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Amianto e contravvenzioni: la buona fede dell'appaltatore nei lavori (edili) pubblici

di Francesco Verdianelli

Categoria: Sostanze pericolose

Sommario:
1: Sugli obblighi del proprietario di edifici contenenti amianto: il caso degli enti pubblici
2: Gli adempimenti e gli obblighi derivanti dal Decreto Legislativo n. 81 del 2008 nel caso di lavori edili in edifici pubblici contenenti amianto
3: L’art. 248 del D. Lgs. n. 81/2008 e la richiesta di “informazioni” da parte dell’impresa aggiudicataria
4: L’art. 256 del D. Lgs. n. 81/2008 e la categoria di opera SOA di cui al D.P.R. n. 207 del 2010
5: Le sanzioni penali: il rapporto tra gli artt. 262, comma 2, lett. a), e 301 del D. Lgs. n. 81/2008
6: L’applicabilità dell’art. 5 del Codice Penale nei reati contravvenzionali
7: Conclusioni
 
 

Sugli obblighi del proprietario di edifici contenenti amianto: il caso degli enti pubblici

 

La Legge 27 marzo 1992, n. 257, recante le “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, fa ricadere, proprio in capo ai proprietari di edifici contenenti amianto, una serie di obblighi, di cui il primo è la caratterizzazione in tal senso, cioè la verifica della effettiva presenza di amianto, la sua classificazione e la sua localizzazione.
 

Tale obbligo è valido per qualunque tipo di edificio, pubblico o privato, adibito o meno ad attività lavorative, nel quale è presumibile la presenza di amianto (sicuramente gli edifici costruiti antecedentemente al 1992, anno di entrata in vigore della Legge n. 257/92 che dispose il divieto di utilizzo dell’amianto in generale e, in particolare, nelle costruzioni).
 

Tra l’altro, la stessa Legge n. 257/1992 prevede a tal proposito uno specifico obbligo sanzionabile, e cioè quello definito all’articolo 12, comma 5: <<Presso le unità sanitarie locali è istituito un registro nel quale è indicata la localizzazione dell’amianto floccato o in matrice friabile presente negli edifici. I proprietari degli immobili devono comunicare alle unità sanitarie locali i dati relativi alla presenza dei materiali di cui al presente comma.
 

Per quanto riguarda le Amministrazioni Pubbliche, in forza dell’obbligo previsto dal punto 4) del D.M. Sanità 06 settembre 1994 (decreto applicativo della suddetta Legge n. 257/1992, che detta le regole in caso di presenza dell’amianto all’interno degli edifici), le stesse devono <<redigere un programma di controllo, custodia e manutenzione dei MCA (materiali contenenti amianto), presso tutti gli edifici di proprietà, al fine di ridurre al minimo l’esposizione degli occupanti>>.
 

Gli Enti Pubblici, dunque, devono, ed è un preciso obbligo che non può essere derogato, adempiere alle prescrizioni impartite della Legge 27 marzo 1992, n. 257 e dal D.M. Sanità 06 settembre 1994.
 

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Gli adempimenti e gli obblighi derivanti dal Decreto Legislativo n. 81 del 2008 nel caso di lavori edili in edifici pubblici contenenti amianto

 

Nel caso in cui gli edifici pubblici siano adibiti ad attività lavorative, le succitate verifiche ex Legge 27 marzo 1992, n. 257 vanno, altresì, ricomprese nella valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza, di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), 28 e 29 del D. Lgs. n. 81/2008. In tale caso, pertanto, la valutazione del rischio da rilascio di fibre di amianto in ambiente di lavoro dovrà avere i contenuti formali e sostanziali non solo del succitato D.M. Sanità 06 settembre 1994, ma anche quelli del D. Lgs. 81/2008, che sono sempre prescrittivi e quindi sanzionabili.
 

Vi è la possibilità, poi, che un edificio pubblico contenente amianto sia destinato ad ospitare luoghi di lavoro, compresa la presenza di eventuali visitatori, dunque, per forza di cose, si deve far riferimento alla normativa generale per la tutela dei lavoratori da rischi per la salute e la sicurezza, e cioè proprio al Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (d’ora in poi per brevità: TUSL): in tale provvedimento normativo, la protezione dei lavoratori dall’amianto è trattata dal Titolo IX Capo III (“Protezione dai rischi connessi all’esposizione all’amianto”) che però specifica subito all’articolo 246 che: <<Fermo restando quanto previsto dalla legge 27 marzo 1992, n. 257, le norme del presente decreto si applicano a tutte le rimanenti attività lavorative che possono comportare, per i lavoratori, un’ esposizione ad amianto, quali manutenzione, rimozione dell’amianto o dei materiali contenenti amianto, smaltimento e trattamento dei relativi rifiuti, nonché bonifica delle aree interessate>>.
 

Di conseguenza le norme contenute nel Titolo IX Capo III del TUSL non si applicano ai lavoratori che operano all’interno di strutture contenenti amianto, a meno che essi non siano addetti a manutenzione, rimozione, smaltimento dell’amianto.
 

Quali sono allora le misure di tutela generale per i lavoratori applicabili in caso di appalto di lavori che prevedano manutenzione, rimozione e smaltimento di m.c.a. all’interno di edifici pubblici?
 

Allo scopo, si deve far riferimento all’art. 90, comma 1 e 1-bis, TUSL, il quale recita che:
 

<<1. Il committente (Ente Pubblico) o il responsabile dei lavori (il dirigente/delegato dell’Ente Pubblico), nelle fasi di progettazione dell’opera, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’art. 15, in particolare:
 

a) al momento delle scelte architettoniche, tecniche ed organizzative, onde pianificare i vari lavori o fasi di lavoro che si svolgeranno simultaneamente o successivamente;
 

b) all’atto della previsione della durata di realizzazione di questi vari lavori o fasi di lavoro.
 

1-bis. Per i lavori pubblici l’attuazione di quanto previsto al comma 1 avviene nel rispetto dei compiti attribuiti al responsabile del procedimento ed al progettista>>.
 

In fase di progettazione, dunque ed in maniera precettiva, si deve far riferimento all’art. 15 TUSL, il quale elenca quali sono le misure generali di tutela da prendere in considerazione ogni qual volta ci si appresti a compiere un’attività lavorativa e, nello specifico, parla di: “valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza”, “eliminazione dei rischi” o “riduzione dei rischi alla fonte”, nonché di “sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso”. In particolare, poi, l’art. 90 TUSL prevede espressamente che: <<Il committente o il responsabile dei lavori, nella fase della progettazione dell’opera, prende in considerazione i documenti di cui all’art. 91, comma 1, lettere a) e b)>>, dove il documento di cui alla lettera a) è il PSC (Piano di Sicurezza e Coordinamento), e quello di cui alla lettera b) il FO (Fascicolo dell’Opera). L’Allegato XV TUSL stabilisce, altresì, quali debbono essere i contenuti minimi del PSC, tra i quali figura che:
 

<<2.1.1. Il PSC è specifico per ogni singolo cantiere temporaneo o mobile e di concreta fattibilità; i suoi contenuti sono il risultato di scelte progettuali ed organizzative conformi alle prescrizioni dell’articolo 15 del presente Decreto>>;
 

<<2.1.2. Il PSC contiene almeno i seguenti elementi: …c) una relazione concernente l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi concreti, con riferimento all’area ed alla organizzazione del cantiere, alle lavorazioni ed alle loro interferenze>>;
 

<<2.2.4. Per ogni elemento dell’analisi di cui ai punti 2.2.1, 2.2.2 e 2.2.3, il PSC contiene:
 

a) le scelte progettuali ed organizzative, le procedure, le misure preventive e protettive richieste per eliminare o ridurre al minimo i rischi di lavoro; ove necessario, vanno prodotte tavole e disegni tecnici esplicativi; b) le misure di coordinamento atte a realizzare quanto previsto alla lettera a)>>.
 

Riassumendo. Il piano di sicurezza e coordinamento (PSC) e il fascicolo dell’opera (FO) sono l’evidenza scritta della pianificazione della sicurezza nel cantiere, sia nella fase progettuale che in quella esecutiva dell’opera appaltata, e sono fondamentali, se ben fatti e congegnati, per la riduzione ed il controllo dei rischi presenti nell’ambiente lavorativo. I citati documenti vengono redatti dal Coordinatore per la Progettazione (CSP); infatti, l’art. 91 TUSL sancisce che: <<1. Durante la progettazione dell’opera e comunque prima della richiesta di presentazione delle offerte, il coordinatore per la progettazione: a) redige il piano di sicurezza e di coordinamento di cui all’art. 100, comma 1, i cui contenuti sono dettagliatamente specificati nell’Allegato XV (omissis)>>.
 

In forza di quanto disposto dal comma 1, lettera b-bis) dell’art. 91 TUSL, il coordinatore è chiamato a collaborare attivamente con il committente/responsabile dei lavori attraverso il coordinamento delle disposizioni a lui richieste: <<Durante la progettazione dell’opera e comunque prima della richiesta di presentazione delle offerte, il coordinatore per la progettazione: (omissis)… coordina l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 90, comma>>. Il coordinatore per la progettazione (CSP) deve, pertanto, supportare l’azione del committente/responsabile dei lavori verso la sicurezza che, a sua volta, deve avvenire in ogni ipotesi di affidamento di opere edili, e prima della loro esecuzione, indirizzando le scelte progettuali, tecniche ed economiche, verso quelle soluzioni che meglio tutelano la salute e la sicurezza dei lavoratori, prestando particolare attenzione alla durata e alle fasi dei lavori.
 

Il PSC, dunque, è un documento fondamentale che fa parte integrante del contratto d’appalto, la cui mancanza può portare addirittura alla nullità del contratto stesso. Il PSC, poi, una volta redatto dal coordinatore e da lui rimesso al committente/responsabile dei lavori, va trasmesso alle imprese offerenti, in quanto l’art. 101 TUSL, ne statuisce l’obbligo di trasmissione: <<1. Il committente o il responsabile dei lavori trasmette il piano di sicurezza e di coordinamento a tutte le imprese invitate a presentare offerte per l’esecuzione dei lavori. In caso di appalto di opera pubblica si considera trasmissione la messa a disposizione del piano a tutti i concorrenti alla gara di appalto>>.
 

Ecco, allora, che il committente/responsabile dei lavori (rectius, Ente Pubblico), per poter vigilare l’operato del coordinatore per la progettazione, anche al fine di non cadere nella colpa in vigilando, deve conoscere la struttura e i contenuti minimi dei due documenti, in modo da poterne valutare le eventuali carenze, senza naturalmente che il proprio controllo critico si spinga sulle scelte tecniche di dettaglio, visto che queste sono di competenza del coordinatore che vi deve provvedere con la sua professionalità e le sue conoscenze.
 

In estrema sintesi, l’attenzione del committente/responsabile dei lavori deve spingersi verso quelle scelte d’indagine e progettuali che meglio tutelano la salute e la sicurezza dei lavoratori, anche per questo, dunque, ove il committente non disponga di necessarie competenze tecniche, è necessario procedere alla nomina di un responsabile dei lavori (un professionista tecnico iscritto ad albi e collegi professionali dotato di adeguate conoscenze) che sappia indirizzare la realizzazione dell’opera verso quei procedimenti che garantiscono una migliore sicurezza e salute tecnicamente possibile.
 

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L’art. 248 del D. Lgs. n. 81/2008 e la richiesta di “informazioni” da parte dell’impresa aggiudicataria

 

L’art. 248, comma 1, del TUSL recita: <<Prima di intraprendere lavori di demolizione o di manutenzione, il datore di lavoro (recte, appaltatore) adotta, anche chiedendo informazioni ai proprietari dei locali, ogni misura necessaria volta ad individuare la presenza di materiali a potenziale contenuto d’amianto>>.
 

Ragionando sulla scia di quanto sinora narrato, allora, la richiesta di “informazioni” all’ente pubblico proprietario, qualora siano state rispettate tutte le disposizioni normative citate sino ad ora nonché i rispettivi iter procedurali previsti dal TUSL, dovrebbe apparire in re ipsa superflua, visto che sussisterebbe una presunzione, verrebbe da dire iuris et de iure, di non esistenza di m.c.a. nei lavori appaltati.
 

L’art. 256 del D. Lgs. n. 81/2008 e la categoria di opera SOA di cui al D.P.R. n. 207 del 2010

 

L’art. 256 TUSL sancisce, al comma 1, che: << i lavori di demolizione o di rimozione dell’amianto possono essere effettuati solo da imprese rispondenti ai requisiti di cui all’articolo 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152>>, mentre al comma 2 recita <<Il datore di lavoro, prima dell’inizio di lavori di demolizione o di rimozione dell’amianto o di materiali contenenti amianto da edifici, strutture, apparecchi e impianti, nonché dai mezzi di trasporto, predispone un piano di lavoro>>, specificando, poi al comma 3, che il piano deve prevedere <<le misure necessarie per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro e la protezione dell’ambiente esterno>> ed allo scopo, al comma 4, detta tutta una serie di contenuti e misure che lo stesso piano deve rispettare.
 

Il disposto normativo in esame, in buona sostanza, impone che i lavori di demolizione e di rimozione dell’amianto possono essere effettuati solo da soggetti iscritti all’albo delle imprese che effettuano la bonifica di beni contenenti amianto.
 

L’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, le cui funzioni oggi sono svolte dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.A.C.), ha stabilito, in diverse occasioni, che l’individuazione della categoria prevalente e della classifica alla quale appartengono le opere da appaltare non rientra nella discrezionalità della stazione appaltante, che non può liberamente prescrivere nel bando di gara il possesso di categorie o classifiche differenti rispetto a quelle fissate dalla legge e dal regolamento, ma deve essere effettuata dal progettista secondo vincolanti prescrizioni (cfr. A.V.C.P., parere 10 settembre 2009, n. 86; idem, parere 17 dicembre 2008, n. 264; poi cfr. A.V.C.P., pareri n. 217/2010 e n. 62 e 152/2013).
 

Dunque, nel caso di opere edili appaltate da un ente pubblico, qualora vi fosse anche il seppur minimo ragionevole dubbio della presenza di m.c.a., nel capitolato speciale d’appalto non solo il committente ed il progettista dovranno qualificare la categoria prevalente dell’affidamento dei lavori in questione nella OG1 (opere edili in genere), ma dovranno menzionare e prevedere anche la OG12 (opere ed impianti di bonifica e protezione ambientale, specifica anche per l’amianto, quale materiale pericoloso). La qualificazione della categoria dei lavori, infatti, deve essere fatta dalla stazione appaltante e dal progettista che, in sede di elaborazione progettuale, deve rigorosamente attenersi alla normativa di settore sancita dal D. Lgs. n. 81/2008, verificando il c.d. “rischio amianto” (materiale pericoloso per la salute) e, quindi, in via prudenziale e cautelare dovrà inserire nel bando di gara anche la categoria OG12, anche se non prevalente.
 

In sintesi, per quel che ci riguarda, anche la qualificazione della categoria di opera ai sensi del D.P.R. n. 207 del 2010, è un compito esclusivo della stazione appaltante e del progettista e, dunque, la mancata individuazione della categoria OG12, quale requisito per partecipare alla gara di appalto, costituisce un contegno positivo dell’ente pubblico circa la non presenza dell’amianto nell’edificio che dovrà essere oggetto di lavori edili.
 

Le sanzioni penali: il rapporto tra gli artt. 262, comma 2, lett. a), e 301 del D. Lgs. n. 81/2008

 

Il disposto di cui all’art 262 del TUSL, al comma 2, lett. a), prevede che in caso di violazione degli artt. 248, comma 1, e 256, comma 1, 2, 3 e 4, il reo è punibile con la pena dell’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 3.071,27 a 7.862,44 euro.
 

Si tratta di un reato contravvenzionale proprio (del datore di lavoro, quindi dell’appaltatore, e del dirigente) che, peraltro, è oblazionabile in forza del disposto di cui all’art. 162 bis c.p. (“oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative”).
 

A quest’ultimo proposito va ricordato, però, che l’art. 301 del TUSL ha espressamente sancito che <<alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro previste dal presente decreto nonché da altre disposizioni aventi forza di legge, per le quali sia prevista la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda ovvero la pena della sola ammenda, si applicano le disposizioni in materia di prescrizione ed estinzione del reato di cui agli articoli 20, e seguenti, del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 (“Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro”) >>.
 

Tali norme prevedono l’estinzione del reato in caso di adempimento delle prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza nel termine fissato e di pagamento in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, di una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa. Viene anche stabilito che l’adempimento in un tempo superiore a quello indicato nella prescrizione, ma che comunque risulta congruo a norma del comma 1, dell’art. 20, ovvero l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione con modalità diverse da quelle indicate dall’organo di vigilanza, debbano essere valutate ai fini dell’applicazione dell’oblazione ex art. 162 bis, nel qual caso la somma da versare sarà ridotta al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa (art. 24, comma 3) (in proposito, v. Cass. Pen., Sez. III, 30 novembre 2017, n. 3671).
 

Peraltro, è controverso se l’omessa indicazione da parte dell’organo di vigilanza delle prescrizioni di regolarizzazione sia causa di improcedibilità dell’azione penale (in senso negativo: da ultimo, Cass. Pen., Sez. III, 17 febbraio 2017, n. 7678; in senso positivo: da ultimo v. Cass. Pen., Sez. III, 15 settembre 2016, n. 37228). Per quanto riguarda invece i rapporti con l’oblazione ex art. 162 bis, è stato escluso che vi sia un rapporto di alternatività rispetto alla speciale disciplina prevista all’art. 24, comma 3, D. Lgs. 19.12.1994, n. 758, in quanto l’oblazione può essere esercitata non soltanto quando non ricorrano le condizioni per l’esperimento della procedura amministrativa prevista dalla legge speciale, ma anche quando il contravventore abbia ritenuto di non avvalersene (in proposito v., Cass. Pen., Sez. III, 29 febbraio 2012, n. 7878).
 

L’applicabilità dell’art. 5 del Codice Penale nei reati contravvenzionali

 

Per quanto riguarda la corretta applicazione dell’art. 5 del Codice Penale, in tema di ignoranza della legge penale, non può che richiamarsi quanto affermato, a seguito della ben nota sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, dall’altrettanto nota pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte, secondo la quale <<per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.
 

Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica.
 

Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto>> (ex multis, per tutte vedi, Cass. Pen. SS. UU., n. 8154 del 10 giugno 1994).
 

In particolare, la tesi della “buona fede” nelle contravvenzioni, originata, prima della sentenza costituzionale sull’art. 5 del Codice Penale, da esigenze di giustizia e fuori da un preciso quadro normativo, è ora diventata la via maestra per individuare l’errore (o l’ignoranza) incolpevole sul divieto. In questo senso la giurisprudenza attribuisce ora giuridica rilevanza alla “buona fede” a condizione che si traduca in mancanza di coscienza dell’illiceità del fatto e derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione circa la liceità del comportamento tenuto (vedi, in proposito: Cass. Pen., Sez. IV, 5 febbraio 2015, n. 9165; Cass. Pen., Sez. III, 4 novembre 2009; Cass. Pen., Sez. III, 6 novembre 2007; Cass. Pen., Sez. III, 5 ottobre 2004 e Cass. Pen., Sez. III, 17 dicembre 1999).
 

La giurisprudenza di legittimità, dunque, è costante nell’affermare un onere, se non di prova almeno di allegazione, da parte dell’indagato, nel senso che egli ha l’onere di indurre l’elemento positivo da cui è scaturita la “buona fede”, nonché di dimostrare di aver compiuto tutto il possibile per conoscere e per osservare la norma violata (in proposito, vedi Cass. Pen., Sez. I, 19 febbraio 2013, n. 13365).
 

Da ultimo, si segnala il recentissimo pronunciamento, in materia di reati edilizi e sempre della Suprema Corte, il quale ribadisce ancora che la <<buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l’elemento soggettivo, ben può essere determinata da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell’interesse protetto dalla norma (nel caso de quo, protezione dall’amianto quale materiale pericoloso per la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta>> (v. Cass. Pen., Sez. III, 09 novembre 2020, n. 31182; ex plurimis: Cass. Pen., Sez. III, n. 49910/2009; Cass. Pen., Sez. III, n. 42021/2014; Cass. Pen., Sez. I, n. 47712/2015; Sez. III, n. 35314/2016).
 

Conclusioni

 

Facendo il punto. Quando l’Ente Pubblico prima, ed in palese non curanza di quanto stabilito dalla normativa in materia di amianto (Legge n. 257/1992 e correlato D.M. 06 settembre 1994), e poi, unitamente al primo, il progettista, in sede di redazione del progetto esecutivo e del PSC, non assolvono ai rispettivi obblighi sanciti dall’articolato del D. Lgs. n. 81/2008 (il quale, preme ancora ricordarlo, prevede che in caso di lavori pubblici il Committente, il Responsabile Unico del Procedimento, il Progettista, il CSP ed il CSE, debbono attenersi ai principi generali e di tutela previsti dall’art. 15 TUSL, e , in particolare, a quanto sancito al comma 1, lett. a) ed f), cioè <<la valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza>> e << la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso>>), e quindi non fanno rilevare la presenza di materiali contenenti amianto nell’opera da appaltare, per la condotta dell’appaltatore violativa sia l’art. 248, comma 1, che l’art. 256, comma 1, 2, 3 e 4, del D. Lgs. n.81 del 2008, può invocarsi la buona fede? Verrebbe da dire proprio di sì.
 

Infatti, di fronte al contegno della Pubblica Amministrazione la quale, nonostante gli obblighi di legge, sia in sede di verifica della effettiva presenza di amianto, della sua classificazione e della sua localizzazione (Legge 27 marzo 1992, n. 257 e D.M. Sanità 06 settembre 1994), che durante l’iter dell’intera procedura di gara dalla progettazione (artt. 15 e 90 D. Lgs. n. 81/2008) e sino all’aggiudicazione all’impresa esecutrice (art. 256, D. Lgs. n. 81/2008), mai ha fatto rilevare che si andava ad operare su di un edificio contenente amianto (art. 248, comma 1, D. Lgs. n. 81/2008), l’appaltatore può invocare l’esimente della buona fede della propria condotta, che esclude l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 42 c.p., in quanto, secondo i dettami della Suprema Corte, conseguenza proprio del “comportamento positivo” tenuto dall’organo amministrativo, anch’esso preposto alla tutela dell’interesse protetto dalle norme in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro, che mai ha fatto fondare nell’appaltatore il benché “minimo (e, vien da dire, ragionevole) dubbio” circa la presenza di amianto (art. 248, comma 2, D. Lgs. n. 81/2008, condotta peraltro non sanzionata penalmente): per la sorte un’eventuale contestazione dei reati contravvenzionali di cui all’art. 262, comma 2, lett. a), del D. Lgs. n. 81/2008, sarebbe da considerarsi tamquam non esset.
 
 

Piacenza, 10 maggio 2021
 

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