citato decreto, tanto più che lo stesso aveva recepito precedenti decisioni comunitarie sul punto. La circostanza che il legislatore intenda intervenire con proprio decreto al fine di curare l’esecuzione della decisione 2000/532/CE come modificata dalle decisioni 2001/118/CE e 2001/573/CE, risponde unicamente ad esigenze di opportunità e non dalla necessità di adempiere ad un precetto comunitario che diversamente rimarrebbe inattuato. Ripeto che l’intervento del legislatore italiano non è quindi diretto ad innovare il nostro diritto positivo, bensì a prendere atto di un mutamento intervenuto nella materia, rendendo meno violenta la transizione, soprattutto in relazione alle difficoltà incontrate dagli operatori del settore, e operando un coordinamento tra i vari decreti succedutisi in questa materia e costituenti fino ad oggi il vademecum degli operatori stessi. Mi riferisco in particolare oltre al citato decreto Ronchi anche al decreti 141/98, 145/98, 148/98 e D.M 5 febbraio 1998, compiendo quindi un’opera di razionalizzazione del coacervo di norme esistenti ed alle quali viene a sovrapporsi. Sulla base di queste argomentazioni è evidente che di per se stessa, la decisione 532, non avrebbe richiesto l’emanazione di alcun decreto per spiegare i propri effetti giuridici.
Tornando ad aspetti più “pratici” è evidente che alla luce delle intervenute modifiche, si impongono alcuni adempimenti a tutti gli operatori del settore “rifiuti”.
In primo luogo occorre chiarire che vengono coinvolti tutti coloro che producono rifiuti che non possono essere affidati al servizio pubblico, ovvero che gestiscono o che svolgono attività di smaltimento o recupero dei rifiuti.
Una prima fase per questi soggetti, è rappresentata dalla verifica ed analisi dei rifiuti gestiti. Si tratta di controllare dunque se tali rifiuti sono considerati pericolosi ovvero si compongono di sostanze che sono considerate tali; in quest’ ultimo caso bisogna poi procedere alla verifica anche del limite di concentrazione delle stesse, onde verificare se viene superata la soglia prescritta dall’art. 2 della decisione 2000/532/CE. Questa analisi è naturalmente preordinata alla attribuzione del codice identificativo del rifiuto.
Qualora l’operatore si renda conto che il suo rifiuto viene qualificato pericoloso deve accertare la sussistenza di eventuali incombenze e prescrizioni, anche di carattere burocratico e autorizzatorio. Innanzi tutto il mutamento di classificazione può comportare la necessità di procedere ad un rinnovo dell’iscrizione all’Albo delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti. In secondo luogo può ravvisarsi la necessità di richiedere una autorizzazione a norma dell’art. 28 del D.L.vo 22/97, in ordine allo smaltimento e recupero dei rifiuti. Il passaggio a rifiuto pericoloso impone inoltre l’utilizzo di tutta una serie di documenti e moduli da impiegare nello svolgimento dell’attività. I registri di carico e scarico, i formulari di trasporto, il MUD.
Tutte le operazioni, da ultimo descritte dovrebbero essere svolte entro il termine di 60 giorni dalla entrata in vigore del D.M. 31 dicembre 2001 (quindi, a questo punto, non prima dell’aprile p.v.), mentre quelle relative alle autorizzazioni a norma dell’art. 28 del decreto Ronchi e alle iscrizioni a norma del successivo art. 30, entro 30 giorni dalla entrata in vigore della L. 21 dicembre 2001, n. 443 (ovvero entro il 10 febbraio 2002), precisando, peraltro, in merito a quest’ultimo punto che l’attività può essere proseguita fino alla emanazione del provvedimento dell’ente competente. In altre parole chi gestiva rifiuti non pericolosi ora divenuti tali in forza di regolare titolo potrà continuare a farlo presentando una domanda all’amministrazione competente entro il 10 di febbraio 2002.
Per concludere, mi si consenta un cenno sulle novità dell’ultimo minuto. Intanto, mentre il plurinominato DM giace nel limbo della normativa che c’è ma non è vigente (non essendo ancora andato in Gazzetta) si segnalano altri “movimenti” normativi in materia. In primo luogo il tempestivo intervento dell’Albo nazionale gestori rifiuti che con Deliberazione 27 dicembre 2001 ha cercato di chiarire (pur con qualche difficoltà) i “Criteri per l’iscrizione all’Albo nella categoria 5 (raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi) ai sensi dell’art. 1, comma 15, della L. 21 dicembre 2001, n. 443” (ovvero della cd. Legge Lunardi).
Infine non possiamo dimenticare almeno tre problemi di non poco conto: 1) solo le discariche che già gestiscono rifiuti pericolosi potranno gestire la nuova ondata di rifiuti divenuti pericolosi in seguito dell’entrata in vigore della nuova Decisione; 2) nell’agosto del 2002 scatterà il divieto di smaltimento di rifiuti in discarica (se non a particolari condizioni) di cui all’art. 5, c. 6 del Dlvo 22/97; 3) il decreto relativo alle norme tecniche per il recupero dei rifiuti pericolosi con procedure agevolate non è mai stato emanato.
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Alcune considerazioni a margine dei cd. nuovi CER
di Stefano Maglia
Tutti parlano di questo benedetto nuovo CER, acronimo dell’Elenco Europeo dei Rifiuti, vero punto di riferimento obbligato per quanti – e sono davvero tanti – si occupano, a qualunque livello, di gestione di rifiuti.
Dal soggetto gestore, agli organi di controllo, ai meri produttori, sono milioni i soggetti interessati che in questi giorni si trovano ad occuparsi di questa – in buona sostanza, ed in realtà – assolutamente prevedibile e per certi aspetti indispensabile modificazione apportata dopo quasi otto anni alle Decisioni 93/3/CE e 94/904/CE (corrispondenti rispettivamente agli allegati A2 e D del DLvo 22/97) dalla Decisione CE n. 532 del 3 maggio 2000 (con tutte le modifiche seguenti): è oltre un anno e mezzo che in tutta Europa si sa che dal 1° gennaio del 2002 non sarebbe entrato in vigore solo l’euro, ma anche la suaccennata decisione. Pertanto nessuna sorpresa, solo la solita affrettata ed inconsulta corsa dell’ultimo secondo quando ormai tutto è inevitabile (MUD, smaltimento in discarica, procedure agevolate: sempre la stessa storia). V’è peraltro da notare che anche dal punto di vista giuridico questa “rivoluzione” offre spunto ad alcune interessanti considerazioni sul sistema comunitario di classificazione.
Procediamo innanzitutto con il ricordare il percorso normativo che ha portato all’applicazione dei nuovi CER.
· Dir. 75/442/CE
· Dir. 91/156/CEE e Dir. 91/689/CEE
· DLvo 5.2.97, n. 22—> decreti attuativi (DM 5.2.98, DDMM 141-145-148/98, DM 219/00)
· Dec. 93/3/CE àAll. A2 del DLvo 22/97
· Dec. 94/904/CE àAll. D del DLvo 22/97
· Dec. 2000/532/CE (+ Dec. 118/01, 119/01, 573/01)
· L. 443/01, art. 1, c. 15
· DM 31.12.01 (non ancora in G.U.)
L’art. 1, lett. A) della Direttiva 442/75 (quindi oltre 26 anni fa) prevedeva che “la Commissione…preparerà entro il 1° aprile 1993 un elenco dei rifiuti…che sarà oggetto di un riesame periodico e, se sarà necessario, sarà riveduto secondo la stessa procedura…”. In qualche modo questo periodo, che costituisce una sorta di norma primigenia relativamente al tema oggetto di questa trattazione, ci offre già un paio di spunti interessanti: in primo luogo in origine si pensava ad un unico elenco (sia per i pericolosi che per i non pericolosi), in secondo luogo si pensava già alla sua modificabilità. Quello che v’è da aggiungere è che, negli intenti di allora, si trattava di un elenco con meri scopi statistici o poco più. Solo in seguito è “divenuto uno dei cardini sui quali si reggono sia il complesso insieme di adempimenti previsti dalla disciplina sulla gestione dei rifiuti sia i molteplici procedimenti di qualificazione e autorizzazione degli operatori del settore” (C. Sangalli, Presidente Unioncamere, tratto da CER 2002, Ed. Hyper), con evidenti ripercussioni ed implicazioni sul terreno sanzionatorio (v. artt. 51 e 52 del Dlvo 22/97).
Ciò premesso è possibile ora tentare di elaborare qualche riflessione sul tema centrale della classificazione dei rifiuti.
Procedendo con ordine occorre innanzi tutto individuare il rifiuto, e pertanto è necessario verificare se la sostanza prodotta o gestita sia riconducibile a tale categoria.
A tal proposito il punto 1 dell’Introduzione all’Allegato alla Dec. 532 (come sostituito dalla Dec. 118/2001) ci dice che “l’inclusione di un determinato materiale nell’elenco non significa tuttavia che tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza. La classificazione del materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE”. Tale norma consente di ritenere che siamo di fronte ad un rifiuto solo a due condizioni:
1) si tratti di sostanze od oggetti di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi;
2) si tratti di sostanze od oggetti che rientrino in determinate categorie (da qui il nuovo CER).
A parte il fatto che già più volte sono intervenuto sul tema della psicologia del disfarsi, con particolare riferimento al concetto “dell’abbia deciso” (come si dimostra?), come tutti gli operatori ben sanno in realtà non è stata ancora affatto concretamente e definitivamente circoscritta la nozione di rifiuto (particolarmente sentita nel nostro Paese a causa di una non precisa traduzione del concetto inglese di “waste”), tendenzialmente – e pilatescamente – configurata il più delle volte in una visione “oggettiva” come hanno spesso espresso alcuni giudici italiani, ma in particolar modo il giudice europeo il quale, con la nota sentenza Corte giust. 15 giugno 2001, ha sostanzialmente “non chiarito” l’annoso concetto del “disfarsi” giungendo ad affermare la necessità del ricorso ad una non ben identificata valutazione “caso per caso” (“l’effettiva esistenza di un rifiuto va accertata alla luce del complesso delle circostanze del caso e tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l’efficacia”). Ciò non è certo fonte di certezza (e sicurezza) per gli operatori del settore, tanto che pochi anni or sono l’allora Ministro dell’Industria (Bersani) “provocò” il suo collega dell’Ambiente a dare una risposta definitiva alla vexata quaestio. La risposta arrivò sotto forma di vari disegni di legge che rimasero tali.
Ma questa valutazione è comunque fondamentale in quanto solo ai rifiuti viene applicato il CER. In altre parole, dunque,– ma questa non è una novità anche se è sempre opportuno ribadirlo – “l’inclusione di un determinato materiale nell’elenco non comporta automaticamente il fatto che esso sia un rifiuto in ogni circostanza” (P. Ficco, in Amb. e Sic. n. 10/2001). Prima si deve accertare che un materiale sia un rifiuto e solo allora deve farsi ricorso al CER per “gestirlo e classificarlo in base ad una nomenclatura comune ai 15 Paesi dell’Unione”.
Il nuovo CER scaturisce sostanzialmente dal reciproco integrarsi dei due precedenti cataloghi dei rifiuti, rispettivamente pericolosi e non pericolosi, contenuti anche nel Decreto Ronchi (allegati A2 e D).
Sintetizzando, possiamo certo affermare che alla luce della nuova decisione comunitaria per procedere alla individuazione dei rifiuti pericolosi si deve seguire un particolare procedimento identificativo.
In primo luogo solo i rifiuti contrassegnati con l’asterisco sono pericolosi. In secondo luogo se il rifiuto viene classificato pericoloso in quanto tale, la pericolosità è insita nello stesso ed in particolare deriva dalla sua origine. Qualora invece si faccia riferimento a sostanze pericolose in esso contenute, si renderà necessaria una analitica analisi chimica. Il superamento della concentrazione limite di sostanze pericolose contenute nel rifiuto, di cui all’art. 2 della dec. 2000/532/CE comporta l’automatica qualificazione di rifiuto pericoloso. Questo procedimento di identificazione e valutazione si traduce in un onere per il produttore-detentore di rifiuti. A questo punto sorgono spontanei almeno tre quesiti: 1) Quali sono queste sostanze pericolose?; 2) L’elenco dei rifiuti pericolosi è o non è più tassativo?; 3) Se l’analisi chimica è un onere, è anche un obbligo? E che sanzioni ci sono per gli inadempienti? E chi può fare queste analisi? E chi e come controlla la correttezza delle analisi?
Secondo quanto prescrive il punto 5 dell’introduzione all’allegato alla Decis. 532 “Ai fini della presente decisione per «sostanza pericolosa» si intende qualsiasi sostanza che è o sarà classificata come pericolosa ai sensi della direttiva 67/548/CEE e successive modifiche; per «metallo pesante» si intende qualunque composto di antimonio, arsenico, cadmio, cromo (VI), rame, piombo, mercurio, nichel, selenio, tellurio, tallio e stagno, anche quando tali metalli appaiono in forme metalliche classificate come pericolose”.
In realtà la Dir. 67/548/CEE (Ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura delle sostanze pericolose) non ci dà alcuna definizione di “sostanze pericolose”, ma solo di “sostanze” (art. 2, c.1, lett a) e di “pericolosi per l’ambiente” (art. 2, c.2, lett. o). Peraltro è da segnalare che la citata direttiva è stata trasposta nel nostro ordinamento del Dlvo 3 febbraio 1997, n. 52 (con successive modificazioni), decreto che dedica l’intero capo II al tema delle “sostanze pericolose”.
Un tema di straordinario interesse, a tal proposito, è quello relativo alla tassatività o meno dell’elenco dei rifiuti pericolosi.
La vera novità apportata dal nuovo sistema di classificazione è ben riassunta da C. Sangalli nell’introduzione a CER 2002 (cit.): “si passa dal precedente criterio di individuazione dei rifiuti pericolosi basato fondamentalmente su un elenco definito a livello europeo, e sottoposto a periodica revisione, alla necessità di sottoporre ad analisi chimica i rifiuti per verificare l’effettiva presenza di sostanze pericolose oltre determinati valori di soglia….I produttori di rifiuti, indipendentemente dal fatto che si tratti di autofficine, di lavasecco, di fotografi o di grandi complessi industriali, dovranno necessariamente effettuare una complessa serie di operazioni”. Per L. Musumeci (Rifiuti, n. 80/2000) “si ritorna ad un sistema basato sempre sull’origine del rifiuto ma anche sul contenuto delle sostanze pericolose eventualmente presenti nel rifiuto”.
Insomma ci sono due tipi di rifiuti pericolosi:
1) Pericolosi tout court: per il punto 4 della Introduzione all’Allegato della Decisione “i rifiuti contrassegnati nell’elenco con un asterisco «*» sono rifiuti pericolosi ai sensi della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi e ad essi si applicano le disposizioni della medesima direttiva, a condizione che non trovi applicazione l’articolo 1, paragrafo 5 (ovvero i rifiuti domestici).
2) Pericolosi sub condicione: per il punto 6, invece, “se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio percentuale rispetto al peso), tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all’allegato III della direttiva 91/689/CEE del Consiglio. Per le caratteristiche da H3 a H8, H10 e H11 si applica l’articolo 2 della presente decisione. Per le caratteristiche H1, H2, H9, H12, H13 e H14 l’articolo 2 della presente decisione non prevede al momento alcuna specifica”.
In realtà avverrà un procedimento inverso: per dimostrare che determinati rifiuti presuntivamente pericolosi nella realtà non lo sono il produttore/detentore dovrà dimostrare con adeguate analisi che certe sostanze non raggiungono determinate concentrazioni. Qui ovviamente si ripresentano gli annosi problemi di chi fa gli esami, di chi li controlla, di come si controllano i carichi, del rapporto con la disciplina del trasporto delle sostanze e delle merci pericolose (ADR), delle sanzioni (artt. 51 e 52 del decreto Ronchi, con sanzioni fino ad oltre 92.000 €), ecc. E non è questa la sede giusta per occuparcene, se non sottolineare il fatto che per il soggetto (produttore/detentore) si tratterà spesso di una scelta meramente economica (conviene di più fare tutte le analisi del caso – col rischio che si tratti comunque di quantitativi oltre i limiti – o assegnare la codifica del “pericoloso” comunque con tutti gli adempimenti che conseguono?).
Assai interessante è anche capire che fine ha fatto il vecchio concetto della tassatività dell’allegato D del Dlvo 22/97.
Un prospetto riassuntivo della vicenda ci potrà senz’altro aiutare:
– Art. 7, c. 4 del Dlvo 22/97: “Sono pericolosi i rifiuti non domestici precisati nell’elenco di cui all’allegato D sulla base degli allegati G, H ed I”.
– Cass. Pen. 28.10.97, n. 9617: “L’elenco dei rifiuti pericolosi contenuto nell’allegato D al Dlvo 22/97 ha natura tassativa”
– Corte giust. CE 22.6.00: “Le autorità giudicanti degli Stati membri possono qualificare come pericolosi rifiuti diversi da quelli figuranti nell’elenco dei rifiuti pericolosi”
A ciò si devono aggiungere le numerose norme emanate dai legislatori regionali in materia (fra tutte, vedasi l’art. 5 della Delib. della Giunta della Regione Emilia Romagna del 1° ottobre 2001).
A tal proposito si concorda con chi afferma che “con l’entrata in vigore del CER 2002 l’art.7 del Dlvo 22/97 va letto nel senso che sono pericolosi i rifiuti non domestici contrassegnati da un asterisco nel nuovo vigente elenco dei rifiuti, tenendo per giunta conto delle precisazioni di cui ai punti 5 e 6 dell’introduzione a detto elenco” (CER 2002, op. cit.).
Interessante al proposito è quanto dispongono gli artt. 2 e 3 della Dec. 532/2000:
Art. 2: “Si ritiene che i rifiuti classificati come pericolosi presentino una o più caratteristiche indicate nell’allegato III della direttiva 91/689/CEE e, in riferimento ai codici da H3 a H8 e ai codici H10 e H11 (*) del medesimo allegato, una o più delle seguenti caratteristiche:(Omissis)” (si noti che l’All. III citato corrisponde all’allegato i del Dlvo 22/97);
Art. 3: “In casi eccezionali gli Stati membri possono decidere, sulla base di riscontri documentati presentati dal detentore nella maniera più opportuna, che un determinato tipo di rifiuto classificato nell’elenco come pericoloso non presenta alcuna delle caratteristiche di cui all’allegato III della direttiva 91/689/CEE”.
Che significa “ritiene”? Presume, forse? E questa possibilità lasciata autonomamente agli Stati di poter decidere se un rifiuto pericoloso per tutti gli altri Stati europei non lo è più in presenza di particolari (quali?) riscontri documentati (come? Da chi?), quali problemi di coordinamento comporterà? E potrà “tornare a galla” l’inconcepibile presa di posizione della Corte di giustizia sulla possibilità che persino un giudice possa decidere se un rifiuto è o non è pericoloso?
Un dato è certo: la tassatività dell’elenco dei rifiuti pericolosi (con tutti i suoi limiti, ma altresì con tutte le sue certezze) non esiste sostanzialmente più.
Ciò premesso vi è ancora da ricordare che il nuovo elenco unico dei rifiuti, è entrato formalmente in vigore il 1 gennaio 2002 sostituendo il CER originario contenuto nella decisione 93/3/CE, e l’elenco europeo dei rifiuti pericolosi contenuto invece nella decisione 94/904/CE, come peraltro recepiti nel D.L.vo 22/97, rispettivamente negli allegati A e D. Tecnicamente con la decisione 2000/532/CE viene pertanto eliminato l’elenco dei rifiuti pericolosi, procedendo ad una globale ricatalogazione anche di tutti gli altri, che confluiscono in questo modo in un unico elenco. A questo proposito sembra opportuno precisare che sono stati eliminati 280 codici identificativi dei rifiuti, ma nel contempo ne sono stati introdotti 470 di nuovi (su circa 680 proposti). Questi ultimi non si limitano a sostituire i 280 soppressi, e non vi è quindi una mera rispondenza tra codice nuovo e codice eliminato. In particolare poi alcuni dei nuovi codici costituiscono una maggiore specifica di quelli già esistenti. Si noti che tutti i Paesi europei, tranne uno, il nostro, hanno contribuito a proporre l’inserimento di qualche nuovo rifiuto fra i pericolosi. Ma tant’è, non siamo spesso i primi della classe in Europa, almeno in questi campi. E’ del 24 gennaio scorso l’ultima “tirata d’orecchi” della Corte di Giustizia sulla (scusate il gioco di parole) scorretta gestione dei piani di gestione dei rifiuti nel nostro Paese.
Circa l’aspetto relativo alla applicabilità immediata della menzionata decisione nel nostro ordinamento, e alle conseguenze giuridiche in ordine alla conservazione degli allegati al decreto Ronchi, è bene svolgere alcune precisazioni.
Alcuni commentatori hanno ritenuto che per applicare la Dec. 532 fosse necessario un apposito atto dello Stato, basandosi in particolare su quanto dispone l’art. 18, lett. O) del Dlvo 22/97, per cui “sono di competenza dello Stato: l’aggiornamento degli allegati al presente decreto”. In realtà le Decisioni della Commissione europea sono fonti normative self executing, cioè spiegano la loro efficacia direttamente a prescindere da atti di recepimento o di attuazione degli Stati membri (così, anche C. Carruba, O.N.R.). Così scrive Pocar nel suo “Diritto delle comunità europee”: Le Decisioni sono obbligatorie in tutti i loro elementi e quindi non lasciano allo Stato destinatario la scelta della forma e dei mezzi di esecuzione, che possono essere stabiliti nelle decisioni stesse. Ciò comporta che per le Decisioni possa parlarsi di una efficacia diretta negli Stati membri, senza la necessità di provvedimenti statali di attuazione quando siano suscettibili di applicazione immediata”.
Ciò è anche in qualche modo avvalorato da quanto si legge nel comma 15 dell’art. della c.d. legge Lunardi, per cui “… dei rifiuti, la cui classificazione è stata modificata con la Decis. 2001/118/CE …”.
A cose serve dunque il DM 31 dicembre 2001? A cercare di evitare la paralisi del sistema nella fase transitoria. Dunque, non è normativamente indispensabile, lo è solo nel coordinamento con la fase autorizzatoria precedente e con il sistema dell’integrazione con le altre normative nazionali del settore. Insomma, dovrebbe servire ad aiutare gli operatori nella fase transitoria. Ciò è dimostrato non solo da quanto si legge nelle premesse al citato decreto (“considerata la necessità di disciplinare la fase di transizione dalla precedente, alla nuova codifica dei rifiuti in modo da consentire che i termini dell’aggiornamento dei codici inseriti nelle autorizzazioni o iscrizioni per la gestione dei rifiuti non determinino l’arresto delle attività in esercizio, con notevoli, gravi conseguenze sul piano economico e della tutela ambientale”), ma anche da quanto ha voluto precisare in più occasioni lo stesso Ministro dell’Ambiente (“In vista delle variazioni derivanti dal nuovo CER da applicarsi dal corrente mese di gennaio, si è resa necessaria la previsione di un’apposita procedura transitoria di adeguamento delle autorizzazioni: in mancanza molti operatori finirebbero col dover sospendere in tutto o in parte la loro attività”, tratto da CER 2002 di Unioncamere-Conai).
Quanto al perché a tale decreto sia stata “imposta” la data del 31 dicembre 2001 (anche se in realtà sanno tutti che è stato approvato dai quattro ministeri competenti almeno una settimana dopo) è presto detto: per l’art. 4 della Dec 532 “gli Stati membri adottano le misure necessarie per conformarsi alla presente decisione entro l’1 gennaio 2002”.
Infatti, nel sistema delle fonti del diritto, la forza e il valore di ciascuna fonte discende dalla idoneità ad innovare l’ordinamento giuridico modificando fonti di livello inferiore, ovvero di pari grado ma anteriori nel tempo, e nello stesso tempo a resistere alle modifiche introdotte da altre fonti. Il decreto Ronchi è indubbiamente un atto legislativo, e come tale può essere modificato unicamente dalla legge, o un atto ad essa equiparato, del legislatore italiano, non potendo un atto amministrativo o un atto normativo di secondo grado intervenire positivamente su di esso. Ma le cose stanno in modo differente se noi consideriamo il legislatore comunitario. Qualora quest’ultimo adotti una decisione in merito, questa viene ad incidere direttamente sull’impianto del citato decreto, tanto più che lo stesso aveva recepito precedenti decisioni comunitarie sul punto. La circostanza che il legislatore intenda intervenire con proprio decreto al fine di curare l’esecuzione della decisione 2000/532/CE come modificata dalle decisioni 2001/118/CE e 2001/573/CE, risponde unicamente ad esigenze di opportunità e non dalla necessità di adempiere ad un precetto comunitario che diversamente rimarrebbe inattuato. Ripeto che l’intervento del legislatore italiano non è quindi diretto ad innovare il nostro diritto positivo, bensì a prendere atto di un mutamento intervenuto nella materia, rendendo meno violenta la transizione, soprattutto in relazione alle difficoltà incontrate dagli operatori del settore, e operando un coordinamento tra i vari decreti succedutisi in questa materia e costituenti fino ad oggi il vademecum degli operatori stessi. Mi riferisco in particolare oltre al citato decreto Ronchi anche al decreti 141/98, 145/98, 148/98 e D.M 5 febbraio 1998, compiendo quindi un’opera di razionalizzazione del coacervo di norme esistenti ed alle quali viene a sovrapporsi. Sulla base di queste argomentazioni è evidente che di per se stessa, la decisione 532, non avrebbe richiesto l’emanazione di alcun decreto per spiegare i propri effetti giuridici.
Tornando ad aspetti più “pratici” è evidente che alla luce delle intervenute modifiche, si impongono alcuni adempimenti a tutti gli operatori del settore “rifiuti”.
In primo luogo occorre chiarire che vengono coinvolti tutti coloro che producono rifiuti che non possono essere affidati al servizio pubblico, ovvero che gestiscono o che svolgono attività di smaltimento o recupero dei rifiuti.
Una prima fase per questi soggetti, è rappresentata dalla verifica ed analisi dei rifiuti gestiti. Si tratta di controllare dunque se tali rifiuti sono considerati pericolosi ovvero si compongono di sostanze che sono considerate tali; in quest’ ultimo caso bisogna poi procedere alla verifica anche del limite di concentrazione delle stesse, onde verificare se viene superata la soglia prescritta dall’art. 2 della decisione 2000/532/CE. Questa analisi è naturalmente preordinata alla attribuzione del codice identificativo del rifiuto.
Qualora l’operatore si renda conto che il suo rifiuto viene qualificato pericoloso deve accertare la sussistenza di eventuali incombenze e prescrizioni, anche di carattere burocratico e autorizzatorio. Innanzi tutto il mutamento di classificazione può comportare la necessità di procedere ad un rinnovo dell’iscrizione all’Albo delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti. In secondo luogo può ravvisarsi la necessità di richiedere una autorizzazione a norma dell’art. 28 del D.L.vo 22/97, in ordine allo smaltimento e recupero dei rifiuti. Il passaggio a rifiuto pericoloso impone inoltre l’utilizzo di tutta una serie di documenti e moduli da impiegare nello svolgimento dell’attività. I registri di carico e scarico, i formulari di trasporto, il MUD.
Tutte le operazioni, da ultimo descritte dovrebbero essere svolte entro il termine di 60 giorni dalla entrata in vigore del D.M. 31 dicembre 2001 (quindi, a questo punto, non prima dell’aprile p.v.), mentre quelle relative alle autorizzazioni a norma dell’art. 28 del decreto Ronchi e alle iscrizioni a norma del successivo art. 30, entro 30 giorni dalla entrata in vigore della L. 21 dicembre 2001, n. 443 (ovvero entro il 10 febbraio 2002), precisando, peraltro, in merito a quest’ultimo punto che l’attività può essere proseguita fino alla emanazione del provvedimento dell’ente competente. In altre parole chi gestiva rifiuti non pericolosi ora divenuti tali in forza di regolare titolo potrà continuare a farlo presentando una domanda all’amministrazione competente entro il 10 di febbraio 2002.
Per concludere, mi si consenta un cenno sulle novità dell’ultimo minuto. Intanto, mentre il plurinominato DM giace nel limbo della normativa che c’è ma non è vigente (non essendo ancora andato in Gazzetta) si segnalano altri “movimenti” normativi in materia. In primo luogo il tempestivo intervento dell’Albo nazionale gestori rifiuti che con Deliberazione 27 dicembre 2001 ha cercato di chiarire (pur con qualche difficoltà) i “Criteri per l’iscrizione all’Albo nella categoria 5 (raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi) ai sensi dell’art. 1, comma 15, della L. 21 dicembre 2001, n. 443” (ovvero della cd. Legge Lunardi).
Infine non possiamo dimenticare almeno tre problemi di non poco conto: 1) solo le discariche che già gestiscono rifiuti pericolosi potranno gestire la nuova ondata di rifiuti divenuti pericolosi in seguito dell’entrata in vigore della nuova Decisione; 2) nell’agosto del 2002 scatterà il divieto di smaltimento di rifiuti in discarica (se non a particolari condizioni) di cui all’art. 5, c. 6 del Dlvo 22/97; 3) il decreto relativo alle norme tecniche per il recupero dei rifiuti pericolosi con procedure agevolate non è mai stato emanato.
Un fosco futuro si profila all’orizzonte!
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