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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Recentemente è stata pubblicata dal Ministero dell’ambiente la Carta delle aree potenzialmente idonee (CNAPI), ossia il passo iniziale di percorso che dovrebbe portare alla realizzazione del deposito nazionale (DN) e del parco tecnologico (PT), destinati:
il primo allo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività, derivanti da attività industriali, di ricerca e medico-sanitarie e dalla pregressa gestione di impianti nucleari, e all’immagazzinamento, a titolo provvisorio di lunga durata, dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato provenienti dalla pregressa gestione di impianti nucleari;
il secondo a strutture comuni per i servizi e per le funzioni necessarie alla gestione di un sistema integrato di attività operative, di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico, di infrastrutture tecnologiche per lo svolgimento di attività connesse alla gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato, tra cui la caratterizzazione, il trattamento, il condizionamento e lo stoccaggio nonché (al)lo svolgimento, secondo modalità definite con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di tutte le attività di ricerca, di formazione e di sviluppo tecnologico connesse alla gestione dei rifiuti radioattivi e alla radioprotezione.
Dopo due referendum abrogativi basterà costruire il DN e il PT per far uscire definitivamente il nostro Paese dalle politiche nucleari? La risposta, purtroppo, è a tutt’oggi no. Anzi, al contrario la loro realizzazione potrebbe addirittura rilanciarle. Come? Per comprendere il tema è utile fare un passo indietro. Nonostante siano trascorsi quasi 67 anni dall’accensione della prima centrale termonucleare al mondo, non si è ancora trovata una soluzione per rendere non più pericolose le scorie che questa attività produce. Secondo gli studi finora condotti i prodotti di fissione sono pericolosi per circa 300 anni, gli attinidi minori per circa 10.000, il plutonio per circa 250.000. Per avere un termine di paragone con simili dimensioni temporali basti pensare che i ritrovamenti finora avvenuti stimano che l’homo sapiens apparve sulla Terra circa 300.000 anni fa, mentre circa 10.000 anni addietro si è assistito alla fine dell’ultima glaciazione. Stiamo parlando, quindi, di ere geologiche.
La gestione delle scorie
Qual è la soluzione che viene adottata in tutto il mondo per la gestione di queste scorie? Isolarle il più possibile e aspettare che la loro radioattività decada naturalmente. Insomma, l’energia nucleare sappiamo accenderla, ma non abbiamo idea di come spegnerla. Il DN intende adottare la soluzione adottata in alcuni paesi, infatti non tutti gli stati che dispongono di centrali nucleari hanno depositi dedicati. Il DN, infatti, servirà a: – smaltire rifiuti con tempi di decadimento della loro pericolosità non superiori a 200 anni (media e bassa radioattività); – ospitare per almeno 100 anni i rifiuti ad alta radioattività, che possono avere tempi di decadimento di decine di migliaia di anni.
La funzione del PT, invece, si associa al DN, essendo votato al compito di svolgere attività di ricerca per trovare una soluzione per i rifiuti radioattivi, come ad es. riuscire a ridurre i tempi di abbattimento della loro pericolosità.
Tutto ciò ha un’inconfutabile logica. Abbiamo prodotto e continuiamo a produrre rifiuti radioattivi (ad es. quelli medicali, derivanti dalla ricerca e quelli dalla dismissione di centrali nucleari e impianti a loro funzionali, circa 100.000 mc entro il 2030) e dobbiamo metterli in una struttura il meno insicura possibile. Conferire questi rifiuti un unico luogo – rispetto alla loro attuale dispersione in 19 siti sparsi per l’Italia, molto spesso in situazioni precarie – comporta una diminuzione dei rischi e dei costi. Quindi, in via di principio non si può dire di no al DN, anzi occorre promuoverlo. Ma solo ad una condizione, che non venga ritenuto essere una soluzione per rilanciare l’azzardo nucleare in Italia. Purtroppo, oggi questo pericolo non è stato scongiurato. Il nostro Paese, infatti, non ha del tutto abbandonato le politiche nucleari. Al contrario.
Il quadro normativo
Nonostante i due referendum popolari (1986 e 2011), con i quali la stragrande maggioranza degli italiani (80% e 95%) ha chiesto di chiudere definitivamente questo capitolo, nel nostro ordinamento giuridico albergano ancora norme a favore delle politiche di sviluppo del nucleare.
L’art. 38 della legge 99/2009, ad esempio, promuove la ricerca per il nucleare “di nuova generazione” e la cui lett. b) del comma 1 promuove la partecipazione attiva, con ricostruzione della capacità di ricerca e di sviluppo di ausilio alla realizzazione sia di apparati dimostrativi sia di futuri reattori di potenza, ai programmi internazionali sul nucleare denominati “Generation IV International Forum” (GIF), “Global Nuclear Energy Partnership” (GNEP), “International Project on Innovative Nuclear Reactors and Fuel Cycles” (INPRO), “Accordo bilaterale Italia-USA di cooperazione energetica”, “International Thermonuclear Experimental Reactor” (ITER) e “Broader Approach”, ad accordi bilaterali, internazionali di cooperazione energetica e nucleare anche finalizzati alla realizzazione sia di apparati dimostrativi sia di futuri reattori di potenza, nonché partecipazione attiva ai programmi di ricerca, con particolare attenzione a quelli comunitari, nel settore del trattamento e dello stoccaggio del combustibile esaurito, con specifica attenzione all’area della separazione e trasmutazione delle scorie.
Il Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi – approvato il 30 ottobre 2019 – afferma che per quanto riguarda i reattori di ricerca, la politica nazionale in materia di combustibile è quella di restituire al paese di origine il combustibile esaurito. In altri termini, portiamo in Italia anche scorie prodotte da altri Paesi. O ancora, il comma 4 dell’art. 1.bis del d. lgvo n. 45/2014 testualmente recita: Qualora rifiuti radioattivi o combustibile esaurito siano spediti in Italia, per il trattamento o il ritrattamento, la responsabilità sussidiaria dello smaltimento sicuro e responsabile di tali materie radioattive, compresi eventuali rifiuti qualificabili come sottoprodotti, definiti come rifiuti radioattivi derivanti dalle attività di trattamento e ritrattamento, è dello Stato membro dell’Unione europea o del Paese terzo dal cui territorio tali materie radioattive sono state spedite. È bene ricordare che il trattamento e il ritrattamento di scorie radioattive è un’attività a tutti gli effetti classificata come nucleare. Quindi, è possibile – e previsto – gestire scorie che vengono generate in altri Paesi.
Peraltro, non bisogna dimenticare che il DN e il PT sono stati previsti nella legge con la quale nel 2010 – la n. 35 – si intendeva rilanciare la costruzione di nuove centrali nucleari e poi parzialmente abrogata con il referendum del 2011. Insomma, questi due impianti erano due pilastri di quella impostazione.
Il quadro normativo è, quindi, ancora troppo equivoco. Da una parte, in apparenza intendiamo uscire dal nucleare, dall’altra continuiamo a scommetterci e a spendere soldi. In questo quadro è più che legittimo porsi la domanda se non siano più che giustificate le preoccupazioni sollevate da parte delle comunità, che hanno visto il proprio territorio ricompreso tra le aree potenzialmente idonee. E come non aspettarsi che queste proteste cresceranno durante i prossimi passi verso il DN? E in queste condizioni come immaginare di poter proseguire nel percorso verso il DN e il PT? Provo a proporre due soluzioni.
La prima è quella di cancellare ogni ambiguità normativa. Cominciamo a rispettare la volontà popolare e eliminiamo tutte le norme oggi vigenti che continuano a tenere in vita le politiche nucleariste e la speranza di un loro nuovo rilancio. Come ad esempio riordinare della disciplina disponendo:
la cancellazione dell’art. 38, della legge n. 1860/1962;
l’eliminazione di ogni ambiguità riguardo lo stoccaggio dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato provenienti dalla pregressa gestione di impianti nucleari e l’introduzione di una disciplina che definisca un apposito programma di gestione di questa tipologia di rifiuti;
l’esplicito divieto di importare, trattare o comunque gestire rifiuti radioattivi e combustibile nucleare – anche esausto – generati in altri stati;
che l’attività da svolgere nel PT dovrà essere funzionale solo allo scopo della definitiva uscita del nostro Paese dal settore nucleare
Quali garanzie?
Un altro tema da affrontare è quello delle garanzie. Nel settore nucleare non esiste il concetto di sicurezza, tant’è vero che proprio in questo ambito è stata prodotta la cosiddetta analisi del rischio, che come sappiamo non esclude il verificarsi di un evento, ma mira solo a ridurne le possibilità che si realizzi. A riprova di ciò, basti citare gli incidenti di Chernobyl, Fukushima, Three Miles Island …
Allora come si può mai pensare di garantire la sicurezza di una struttura che conterrà scorie nucleari per 300 anni? Che durante questi 3 secoli venga monitorata, vigilata e dotata di un efficiente sistema di intervento in caso di incidente? Anche in questo caso la risposta è negativa. Non esistono assicurazioni, condizioni e forme contrattuali collaudate per offrire garanzie affidabili per un tale periodo. Ma allora come si può immaginare che una comunità accetti di accogliere un simile impianto, considerando peraltro che la gran parte delle istituzioni hanno una vita inferiore ai 300 anni.
Questo è il classico esempio di un conflitto intergenerazionale: i contraenti di oggi assumono impegni di cui non dovranno rispondere, mentre le future generazioni non avranno nessuna possibilità di negoziare i propri interessi e dovranno essere soggetti agli impegni definiti da altri. Anche a queste domande si potrebbero prospettare delle risposte agendo almeno su 3 diversi livelli:
vietare il conferimento anche transitorio dei rifiuti ad altra radioattività;
definire modalità di partecipazione decisionale della comunità locale nella gestione e nelle attività del DN e del PT;
prevedere periodici riesami dell’accordo.
Sul primo aspetto la durata della pericolosità di quella tipologia di rifiuti – diverse migliaia di anni – rende impraticabile qualsiasi forma di accordo. Perlomeno tra un soggetto pubblico e una comunità locale. Inoltre, lo stoccaggio di rifiuti ad alta radioattività in un impianto progettato per il deposito di rifiuti a media e bassa attività dà linfa al sospetto che in realtà la struttura sia finalizzata ad accogliere la prima tipologia di rifiuti e sia mirato a riaprire la politica nuclearista. Più idonea sembra, invece, la soluzione secondo cui le modalità di gestione delle scorie ad alta radioattività si risolva mediante un accordo tra stati. L’Italia al riguardo – considerate anche le basse quantità in peso di questa tipologia di rifiuti – potrebbe chiudere un accordo con uno degli stati che si sarà dotato di un deposito per lo stoccaggio definitivo di rifiuti ad alta radioattività di origine civile.
Come sappiamo al momento nel mondo non esistono impianti di questo tipo in esercizio, ma due risulterebbero essere stati realizzati e dovrebbero entrare in esercizio nel 2023 e nel 2025. Ossia prima della realizzazione del DN. Quindi, l’Italia potrebbe avviare sin da subito questa negoziazione e arrivare alla definizione di un accordo con uno di questi stati, rimuovendo questo macigno dalla discussione sul DN.
Gli altri due aspetti attendono al riconoscimento di una capacità decisionale alle generazioni future, permettendo loro di poter avere – seppur parzialmente – anche la possibilità di definire/rinegoziare le condizioni, adattandole alle necessità nel frattempo dovessero emergere.
In particolare, l’accordo per la realizzazione del DN e PT dovrebbe disporre che la collettività locale possa esprimere rappresentanze in tutti gli organi dell’ente che gestirà questi due strutture, stabilire che il piano di ricerca e sperimentazione sia previamente definito d’intesa e che alla collettività locale siano riconosciute funzioni effettive di controllo e vigilanza sulla gestione del DN e del PT, come ad esempio il potere di nominare i membri del collegio dei revisori dei conti e di poter gestire le attività di raccolta e validazione dei dati ambientali e sanitari.
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Basterà il Deposito nazionale ad uscire definitivamente dalle politiche nucleari?
di Stefano Leoni
Indice:
Capitolo 1: La Carta delle aree potenzialmente idonee
Capitolo 2: La gestione delle scorie
Capitolo 3: Il quadro normativo
Capitolo 4: Quali garanzie?
La Carta delle aree potenzialmente idonee
Recentemente è stata pubblicata dal Ministero dell’ambiente la Carta delle aree potenzialmente idonee (CNAPI), ossia il passo iniziale di percorso che dovrebbe portare alla realizzazione del deposito nazionale (DN) e del parco tecnologico (PT), destinati:
Dopo due referendum abrogativi basterà costruire il DN e il PT per far uscire definitivamente il nostro Paese dalle politiche nucleari? La risposta, purtroppo, è a tutt’oggi no. Anzi, al contrario la loro realizzazione potrebbe addirittura rilanciarle. Come? Per comprendere il tema è utile fare un passo indietro.
Nonostante siano trascorsi quasi 67 anni dall’accensione della prima centrale termonucleare al mondo, non si è ancora trovata una soluzione per rendere non più pericolose le scorie che questa attività produce. Secondo gli studi finora condotti i prodotti di fissione sono pericolosi per circa 300 anni, gli attinidi minori per circa 10.000, il plutonio per circa 250.000.
Per avere un termine di paragone con simili dimensioni temporali basti pensare che i ritrovamenti finora avvenuti stimano che l’homo sapiens apparve sulla Terra circa 300.000 anni fa, mentre circa 10.000 anni addietro si è assistito alla fine dell’ultima glaciazione. Stiamo parlando, quindi, di ere geologiche.
La gestione delle scorie
Qual è la soluzione che viene adottata in tutto il mondo per la gestione di queste scorie? Isolarle il più possibile e aspettare che la loro radioattività decada naturalmente. Insomma, l’energia nucleare sappiamo accenderla, ma non abbiamo idea di come spegnerla. Il DN intende adottare la soluzione adottata in alcuni paesi, infatti non tutti gli stati che dispongono di centrali nucleari hanno depositi dedicati.
Il DN, infatti, servirà a:
– smaltire rifiuti con tempi di decadimento della loro pericolosità non superiori a 200 anni (media e bassa radioattività);
– ospitare per almeno 100 anni i rifiuti ad alta radioattività, che possono avere tempi di decadimento di decine di migliaia di anni.
La funzione del PT, invece, si associa al DN, essendo votato al compito di svolgere attività di ricerca per trovare una soluzione per i rifiuti radioattivi, come ad es. riuscire a ridurre i tempi di abbattimento della loro pericolosità.
Tutto ciò ha un’inconfutabile logica. Abbiamo prodotto e continuiamo a produrre rifiuti radioattivi (ad es. quelli medicali, derivanti dalla ricerca e quelli dalla dismissione di centrali nucleari e impianti a loro funzionali, circa 100.000 mc entro il 2030) e dobbiamo metterli in una struttura il meno insicura possibile. Conferire questi rifiuti un unico luogo – rispetto alla loro attuale dispersione in 19 siti sparsi per l’Italia, molto spesso in situazioni precarie – comporta una diminuzione dei rischi e dei costi. Quindi, in via di principio non si può dire di no al DN, anzi occorre promuoverlo.
Ma solo ad una condizione, che non venga ritenuto essere una soluzione per rilanciare l’azzardo nucleare in Italia. Purtroppo, oggi questo pericolo non è stato scongiurato. Il nostro Paese, infatti, non ha del tutto abbandonato le politiche nucleari. Al contrario.
Il quadro normativo
Nonostante i due referendum popolari (1986 e 2011), con i quali la stragrande maggioranza degli italiani (80% e 95%) ha chiesto di chiudere definitivamente questo capitolo, nel nostro ordinamento giuridico albergano ancora norme a favore delle politiche di sviluppo del nucleare.
L’art. 38 della legge 99/2009, ad esempio, promuove la ricerca per il nucleare “di nuova generazione” e la cui lett. b) del comma 1 promuove la partecipazione attiva, con ricostruzione della capacità di ricerca e di sviluppo di ausilio alla realizzazione sia di apparati dimostrativi sia di futuri reattori di potenza, ai programmi internazionali sul nucleare denominati “Generation IV International Forum” (GIF), “Global Nuclear Energy Partnership” (GNEP), “International Project on Innovative Nuclear Reactors and Fuel Cycles” (INPRO), “Accordo bilaterale Italia-USA di cooperazione energetica”, “International Thermonuclear Experimental Reactor” (ITER) e “Broader Approach”, ad accordi bilaterali, internazionali di cooperazione energetica e nucleare anche finalizzati alla realizzazione sia di apparati dimostrativi sia di futuri reattori di potenza, nonché partecipazione attiva ai programmi di ricerca, con particolare attenzione a quelli comunitari, nel settore del trattamento e dello stoccaggio del combustibile esaurito, con specifica attenzione all’area della separazione e trasmutazione delle scorie.
Il Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi – approvato il 30 ottobre 2019 – afferma che per quanto riguarda i reattori di ricerca, la politica nazionale in materia di combustibile è quella di restituire al paese di origine il combustibile esaurito. In altri termini, portiamo in Italia anche scorie prodotte da altri Paesi.
O ancora, il comma 4 dell’art. 1.bis del d. lgvo n. 45/2014 testualmente recita: Qualora rifiuti radioattivi o combustibile esaurito siano spediti in Italia, per il trattamento o il ritrattamento, la responsabilità sussidiaria dello smaltimento sicuro e responsabile di tali materie radioattive, compresi eventuali rifiuti qualificabili come sottoprodotti, definiti come rifiuti radioattivi derivanti dalle attività di trattamento e ritrattamento, è dello Stato membro dell’Unione europea o del Paese terzo dal cui territorio tali materie radioattive sono state spedite. È bene ricordare che il trattamento e il ritrattamento di scorie radioattive è un’attività a tutti gli effetti classificata come nucleare. Quindi, è possibile – e previsto – gestire scorie che vengono generate in altri Paesi.
Peraltro, non bisogna dimenticare che il DN e il PT sono stati previsti nella legge con la quale nel 2010 – la n. 35 – si intendeva rilanciare la costruzione di nuove centrali nucleari e poi parzialmente abrogata con il referendum del 2011. Insomma, questi due impianti erano due pilastri di quella impostazione.
Il quadro normativo è, quindi, ancora troppo equivoco. Da una parte, in apparenza intendiamo uscire dal nucleare, dall’altra continuiamo a scommetterci e a spendere soldi.
In questo quadro è più che legittimo porsi la domanda se non siano più che giustificate le preoccupazioni sollevate da parte delle comunità, che hanno visto il proprio territorio ricompreso tra le aree potenzialmente idonee. E come non aspettarsi che queste proteste cresceranno durante i prossimi passi verso il DN? E in queste condizioni come immaginare di poter proseguire nel percorso verso il DN e il PT? Provo a proporre due soluzioni.
La prima è quella di cancellare ogni ambiguità normativa. Cominciamo a rispettare la volontà popolare e eliminiamo tutte le norme oggi vigenti che continuano a tenere in vita le politiche nucleariste e la speranza di un loro nuovo rilancio. Come ad esempio riordinare della disciplina disponendo:
Quali garanzie?
Un altro tema da affrontare è quello delle garanzie. Nel settore nucleare non esiste il concetto di sicurezza, tant’è vero che proprio in questo ambito è stata prodotta la cosiddetta analisi del rischio, che come sappiamo non esclude il verificarsi di un evento, ma mira solo a ridurne le possibilità che si realizzi. A riprova di ciò, basti citare gli incidenti di Chernobyl, Fukushima, Three Miles Island …
Allora come si può mai pensare di garantire la sicurezza di una struttura che conterrà scorie nucleari per 300 anni? Che durante questi 3 secoli venga monitorata, vigilata e dotata di un efficiente sistema di intervento in caso di incidente? Anche in questo caso la risposta è negativa. Non esistono assicurazioni, condizioni e forme contrattuali collaudate per offrire garanzie affidabili per un tale periodo.
Ma allora come si può immaginare che una comunità accetti di accogliere un simile impianto, considerando peraltro che la gran parte delle istituzioni hanno una vita inferiore ai 300 anni.
Questo è il classico esempio di un conflitto intergenerazionale: i contraenti di oggi assumono impegni di cui non dovranno rispondere, mentre le future generazioni non avranno nessuna possibilità di negoziare i propri interessi e dovranno essere soggetti agli impegni definiti da altri.
Anche a queste domande si potrebbero prospettare delle risposte agendo almeno su 3 diversi livelli:
Sul primo aspetto la durata della pericolosità di quella tipologia di rifiuti – diverse migliaia di anni – rende impraticabile qualsiasi forma di accordo. Perlomeno tra un soggetto pubblico e una comunità locale. Inoltre, lo stoccaggio di rifiuti ad alta radioattività in un impianto progettato per il deposito di rifiuti a media e bassa attività dà linfa al sospetto che in realtà la struttura sia finalizzata ad accogliere la prima tipologia di rifiuti e sia mirato a riaprire la politica nuclearista.
Più idonea sembra, invece, la soluzione secondo cui le modalità di gestione delle scorie ad alta radioattività si risolva mediante un accordo tra stati. L’Italia al riguardo – considerate anche le basse quantità in peso di questa tipologia di rifiuti – potrebbe chiudere un accordo con uno degli stati che si sarà dotato di un deposito per lo stoccaggio definitivo di rifiuti ad alta radioattività di origine civile.
Come sappiamo al momento nel mondo non esistono impianti di questo tipo in esercizio, ma due risulterebbero essere stati realizzati e dovrebbero entrare in esercizio nel 2023 e nel 2025. Ossia prima della realizzazione del DN. Quindi, l’Italia potrebbe avviare sin da subito questa negoziazione e arrivare alla definizione di un accordo con uno di questi stati, rimuovendo questo macigno dalla discussione sul DN.
Gli altri due aspetti attendono al riconoscimento di una capacità decisionale alle generazioni future, permettendo loro di poter avere – seppur parzialmente – anche la possibilità di definire/rinegoziare le condizioni, adattandole alle necessità nel frattempo dovessero emergere.
In particolare, l’accordo per la realizzazione del DN e PT dovrebbe disporre che la collettività locale possa esprimere rappresentanze in tutti gli organi dell’ente che gestirà questi due strutture, stabilire che il piano di ricerca e sperimentazione sia previamente definito d’intesa e che alla collettività locale siano riconosciute funzioni effettive di controllo e vigilanza sulla gestione del DN e del PT, come ad esempio il potere di nominare i membri del collegio dei revisori dei conti e di poter gestire le attività di raccolta e validazione dei dati ambientali e sanitari.
Piacenza, 12 febbraio 2021
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