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Beni culturali: alcune note sulla disciplina dettata dal nuovo testo unico

di Fabrizio Rocca

Categoria: Beni culturali e ambientali

Assoluta novità nel panorama della legislazione italiana, è stato recentemente pubblicato nel S.O. n. 302 alla G.U. del 27 dicembre 1999 il “testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali” (D.L.vo 29 ottobre 1999, n. 490), redatto a norma dell’articolo 1 della legge delega 8 ottobre 1997, n. 352. Con questo nuovo provvedimento, che si spera possa dimostrarsi un valido strumento per meglio affrontare i numerosi problemi di gestione e di tutela che quotidianamente pone un patrimonio culturale nazionale di primaria importanza quale il nostro, i compilatori si sono prefissi il fine di conseguire una risistemazione il più possibile organica ed omogenea di tutta una serie di leggi disciplinanti la materia, a partire dalla L. del 1 giugno 1930 n. 1089 ormai palesemente inadeguata, a cui si sostituisce con forza di legge.

L’obiettivo di chiarificazione e di maggiore organicità della normativa posta a tutela dei beni culturali si può dire che sia stato in buona parte realizzato nonostante la limitatezza dei poteri innovativi attribuiti al legislatore delegato dalla L. n. 352/97 che ha determinato, in alcuni casi, lacune e contraddizioni. L’opera, del resto, non risultava di facile attuazione, considerato che si rendeva necessario coordinare non solo formalmente, bensì, anche e soprattutto, da un punto di vista sostanziale le diverse previsioni legislative affinchè si potesse ottenere un corpus omogeneo di norme. Valutando complessivamente il risultato ottenuto, si deve dare atto che il legislatore delegato non si è limitato alla semplice modifica di termini o di espressioni impiegate nei vari testi normativi ma ha realizzato in diverse occasioni un incisivo intervento sul contenuto stesso della norma con il chiaro scopo di delineare una identica normazione per tutte le singole species di beni, precedentemente oggetto della disciplina di una pluralità di normative, ma astrattamente riconducibili alla categoria dei beni culturali.

Si è, in definitiva, rielaborata la materia ricavandone i principi dalle stesse disposizioni da unificare e coordinare e ciò in quanto la nuova disciplina è volta a sostituire la precedente.

Il T.U. si compone di 166 articoli suddivisi in due Titoli.

Il Titolo I, concerne i beni culturali e presenta un’articolazione in capi e sezioni sostanzialmente riproduttiva dello schema della L. n. 1089/39 integrata dagli apporti della legislazione successiva.

Il Titolo II, dedicato ai beni paesaggistici e ambientali, si articola anch’esso in capi e sezioni e contiene una disciplina risultante dal coordinamento delle leggi nn. 1497/39 e 431/85 che insieme hanno costituito il previgente sistema normativo a tutela dei beni ambientali.

Trascurando il telaio nella sua interezza, mi sembra opportuno fornire, in questo articolo, una prima e sommaria analisi della nuova regolamentazione dei beni culturali disposta dalla cospicua serie di norme (137 articoli) contenute nel Titolo primo, limitatamente alle sue disposizioni più significative.

La Sezione prima del Capo primo del predetto Titolo, individua la categoria dei beni oggetto di tutela del presente T.U., ed impone immediatamente la necessità di una prima premessa di ordine generale relativa alla definizione di “bene culturale”. In proposito, nella Relazione del 22 gennaio 1999 del Ministero per i Beni e le Attività culturali, si era rilevata da parte dei compilatori del Testo Unico “l’impossibilità di far capo ad una definizione di principio di bene culturale e cioè ad una definizione accreditata sul piano culturale ma che avrebbe comportato il rischio di ampliare l’area della tutela al di là dei dati normativi vigenti”.

In realtà, la soluzione adottata nel T.U. costituisce un’apertura di principio in tal senso. Da un lato, negli artt. 2 e 3, si è elaborata una “definizione normativa di bene culturale” che come la stessa Relazione della Commissione Ambientale ha precisato “assume come suo nucleo centrale le cose regolate dalla L. n. 1089/39, senza però rinunciare ad includere nella nozione altre categorie di cose già normate con finalità riconducibili alle aree della tutela e della valorizzazione”. In altre parole, si è considerato bene culturale ogni bene che, in considerazione del suo valore storico, artistico, archeologico, ecc., ha formato oggetto, in qualsiasi modo, di tutela da parte di una disposizione di legge. Dall’altro, non è mancato, nell’art. 4, che costituisce la norma di chiusura della sezione prima, il richiamo ad una definizione unitaria e di principio di bene culturale quale è, in parte, la nozione già elaborata in dottrina[1], consentendo di individuare, tramite disposizione legislativa, nuovi beni culturali che siano testimonianza di civiltà non ricompresi nelle categorie elencate dagli artt. 2 e 3. In tal modo, sembrerebbe possibile individuare il bene oggetto di tutela in base al valore culturale ab origine presente nello stesso, indipendentemente dal fatto di essere già stato oggetto di normazione o meno.

 

Analisi dell’articolato

Capo 1, Sezione I (artt. 1-4). Senza novità rilevanti, gli artt. 2 e 3 individuano le categorie di beni sottoposte a tutela, includendovi, come già premesso, ogni bene comunque protetto dall’ordinamento in virtù del suo valore culturale.

Rincresce, tuttavia, che si sia perduta un’altra occasione per includere, da subito e con chiarezza, nell’ambito applicativo delle norme di tutela sia le opere di arte contemporanea (escluse dal comma 6, dell’art. 2: “non sono soggette alla disciplina di questo Titolo, a norma del comma 1, lettera a), le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni”) che le opere fotografiche, cinematografiche e discografiche la cui produzione non risulti datata oltre i venticinque anni (escluse implicitamente dall’art. 3, comma 1, lett. d, che tutela unicamente: “le fotografie e gli esemplari delle opere cinematografiche, audiovisive o sequenze di immagini in movimento o comunque registrate, nonché le documentazioni di manifestazioni sonore o verbali comunque registrate, la cui produzione risalga ad oltre venticinque anni”) e che potrebbero rivestire indubbia rilevanza quali opere d’arte e quali documenti di particolari momenti storici avvenuti durante tale arco di tempo. Desta, inoltre, qualche legittima perplessità la scelta del Legislatore di utilizzare termini differenti per definire le caratteristiche che manoscritti, libri e stampe da un lato e carte geografiche, spartiti musicali e fotografie dall’altro debbono presentare per potere usufruire della tutela apprestata dal T.U. Utilizzare l’espressione “carattere di rarità e di pregio” nel primo caso e “di pregio artistico o storico” nel secondo, potrebbe legittimare, nella pratica, valutazioni differenti del pregio di un bene culturale non in perfetta sintonia con la sua qualità estetica e oggettiva importanza quale testimonianza materiale di personaggi, eventi ed ambiti culturali.

Nella Sezione II (artt. 5-9), troviamo il complesso di norme che disciplinano le procedure di identificazione, mediante atto amministrativo, del bene che per il suo intrinseco valore culturale risulti meritevole di tutela. Preme osservare, al riguardo, l’introduzione nel testo normativo da parte del legislatore delegato di un quid pluris rispetto al semplice coordinamento della normativa esistente. Mi riferisco, nello specifico, all’inserimento dell’istituto della “dichiarazione” (atto conclusivo del procedimento di identificazione) separato da quello della “notifica” della stessa all’interessato, operando una scelta difforme da quella a suo tempo adottata dagli estensori della L. n. 1089/39, ed al recepimento, sicuramente condivisibile, dei principi in tema di partecipazione al procedimento amministrativo desunti dalla L. n. 241/90. La suddetta distinzione costituisce certamente un momento di chiarezza procedimentale tanto più apprezzabile se si considera, tra l’altro, le maggiori garanzie di cui gode ora il privato a cui deve essere data tempestiva comunicazione dell’inizio del procedimento di dichiarazione riguardante un bene di sua proprietà, possesso o detenzione con l’espressa indicazione di un termine, non comunque inferiore a 30 gg., per la presentazione di eventuali sue osservazioni (art. 7, comma 2). Norma particolarmente felice quest’ultima, in quanto sembrerebbe favorire una partecipazione più attiva del privato sia in termini conoscitivi che collaborativi alle scelte dell’amministrazione.

Nonostante l’inopportuno silenzio della norma, si osserva, tra l’altro, che il proprietario, possessore o detentore del bene oggetto di procedimento di dichiarazione può prendere visione degli atti del procedimento esercitando il diritto di accesso agli atti amministrativi, salvi i casi di esclusione previsti ex art. 24 della L. n. 241/90[2].

Ai fini dell’individuazione dei beni meritevoli di tutela, l’art. 5 T.U., che sostituisce ed aggiorna, tra gli altri, l’art. 4, comma 1, della L. n. 1089/39, impone l’obbligo ad alcuni soggetti di predisporre e presentare al Ministero l’elenco dei beni culturali di cui abbiano la disponibilità. In proposito, la disposizione identifica i soggetti obbligati nelle “regioni, province, comuni, altri enti pubblici e persone giuridiche private” sostituendo così l’originaria espressione “enti ed istituti legalmente riconosciuti”[3] che si leggeva nella L. n. 1089/39. La sostituzione appare corretta ma impone una prima osservazione di carattere solo apparentemente terminologico; si deve, infatti, rilevare come con l’attuale formulazione, nel concetto di “persone giuridiche private” rientrino anche le società commerciali, circostanza questa che potrebbe far nascere, nella pratica, problemi di interpretazione.

Rilevante, appare pure il disposto dell’art. 6 che precisa le forme di riconoscimento del valore culturale dei beni di proprietà privata traendole dagli articoli 2, 3 e 5 della L. n. 1089/39 e dall’art. 36 del d.p.r n. 1409/63. In merito all’applicazione del suindicato art. 3 della legge del 1939 ai beni appartenenti agli istituti ecclesiastici, va rilevata la recente presa di posizione della Cassazione penale con sentenza n. 1463/99, la quale ha precisato che “le cose che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, appartenenti ad enti o istituti legalmente riconosciuti, fra i quali vanno sicuramente annoverati anche gli istituti ecclesiastici cui fanno capo le Chiese aperte al culto, non possono essere alienate se non previa autorizzazione del Ministero competente. Ai sensi dell’art. 3 L. 1 giugno 1939, n. 1089, il decreto impositivo del vincolo deve essere notificato solo se relativo a cose appartenenti a privati, mentre per quelle appartenenti ad istituti legalmente riconosciuti, il vincolo è efficace a prescindere da qualsiasi notifica del provvedimento ed anche se le cose non sono state comprese negli elenchi che i rappresentanti degli enti sono obbligati a presentare…”[4]

Il procedimento finalizzato alla dichiarazione di bene culturale viene regolamentato dall’art. 7 che ha giustamente tenuto conto, al comma 3, delle esigenze di intervento degli enti locali, ormai coinvolti, secondo uno schema di cooperazione, nella gestione del patrimonio. Una precisazione merita l’utilizzo, nel primo comma, del termine di “comunicazione” dell’avvio del procedimento al proprietario, possessore o detentore del bene, senza specificare come la comunicazione debba avvenire. Si dovrebbe quindi ritenere sufficiente un qualunque mezzo di partecipazione dell’atto.

Degno di nota risulta, infine, il dettato del comma 4 dell’articolo in esame che introduce una misura cautelare non prevista costituita dall’applicazione, in via anticipata a far tempo dalla comunicazione dell’avvio del procedimento per la dichiarazione, dei più significativi vincoli alla libera disponibilità del bene da parte del proprietario, con durata correlata al termine di adozione del provvedimento stabilito a norma della L. n. 241 del 1990.

Nella Sezione III (artt. 10-20), concernente le disposizioni generali e transitorie, ritroviamo alcune norme della legge fondamentale di tutela del 1939 la cui valenza dispositiva non poteva essere trascurata e disposizioni nate dalla necessità di coordinamento con la normativa sopravvenuta alla stessa legge.

La norma fondamentale di tutta le Sezione è l’art.10 che prevede, al comma 2 che “le disposizioni del Capo II, sezioni I e II e del Capo III, sezioni I e III, di questo Titolo si applicano alle cose indicate nell’art. 2, comma 1, lett. a, di proprietà privata, nonché ai beni indicati nell’art. 2, comma 4, lett. c, solo se sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’art. 6, comma 2”. La disposizione avente carattere generale, dovrebbe quindi servire a precisare, in maniera univoca e valida per tutte le ipotesi, che l’operatività dei poteri della pubblica amministrazione sui beni privati è comunque subordinata alla esistenza della “dichiarazione” e relativa notifica.

Nel Capo II, titolato “conservazione”, viene raccolta, in tre Sezioni, la normativa sulla tutela della integrità materiale del bene con riguardo al connesso tema del restauro e le disposizioni concernenti le forme e le modalità della partecipazione dello Stato agli interventi conservativi.

Di evidente rilevanza la disciplina delle forme di controllo sugli interventi che incidono sulla integrità e sicurezza dei beni tutelati contenuta nella Sezione I (artt. 21-33). Il legislatore ha cercato di snellire e semplificare i relativi procedimenti con l’intento di soddisfare le egualmente avvertite esigenze di speditezza delle procedure e di salvaguardia del bene culturale oggetto di intervento. Per tale ragione, dando concreto esempio di coordinamento sostanziale, sono state introdotte norme di raccordo con procedimenti esterni alla materia del T.U. quali la valutazione d’impatto ambientale (V.I.A.) e le conferenze di servizi, assicurando anche in tali sedi decisionali la piena garanzia dei valori culturali.

Ribadita, al comma 1 dell’art. 21, la necessità dell’autorizzazione del Ministero agli interventi di demolizione o modifica sui beni tutelati, fatto salvo quanto previsto al successivo art. 23, particolare attenzione merita il disposto dei commi 3 e 4 del predetto articolo che vietano di smembrare collezioni e archivi, riprendendo quanto precedentemente sancito, rispettivamente, dagli artt. 5 della L. n. 1089/39 e 38, lett. g, del d.p.r. n. 1409/63. In tema, si evidenzia la pronuncia della Cassazione civile n. 2660/87 laddove precisa che “l’art. 5 della L. n. 1089/39 (ora art. 21 T.U.) che fa divieto di smembrare, senza la preventiva autorizzazione del ministro competente, le collezioni o serie di oggetti dichiarate di eccezionale interesse artistico o storico, non tutela l’integrità dei complessi in modo assoluto, così da legittimare qualunque interessato a far valere la nullità della cessione frazionata dei complessi medesimi, poiché tale distinzione non trova alcun fondamento nel testo legislativo, il quale prevede la nullità per tutti i casi e mira a tutelare il patrimonio artistico dello Stato nell’interesse generale. In conseguenza la nullità stessa può essere fatta valere soltanto dalla pubblica amministrazione, nel cui esclusivo interesse è sancita, determinando non l’invalidità della convenzione stipulata tra i privati, ma la sua inopponibilità alla P.A., così da condizionare il trasferimento all’esercizio del diritto di prelazione che viene a caducare il diritto di proprietà dell’acquirente e vi sostituisce quello dello Stato”.[5]

Si osserva, inoltre, che la norma in discussione dispone il divieto di demolizione, modificazione e restauro, nei confronti dei beni appartenenti a privati, condizionato necessariamente all’avvenuta notifica in conformità con la previsione della norma omologa contenuta nella legge fondamentale di tutela del 1939.

Di rilievo appare, pure, la sostituzione ex art. 23, comma 2, dell’autorizzazione ministeriale con il provvedimento di approvazione del soprintendente che i privati hanno l’obbligo di ottenere in via preventiva (art. 23, comma 1) per i progetti di opere di qualunque genere che intendano eseguire sui beni culturali. Appare evidente l’importanza della semplificazione introdotta in tale norma, in termini, soprattutto, di economia dei tempi decisionali prima patologicamente lunghi. Tale preventiva approvazione, se riferita ad interventi in materia edilizia, dovrà essere rilasciata entro il termine di novanta giorni dalla presentazione della richiesta salvi i casi disciplinati dagli artt. 25 e 26 T.U. Dal tenore letterale della norma non vi sono dubbi che il termine suindicato abbia carattere perentorio e, pertanto, il suo inutile decorso rende l’amministrazione inadempiente verso il soggetto privato istante.

Si segnala ancora, in questa sezione, in tema di progetti di opere sottoposte alla valutazione di impatto ambientale (V.I.A.), la possibilità prevista all’art. 26 del Ministro per i beni e le attività culturali di pronunciarsi negativamente in caso di contrasto tra l’opera da realizzare e il bene culturale sul quale incide, determinando la conclusione negativa della procedura di V.I.A. del progetto dell’opera. Tale “motivato dissenso” rappresenta una importante garanzia di salvaguardia dei beni tutelati.

Assume, infine, carattere di novità il disposto dell’art. 28 T.U. che attribuisce al soprintendente il potere, prima riconosciuto solo al ministero dell’Ambiente, di ordinare la sospensione dei lavori iniziati ovvero condotti in difformità dal provvedimento autorizzatorio e dalle esigenze conservative del bene culturale protetto.

La Sezione II (artt. 34 – 48), rubricata restauro contiene alcune delle disposizioni più interessanti del T.U. Mi riferisco, in particolare, alle norme che definiscono la nozione di “restauro” e che disciplinano le c.d. “procedure urbanistiche semplificate”.

Di assoluto rilievo la definizione normativa del termine “restauro” contenuta nell’art. 34 secondo il quale “per restauro si intende l’intervento diretto sulla cosa volto a mantenerne l’integrità materiale e ad assicurare la conservazione e la protezione dei suoi valori culturali. Nel caso di beni immobili situati nelle zone dichiarate a rischio sismico in base alla normativa vigente il restauro comprende l’intervento di miglioramento strutturale”.

Come la stessa Commissione ministeriale ha precisato nella propria Relazione, “l’esigenza di introdurre la disciplina del restauro con una definizione del termine risponde ad un duplice obiettivo: quello di ricomprendere in essa gli interventi legati all’erogazione dei contributi, alle agevolazioni fiscali e agli interventi coattivi, e quello di rendere inscindibili, quali sono, concetti fondamentali come la tutela, la conservazione e il restauro”.

Interessante, in particolare, l’inserimento, nella nozione di restauro, degli interventi di miglioramento strutturale dei beni situati in zona sismica che si spera possano concretamente svolgere una funzione di prevenzione antisismica modificando una consolidata quanto poco efficiente prassi di interventi conservativi-consolidativi successivi al verificarsi degli eventi sismici.

Il restauro deve essere ovviamente approvato tramite la procedura delineata dall’art. 35, caratterizzata dalla necessità per il privato di munirsi della preventiva autorizzazione da parte dell’amministrazione e dall’obbligo, con l’approvazione del progetto, del soprintendente di pronunciarsi sull’ammissione dell’intervento ai contributi statali, certificandone eventualmente il carattere necessario ai fini della concessione delle agevolazioni tributarie previste dalla legge[6].

Per quanto concerne i lavori di restauro, una volta espressamente approvati a norma dal soprintendente, è consentito procedere, dal punto di vista urbanistico, con le procedure semplificate previste dalle leggi in materia. Si potrà, pertanto, ricorrere alla procedura di denuncia di inizio attività per tutti quei i lavori di restauro che rientrino tra gli interventi edilizi come elencati dall’art.4, comma 7, della L. n. 493/93 di conversione del D.L. n. 398/93,[7] non trovando più applicazione l’esclusione prevista dall’art. 4, comma 8, predetta legge per gli interventi su immobili che fossero assoggettati alle disposizioni di cui alle legge fondamentale di tutela del 1939 o ad altre discipline espressamente volte alla tutela delle loro caratteristiche paesaggistiche, ambientali, storiche, archeologiche, artistiche ed architettoniche.

Possibile pure per l’amministrazione l’intervento ex officio per il restauro di beni culturali, secondo quanto disposto nell’art. 37 del T.U che ripropone il precetto degli artt. 14 e 16 della L. n. 1089/39, ponendo a carico del proprietario, possessore o detentore del bene le spese necessarie per gli opportuni interventi, salvi i casi di opere di particolare interesse o di beni in godimento pubblico; in tali ipotesi, lo Stato si farà carico in tutto o in parte dell’onere della spesa.

La facoltà di intervento sostitutivo della P.A., non determina, evidentemente, il venire meno dell’obbligo della conservazione della cosa d’arte a chi ne abbia la proprietà ovvero, nel caso in cui il proprietario sia una persona giuridica, alla persona fisica cui fa capo la legale rappresentanza e la gestione del relativo diritto. Invero, la facoltà predetta costituisce, nell’ambito della limitazione del diritto di proprietà che il sistema impone a salvaguardia del patrimonio storico e artistico nazionale, l’unica alternativa logica che il legislatore poteva attuare per supplire alla colpevole inattività o all’incuria comunque manifestata dai proprietari – siano essi enti pubblici territoriali (province e comuni) o altri enti pubblici ovvero privati – onde evitare, in tal modo, il degrado del patrimonio. Si richiama, in proposito, la chiara presa di posizione della giurisprudenza che ritiene sussistere, comunque, in tal caso, l’obbligo dei proprietari, di rimborsare allo Stato la spesa sostenuta, e, ove il rimborso non avvenga, la facoltà del Ministro competente di acquistare la cosa o di provvedere alla riscossione delle somme dovute[8].

Preme, infine, osservare che una recente pronuncia della Cassazione[9] sembrerebbe avere accentuato la portata del disposto degli artt. 14 e 16 della L. n.1089/39 ora richiamati dal T.U., prevedendo, che l’interruzione, determinata da sopravvenuta mancanza di fondi, dell’intervento conservativo su di un bene di interesse storico o artistico eseguito dall’amministrazione statale, in via sostitutiva a norma della predetta legge su un immobile di proprietà di un comune, non comporti di per sè la possibilità di qualificare come colposa la condotta dell’amministrazione ai fini dell’affermazione della sua responsabilità verso l’ente proprietario dell’immobile per i danni conseguenti alla mancata conclusione del restauro, richiedendosi a tale scopo la dimostrazione alquanto difficoltosa da parte di detto ente che vi sia stata colpa nella previsione degli indicati interventi, che gli stessi siano stati programmati in modo insufficiente, e che abbiano condotto ad un peggioramento della preesistente situazione dell’immobile.

Nell’insieme delle disposizione dedicate al restauro rientra pure l’obbligo per i soggetti proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo degli archivi privati di notevole interesse storico di procedere al loro riordino ed inventario con facoltà del Ministero di far trasportare e temporaneamente custodire in pubblici istituti i predetti beni al fine di garantirne la sicurezza, assicurarne la conservazione o impedirne il deterioramento, oppure quando ciò si renda necessario per l’esecuzione di un intervento di restauro (artt. 40 e 47 T.U.). Viene richiamato in proposito il disposto dell’art. 43 del d.p.r. n. 1409/63, in merito al quale il giudice amministrativo ha ritenuto legittimo, con una decisione che suscita qualche perplessità, il provvedimento che disponga il deposito coatto d’archivio storico sulla base della sola valutazione tecnica sull’importanza dell’archivio, sulla rilevanza dei danni causati e/o incombenti, sull’interesse pubblico alla conservazione del bene, senza alcun riferimento alla condotta del proprietario ed a sue eventuali responsabilità, trattandosi di istituto con fine cautelare e non sanzionatorio[10].

La Sezione III (artt. 49 – 53), rubricata “Altre forme di protezione” contempla ulteriori disposizioni finalizzate, tramite la c.d. “tutela indiretta” (prima denominato “vincolo indiretto”), alla protezione dei beni immobiliari di interesse storico-artistico salvaguardandone l’integrità, la prospettiva o la luce e le condizioni di ambiente e di decoro, indipendentemente dalle previsioni dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici[11]. Il Ministero ha, pertanto, la facoltà di creare una fascia di rispetto intorno al bene tutelato, con lo scopo di conservare l’ambiente circostante, di salvaguardare la cornice ambientale del monumento da possibili discontinuità storico e stilistiche e soddisfare l’interesse pubblico della migliore tutela del bene monumentale che ben giustifica la compressione totale dello jus aedificandi del privato[12].

L’avvio del procedimento, in sintonia coi principi di cui alla L. n. 241/90, dovrà essere comunicato ai destinatari interessati che potranno prendere visione degli atti del procedimento e, a conclusione dello stesso, le prescrizioni adottate dal Ministero dovranno essere trascritte nei registri immobiliari con conseguente opponibilità nei confronti di ogni successivo proprietario, possessore o detentore, a qualsiasi titolo, della cosa cui le prescrizioni stesse si riferiscono.

L’inosservanza dell’obbligo della comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati determinerebbe, secondo l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato[13], l’inevitabile illiceità del decreto di imposizione del vincolo indiretto per la salvaguardia del bene immobiliare. Qualora il decreto fosse legittimamente disposto, esso non si ritiene debba necessariamente contenere l’indicazione dei nominativi dei proprietari delle cose mobili o immobili vincolate ma solo l’indicazione delle stesse, e dovrà essere notificato ai privati proprietari in quanto solo questo adempimento costituisce mezzo legale di conoscenza[14].

Si osserva, inoltre, che la facoltà di imporre la tutela storico-artistico c.d. “indiretta” deve in ogni caso essere esercitata motivandola adeguatamente secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, muovendo da una puntuale considerazione dello stato dei luoghi e valutando comparativamente il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico perseguito, onde pervenire a scelte idonee a contemperare detti opposti interessi. Il provvedimento amministrativo impositivo delle misure a tutela dell’integrità, delle prospettive e delle condizioni di luce, ambiente e decoro delle cose di interesse storico, artistico ed archeologico, deve poi indicare: a) i beni oggetto delle stesse; b) le cose di interesse storico archeologico ecc. in funzione delle quali il vincolo indiretto e’ imposto; c) il rapporto di complementarietà fra le misure limitative ed il fine pubblico perseguito; d) le specifiche ragioni, segnatamente quando il provvedimento impedisce ogni utilizzazione economica del bene vincolato, che hanno indotto l’amministrazione ad adottare le misure interdittive.[15]

Il Capo III (54 – 64), titolato “Circolazione dei beni in ambito nazionale”, si articola in tre Sezioni rubricate rispettivamente “alienazione ed altri modi di trasmissione”, “prelazione” e “commercio”, in cui viene raggruppata, senza rilevanti elementi di novità legislativa, la disciplina contenuta nella legge fondamentale di tutela del 1939 e successive integrazione ad opera, in particolare, del D.L.vo n. 368/98, coordinata con il d.p.r. n. 1409/63 per quanto concerne i beni archivistici.

Ritroviamo, perciò, il regime di inalienabilità dei beni storici, artistici e archeologici di proprietà dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali i quali, costituendo beni demaniali, sono soggetti al regime introdotto dall’art. 823 c.c.[16] E’ ammessa al contrario, con riferimento agli artt. 24, 26 e 27 della L. n. 1089/39 (ora art. 55 T.U.), l’alienazione dei beni immobili di importanza culturale di proprietà di enti pubblici diversi dagli enti territoriali (beni che non costituiscono demanio), nonchè delle cose mobili di proprietà dello Stato e degli altri enti od istituti pubblici, previo accertamento che la vendita non pregiudichi la conservazione e il pubblico godimento degli stessi beni e previa autorizzazione del Ministero. Si precisa, peraltro, che il provvedimento autorizzatorio e da ritenersi non necessario qualora il bene della cui alienazione si tratta non sia stato incluso negli appositi elenchi da redigersi a cura degli stessi enti proprietari e, non trattandosi di un bene che sia prima facie e in modo inequivocabile di interesse storico artistico, non sia intervenuto alcun atto dell’autorità statale ricognitivo dell’interesse medesimo.[17]

Viene pure ripreso il disposto della previgente normativa che ha attribuito al Ministero la facoltà di acquistare, mediante l’esercizio di un diritto di prelazione, i beni di interesse storico-artistico in presenza di un qualsiasi negozio traslativo della proprietà anche non oneroso. In tale ultimo caso il prezzo è fissato in via autoritativa dalla P.A. (art. 59 T.U.). Il giudice amministrativo è intervenuto più volte sul tema precisando, tra l’altro, che non si ritiene necessario, perché sussista il diritto di prelazione dello Stato, l’esistenza di un contratto tipico o di una specifica causa negoziale, essendo sufficiente il riscontro di una regolamentazione negoziale che comporti, comunque, un effetto traslativo della cosa soggetta al vincolo, con un reciproco sacrificio patrimoniale delle parti, allo scopo di conseguire un’attribuzione patrimoniale. Il provvedimento con cui si concretizza l’esercizio del diritto di prelazione statale deve essere conseguentemente ricondotto alla categoria degli atti ablatori e da esso deriva sia un effetto propriamente costitutivo, sia un effetto caducatorio del negozio di alienazione.[18]

Degni di nota, rispetto alla pregressa normativa, appaiono, infine, l’introduzione della possibilità di effettuare permute anche per beni appartenenti al demanio, previa autorizzazione del Ministero e “qualora dalla permuta stessa derivi un incremento del patrimonio culturale nazionale ovvero l’arricchimento delle pubbliche raccolte” (art. 56), e l’attribuzione ai funzionari del Ministero di un potere di controllo sulla tenuta, per gli antiquari, del registro indicato dall’articolo 128 del T.U.L.P.S., in cui devono essere riportate le caratteristiche dei beni acquistati o venduti con le modalità prescritte. Ciò dovrebbe conseguire l’auspicato obiettivo di rafforzare il controllo sulla vendita di beni aventi valore culturale. Al riguardo si precisa che, in conformità con l’orientamento già espresso dalla Cassazione, l’obbligo imposto ai commercianti di fare denunzia dei dati relativi alla propria attività di vendita di cose di interesse archeologico, artistico e storico, non richiede che si debba trattare di beni che posseggano il suddetto interesse in misura rilevante, dal momento che tale norma, di carattere strumentale, è diretta, attraverso l’imposizione della denuncia, a consentire l’indispensabile controllo sulla regolarità del commercio di ogni bene culturale da parte dell’amministrazione interessata. [19]

Il Capo IV (65 – 84), disciplinante la “Circolazione dei beni in ambito internazionale”, è ripartito, anch’esso, in tre Sezioni raccogliendo pressochè letteralmente, con il necessario coordinamento a fini sistematici, le disposizioni regolanti la spedizione e l’esportazione all’estero dei beni culturali precedentemente raccolte nella L. n. 1089/39 e, per quanto riguarda i rapporti con gli Stati membri della U. E., nella L. n. 88/98 con le innovazioni introdotte dai D.L.vo nn. 80 e 368 del 1998.

Le citate disposizioni soddisfano la condivisibile esigenza avvertita dal legislatore di tutelare il patrimonio storico-artistico nazionale anche nel momento in cui, in relazione all’obbligo di denuncia cui sono tenuti gli esportatori, la P.A. e’ chiamata a valutare il danno culturale che potrebbe derivare dalla perdita di alcuni beni. Tale danno, puo’ essere evitato o vietando l’esportazione, oppure avvalendosi della facoltà di formulare un’offerta di acquisto, entro 90 gg. dalla denuncia, dei beni destinati all’esportazione, che puo’ essere accettata, dando luogo a trasferimento convenzionale, oppure non accettata, con rinuncia all’esportazione o senza rinuncia con facoltà del Ministero o della Regione di acquisto coattivo dei beni (art. 68 T.U.). Se ne evince che, opportunamente, la valutazione dell’interesse storico-artistico dei beni presentati per la definitiva esportazione e’ correlata e funzionalizzata all’esercizio dei suddetti poteri amministrativi che la legge riconosce come strumenti di tutela del patrimonio culturale nazionale. Si ritiene comunque che sarebbe stato auspicabile, in sede di compilazione del T.U., una maggiore precisione nell’interpretazione del valore dei beni esportabili al fine di eliminare ogni ambiguità ed arbitrarietà e non inibire completamente la circolazione di beni di limitato valore storico-artistico, ferma restando la ineludibile esigenza di impedire il depauperamento del patrimonio culturale nazionale.

Il Capo V (85 – 90), titolato “ritrovamenti e scoperte”, riproduce con opportuni adattamenti il corrispondente Capo V della legge fondamentale di tutela del 1939. Viene, pertanto, disposto che chiunque scopra fortuitamente beni mobili o immobili indicati nell’art. 2 (inclusi i beni archivistici) debba farne denuncia entro ventiquattro ore al soprintendente o al sindaco, ovvero all’autorità di pubblica sicurezza e provvedere alla conservazione temporanea di essi, lasciandoli nelle condizioni e nel luogo in cui sono stati rinvenuti. Opportunamente, con una nuova disposizione ad hoc, si è stabilito che tali beni da chiunque e in qualunque modo ritrovati, appartengano allo Stato rientrando, a seconda che siano beni immobili o mobili, rispettivamente, nel demanio pubblico o nel patrimonio indisponibile statale a norma degli artt. 822 e 826 c.c. (art. 88 T.U.). Al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento, al concessionario od allo scopritore verrà corrisposto un premio da determinarsi secondo la procedura di cui all’art. 90 T.U.

Chiarita la nozione stessa di “rinvenimento fortuito” quale ritrovamento che avvenga al di fuori di un programma di scavi archeologici eseguito direttamente dall’amministrazione pubblica competente ovvero da privati in regime di concessione, circa la natura dell’eventuale reato di omessa denuncia del fortuito rinvenimento di cose mobili o immobili di cui all’art. 2 del T.U, appare opportuno anticipare, rispetto a quanto si dirà in merito alle sanzioni, che secondo la Cassazione essa configurerebbe un reato omissivo permanente integrato, dal punto di vista psicologico, dalla semplice colpa[20]. E’ cioe’ sufficiente che il soggetto sia in grado di avvertire che la cosa scoperta possa avere un obbiettivo interesse archeologico, storico, artistico o etnologico, indipendentemente dal pregio più o meno rilevante di esso e dall’accertamento che sara’ effettuato dalla competente autorità amministrativa. [21]

Ai fini, invece, della corresponsione del premio per il rinvenimento, tale diritto viene escluso in caso di inadempimento degli obblighi di denunzia e custodia del bene di cui all’art. 124, lett. b T.U., anche quando lo scopritore sia anche proprietario del fondo in cui avvenne la scoperta, poiche’ la qualità di scopritore assorbe in se’ qualsiasi altra qualità che il soggetto medesimo possa rivestire. Tale concetto è stato chiaramente espresso dalla S.C che ha così motivato: “Il premio spettante a colui che scopre fortuitamente cose di interesse artistico o storico non si fonda soltanto ed esclusivamente sul rinvenimento della cosa d’arte, ma richiede altresì che lo scopritore, adempiendo agli obblighi di denunzia e custodia, abbia contribuito attivamente alla realizzazione di un risultato utile per la collettività così da essere premiato dato che la sola scoperta fortuita, infatti, se determina l’acquisto a titolo originario della cosa in favore dello Stato, non assicura in alcun modo che la pubblica amministrazione sia messa in condizioni di venire in possesso della cosa d’arte, al fine della sua destinazione per scopi di interesse generale connessi con l’importanza che la cosa presenta dal punto di vista storico e artistico”.[22]

Sempre in questo Capo merita rilievo infine, per le problematiche sottese all’istituto, il disposto dell’art. 85 che attribuisce al Ministero il potere di occupare immobili per eseguire ricerche archeologiche o, genericamente, opere per il ritrovamento di cose di interesse artistico o storico. Innanzitutto si deve precisare che, nonostante il silenzio della norma, il giudice amministrativo ha ritenuto necessario, ai fini del legittimo esercizio del potere di occupazione temporanea e d’urgenza di immobili per il fine di cui sopra, che sia fornita una puntuale motivazione che renda conto della serietà degli indizi e dell’attendibilità dell’attività di ricerca.[23]

 

Anche per quanto riguarda il termine massimo per la durata delle occupazioni di immobili con fini di ricerca archeologica, pur non essendo previsto da alcuna norma, in sede giurisprudenziale si è ritenuto che, nel caso in cui la P.A. intenda protrarre l’occupazione per oltre un biennio, essa sia tenuta a fornire, con riferimento al fine specifico che giustifica il permanere dello stato di occupazione, una concreta motivazione al riguardo tanto più puntuale, quanto più numerosi siano stati i rinnovi e quanto maggiore sia la durata complessiva dell’occupazione imposta.[24] Da ultimo, il provvedimento che dispone l’occupazione non deve contenere la determinazione dell’indennizzo da corrispondere al proprietario del suolo, in quanto detto indennizzo, essendo relativo ai “danni subiti”, può essere determinato solo al termine dei lavori né deve essere preceduto dalla redazione di uno stato di consistenza delle aree da occupare.[25]

Le disposizioni normative concernenti la valorizzazione e il godimento pubblico dei beni culturali sono contenute nel Capo VI (91 – 117), suddiviso in tre Sezioni rispettivamente rubricate “espropriazione”, “fruizione” e “uso individuale”.

Nella Sezione I sono raccolte le norme del capo VII della L. n. 1089/39, integrate dal D.L.vo. n. 112/98. Viene, pertanto, ripreso il disposto della previgente legislazione che consente al Ministero l’espropriazione per pubblica utilità dei beni culturali finalizzandola al “godimento pubblico” dei beni stessi. Ai fini della dichiarazione di pubblica utilita’ si ritiene sufficiente, che l’amministrazione ravvisi, in base a giudizio tecnico discrezionale, la sussistenza di reperti archeologici, non richiedendosi che tali reperti siano stati già ritrovati e portati alla luce.[26] Tale giudizio dovrà, comunque, essere formulato e supportato in termini tali da giustificare, nella comparazione degli interessi coinvolti, il sacrificio dell’interesse privato da considerarsi recessivo rispetto all’interesse pubblico che si intende perseguire[27].

Per quanto concerne le modalità di fruizione dei beni culturali, materia trattata nella Sezione II, si ribadisce la naturale destinazione al godimento pubblico dei predetti beni appartenenti al demanio. Viene inoltre disciplinata l’apertura al pubblico dei musei, dei monumenti, delle aree e dei parchi archeologici, introducendone le relative definizioni, ed affermando, tra l’altro, il carattere gratuito delle ricerche e delle letture, per ragioni di studio, dei documenti conservati negli Archivi di Stato. Per quanto riguarda gli archivi storici di proprietà, possesso o detenzione di privati, viene fatto obbligo a questi di permettere agli studiosi, che ne facciano motivata richiesta, tramite il competente sovrintendente archivistico, la consultazione dei documenti che, d’intesa col medesimo sovrintendente, non siano riconosciuti di carattere riservato.

La terza Sezione, attendendosi ai principi già fissati non presenta novità di rilevo. La disciplina in essa compresa, concerne le modalità di uso individuale dei beni culturali, tra cui rientra anche il rilascio dell’autorizzazione alle riprese fotografiche nei musei, cui è connesso un apprezzamento discrezionale dell’amministrazione su tempi, luoghi, condizioni e modalità delle stesse, al fine sia di salvaguardare le opere che di evitare intralcio ai visitatori.

L’apparato sanzionatorio posto a protezione dei beni culturali è tracciato nel Capo VII (118 – 137), suddiviso in due Sezioni rispettivamente rubricate “sanzioni penali” e “sanzioni amministrative”. Il sistema delineato risulta completamente riscritto rispetto al capo VIII della legge fondamentale di tutela del 1939, in quanto il legislatore delegato, ai fini di una maggiore chiarificazione ed in ossequio ai principi di determinatezza e tassatività delle sanzioni penali, è intervenuto sui testi delle norme penali precedenti, comprendenti, ai fini della sanzione, più fattispecie criminose, operandone una frammentazione. Ciò gli ha consentito di ricavarne una pluralità di altre norme complete di precetto e di sanzione, sia pure descrivendo il fatto penalmente rilevante negli stessi termini in cui è previsto dalla disposizione principale e cioè da quella amministrativa. Conseguentemente, si è abbandonato, con indubbio giovamento in termini di chiarezza e garanzia, il più volte abusato sistema dei rinvii da una disposizione normativa all’altra. Ci si rammarica, peraltro, che i limiti di una delega priva di uno specifico riferimento al sistema sanzionatorio e di criteri direttivi specifici, non abbiano consentito ai compilatori del T.U. una penetrante revisione della materia sanzionatoria che, come la stessa Commissione ministeriale nella propria relazione ha specificato, “si ponesse nella prospettiva della verifica, basata sugli interessi di volta in volta in gioco, dell’opportunità di conservare la rilevanza penale a taluni fatti, prevederla ex novo per altri, escluderla, quanto meno tramite depenalizzazione, per altri ancora o, infine, dell’opportunità di prevedere almeno, ex novo, la rilevanza a titolo di illecito amministrativo, di ulteriori fatti, prima leciti. Tutto ciò tenendo conto dei principi via via emersi dopo l’entrata in vigore della Costituzione quanto alla costruzione di un sistema sanzionatorio di carattere penale o, in alternativa, extrapenale (tramite il mero ricorso all’illecito amministrativo)”. In particolare, l’evidenziata mancanza di veri poteri innovativi non ha consentito di prevedere sanzioni specifiche in materia, per esempio, dei beni archivistici per i quali si è necessariamente operata la scelta di estendere alla detta categoria le norme sanzionatorie concernenti i beni culturali evitando, in tal modo, le inaccettabili disparità di trattamento che altrimenti ne sarebbero derivate.

Gli artt. da 118 a 121 prevedono una serie di ipotesi contravvenzionali precedentemente riunite nel solo art. 59 della L. n. 1089/39, mantenendo ferma la sanzione prevista in detta norma.

 

Nell’art. 118 sono sanzionate, in quanto constituenti interventi idonei ad incidere sulla struttura materiale di un bene culturale sottoposto a tutela in violazione delle disposizioni in tema di poteri e controlli amministrativi sulle attività di conservazione e restauro, le seguenti condotte: a) l’esecuzione di lavori (demolizione, restauro ecc.) senza autorizzazione o approvazione dell’autorità amministrativa; b) il distacco di alcuni beni culturali (affreschi, stemmi ecc.) senza autorizzazione; c) l’esecuzione di lavori indispensabili e urgenti senza che ne sia data comunicazione alla soprintendenza o senza tempestiva trasmissione dei relativi progetti; d) l’inosservanza dell’ordine di sospensione dei lavori.

In proposito, si richiama la giurisprudenza formatasi in merito alla pregressa normativa secondo cui il reato contravvenzionale originariamente previsto dall’art. 59 della L. n.. 1089/39 si configura come reato di condotta, che consiste nel demolire, rimuovere, modificare o restaurare le cose di interesse artistico ad opera di soggetti che sono titolari di poteri o di facoltà sul bene o da terzi senza l’autorizzazione del ministero competente, e di pericolo, poichè non è richiesta la lesione in concreto del patrimonio artistico, che è il bene tutelato dalla norma, ma semplicemente la consapevolezza nell’agente del vincolo storico artistico cui è soggetto il bene. Ciò diversamente dal reato previsto dall’art. 733 c.p. che è reato di evento di danno e punisce il deterioramento o danneggiamento di monumenti o di altre cose di pregio rilevante quando da ciò derivi un nocumento al patrimonio storico-artistico nazionale.[28]. Né si può dubitare della natura permanente della fattispecie de qua se si considera che, ad esempio nell’ipotesi della rimozione delle cose mobili vincolate, la condotta antigiuridica non si esaurisce nel trasporto iniziale ma perdura per volontà dell’agente sino a che questi non ritrasferisce il bene nel luogo di provenienza ovvero sino a che non interviene l’autorizzazione amministrativa. In tale senso si è pronunciata la Cassazione penale la quale ha precisato che “la lesione del bene penalmente tutelato si protrae per volontà dell’agente sino a che questo pone in essere una condotta uguale e contraria a quella iniziale o sino a che l’autorità competente non ratifica la sua condotta, il che è elemento distintivo dei reati permanenti”[29].

In caso di verificazione del reato, trattandosi di condotte pregiudizievoli per il patrimonio storico-artistico, il Consiglio di Stato ha precisato che l’amministrazione è vincolata ad emanare provvedimenti di riduzione in pristino mediante demolizione dei manufatti abusivi, con esclusione di valutazioni discrezionali conservative, ancorche’ tali opere concernano beni sottoposti a vincolo indiretto, senza che sul dovere di disporre la riduzione in pristino incida il lungo tempo trascorso dal compimento della violazione edilizia. L’imposizione del ripristino dei luoghi vincolati che, si precisa, può essere ordinata dall’amministrazione non soltanto nei riguardi dei proprietari, detentori e possessori dei beni, ma anche nei riguardi di chiunque abbia eseguito i lavori vietati.[30]

Le suesposte considerazioni formulate in ordine al previgente art. 59 della L. n. 1089/39 valgono anche per i successivi tre articoli del T.U. (119 – 121), che rispettivamente prevedono e sanzionano la destinazione di beni soggetti a tutela ad usi incompatibili con il loro carattere culturale ovvero pregiudizievoli per la loro conservazione, il mancato rispetto delle prescrizioni del soprintendente in ordine al luogo di destinazione ed alle modalità di fissazione di beni appartenenti ad enti pubblici e privati, l’omessa denuncia al soprintendente del trasporto di beni appartenenti a privati che trasferiscano la loro dimora e l’inosservanza delle prescrizioni circa le modalità di conservazione del bene nel corso del trasferimento e di quelle fornite dal Ministero in sede di adozione del provvedimento cd. di “vincolo indiretto”.

Si richiama, pertanto, il principio già espresso secondo cui vengono sanzionati dalle attuali norme, in conformità con il cit. art. 59, quei comportamenti esplicitamente commissivi che possono anche non danneggiare, deteriorare o distruggere la singola cosa d’arte o non arrecare nocumento al patrimonio storico o artistico della nazione e che assumono rilievo penale solo se ed in quanto vengano posti in essere senza l’intervento autorizzatorio che lo Stato attua attraverso gli organi appositamente predisposti (Ministero e Soprintendenza).

L’art. 122 dispone le sanzioni per le violazioni in materia di vendita di beni culturali, introducendo un termine di trenta giorni, prima inesistente, per la denuncia del trasferimento della proprietà o della detenzione di un bene culturale. La previsione di detto termine individuato mediante rinvio all’art. 58, secondo comma, del T.U. consente di determinare senza equivoci il momento perfezionativo del reato in esame ponendo le condizioni affinchè si possa evitare, al riguardo, il verificarsi di dubbi interpretativi e di divergenti prassi applicative.

Il successivo art. 123 sanziona l’esportazione illecita di beni culturali. Viene punita ogni attività di esportazione abusiva, che si realizza quando l’opera d’arte, evidentemente priva di licenza di esportazione, non viene presentata alla dogana o viene presentata in modo tale per cui la dogana non possa essere in condizione di rendersi conto della natura dell’opera stessa. La S.C. ha, infatti, precisato che “non è sufficiente presentare l’opera alla dogana, quando ciò venga fatto in modo fraudolento, cioè occultandone la sua vera natura, in quanto l’ufficio di dogana non è fornito della competenza necessaria per valutare un’opera d’arte quando colui che compie l’attività di esportazione non gli fornisca in proposito alcuna indicazione”[31].

Sempre la S.C., in un’altra importante pronuncia, ha ritenuto non necessario che le cose che si vogliono abusivamente esportare siano state oggetto di notifica da parte della competente autorità amministrativa, ritenendo sufficiente che la cosa abbia un intrinseco interesse storico-artistico[32].

L’esecuzione di ricerche di beni culturali senza concessione o l’omessa denuncia o conservazione dei beni rinvenuti comporta l’applicazione delle sanzioni previste all’art. 124. Come già anticipato in sede di commento al capo V, il reato di omessa denuncia del fortuito rinvenimento di cose mobili o immobili di obiettivo interesse archeologico, storico, artistico o etnologico, è integrato, dal punto di vista psicologico, dalla semplice colpa dell’agente e si configura come reato omissivo permanente. Ne deriva che la prescrizione non comincia a decorrere se non dalla avvenuta denuncia o dal momento in cui l’omissione viene accertata. Si è ritenuto, pertanto, in sede giurisprudenziale che, partendo da tale principio, la distruzione non definitiva degli oggetti ritrovati, o la loro dispersione o occultamento non possa determinare la cessazione della permanenza ed inoltre, trattandosi anche di reato di pericolo presunto, l’obbligo dell’informativa all’autorità e della temporanea conservazione del bene scaturisce dallo stesso rinvenimento e prescinde dal danno arrecato al bene.[33]

Degna di nota una recente sentenza della Cassazione penale la quale precisa che, qualora, con riguardo al fatto costituito dall’ingiustificato possesso di beni di interesse storico-archeologico (nella specie, antiche monete romane) si proceda, previo sequestro dei detti beni, a carico del possessore per il reato di cui all’art. 68 della legge 1 giugno 1939 n.1089 ed il processo si concluda con sentenza dichiarativa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, i beni in sequestro non sono soggetti a confisca ma non possono neppure essere puramente e semplicemente restituiti al possessore, atteso che l’avente diritto alla restituzione va individuato in base alla normativa civilistica e alle disposizioni speciali di cui alla citata legge n. 1089 del 1939 (ora T.U.).[34]

La particolare ipotesi criminosa del cd. “furto archeologico” ovvero dell’illecito impossessamento di beni culturali appartenenti allo stato, che ha in comune con il delitto di furto l’elemento dell’impossessamento ma non quello della sottrazione al detentore, trattandosi di cose che, prima del loro ritrovamento, non sono detenute da alcuno, viene punita dall’art. 125[35]. Come già anticipato, i compilatori del T.U. nella formulazione della norma in esame hanno abbandonato la tecnica del rinvio quoad poenam all’articolo 624 c.p. ed all’articolo 625 c.p., prevedendo espressamente le sanzioni sia per il reato base di cui al primo comma, sia per l’aggravante di cui al secondo comma (impossessamento da parte di chi abbia ottenuto la concessione di ricerca).

Merita solo un accenno in questa occasione, in quanto già dibattuto in precedenza, il principio secondo cui nell’ipotesi di scoperta fortuita di cose d’interesse artistico o storico, tali cose spettano allo Stato sin dal momento del loro rinvenimento; ciò significa che il fatto materiale del rinvenimento coincide con la formazione di un titolo originario di acquisto a favore dello Stato, nel cui patrimonio indisponibile entrano a far parte le cose rinvenute.

Il reato di detenzione a fine di commercio o di introduzione nel territorio dello Stato o di messa in circolazione di esemplari contraffatti, alterati o riprodotti di opere di pittura, scultura, grafica o di oggetti di antichità o di oggetti di interesse storico od archeologico viene sanzionato dall’art. 127, collegato al seguente art. 128 che contempla i casi di non punibilità, riproduttivo nel testo delle disposizioni penali previste dalla L. n. 1062/71 con opportuni adeguamenti delle stesse alle disposizioni del codice penale relativamente alle pene accessorie (commi 2 e 3, art. 127)

Ai fini della configurabilità di tale reato, che ha natura permanente, si deve fare esclusivo riferimento al mezzo espressivo, prescindendo del tutto dal valore artistico e dal pregio delle opere prese in considerazione. Infatti, nonostante l’utilizzazione di termini propri dei delitti di falso, le disposizioni della L. n. 1062/71 riprese dal T.U., non concernono la tutela della cosiddetta fede pubblica bensì proteggono l’interesse alla regolarità ed all’onestà degli scambi nel mercato artistico e dell’antiquariato.[36]

L’ultimo articolo di questa sezione punisce l’inosservanza degli ordini impartiti dall’autorità preposta alla tutela dei beni culturali che si configura come reato permanente, avendo ad oggetto una lesione dell’interesse protetto che si protrae nel tempo. La condotta volontaria del responsabile, il quale omette di ottemperare all’ordinanza, ripropone, del resto, la contravvenzione in ogni momento successivo alla notifica.[37] Stante le conseguenze pregiudizievoli che potrebbero derivare in ordine alla tutela del bene culturale dall’inosservanza dei provvedimenti amministrativi, il giudice di merito ha ritenuto sussistente la legittimazione, ad es. del comitato di quartiere, ente di fatto a base territoriale, a costituirsi parte civile nel procedimento penale contro colui che abbia disatteso l’ordine del soprintendente ai monumenti che gli ingiungeva di provvedere al restauro, nella specie, di una villa di sua pertinenza di particolare pregio storico ed ambientale. [38]

La Sezione II delinea la materia delle sanzioni amministrative nel rispetto dei principi di cui alla L. n.689/81.

Di un certo interesse appare il disposto dell’art. 131, la cui applicabilità viene estesa dall’articolo seguente anche alla violazione degli obblighi previsti dagli articoli 86 e 87 in materia di ritrovamenti archeologici, che sanziona qualsiasi intervento in grado di incidere sulla integrità ed unitarietà dell’uso del bene immobile ad interesse storico-artistico comportando un danno per lo stesso in violazione degli obblighi di conservazione e protezione[39]. La ratio della tutela va individuata, peraltro, non tanto nella materiale custodia e conservazione del bene (che comporterebbe una visione esclusivamente patrimoniale), quanto piuttosto nella conservazione del valore artistico di cui il bene risulta portatore. Nel caso di verificazione di danni, il Ministero può disporre che il responsabile provveda all’esecuzione delle opere necessarie alla reintegrazione con spese a suo carico, prevedendo, nel caso di opere di rilievo urbanistico-edilizio, che l’avvio del procedimento e l’ordine di reintegrazione siano comunicati anche al Comune interessato. Qualora la reintegra non fosse possibile, il responsabile del danno è tenuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore del bene storico-artistico o alla diminuzione di valore subita a seguito della trasgressione; somma che, se contestata dal responsabile del danno, viene determinata a seguito di giudizio arbitrale da un collegio di esperti che dovranno effettuare una valutazione di merito sul valore storico e/o artistico dell’opera che, presupponendo particolari conoscenze di ordine tecnico e artistico, devono ritenersi estranee alla competenza del giudice di legittimità. Siamo in presenza di una sanzione pecuniaria che ha indubbiamente valenza residuale rispetto al ripristino dello stato dei luoghi ed è applicabile solo quando quest’ultimo risulti di impossibile esecuzione. In merito, viene rimessa unicamente all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione la valutazione dell’esistenza o meno della possibilità di riduzione allo stato originario, possibilità intesa non in senso materiale ma piuttosto in senso di congruità o convenienze in relazione all’oggetto della tutela. Pertanto, come ha specificato più volte il Tar, il fatto che sia stata applicata la sanzione pecuniaria non presuppone ne’ una minore gravità dell’abuso, ne’ la sua compatibilità con l’interesse pubblico alla conservazione del bene vincolato[40]. Sempre il giudice amministrativo ha precisato che l’applicazione dell’indennità compensativa del danno arrecato a beni storici od artistici oggetto di specifico vincolo non può essere subordinata alla definizione del procedimento penale instaurato per la medesima infrazione, non sussistendo, tra l’azione giudiziaria e quella amministrativa, un rapporto di rigorosa pregiudizialità[41]. Tantomeno risulta consentito al giudice penale di determinare quali lavori debbano essere effettuati per riparare il danno cagionato al bene culturale e pertanto il giudice ordinario (pur potendo condannare il trasgressore al risarcimento del danno) non può invadere la sfera propria della pubblica amministrazione determinando i lavori che in concreto debbano essere eseguiti per riparare gli effetti pregiudizievoli del valore storico-artistico del bene.[42]

Gli artt. 134 – 137 di questa sezione completano il regime sanzionatorio in materia di circolazione dei beni culturali riprendendo i corrispondenti articoli della L. n. 1089/39 senza novità di rilevo. In merito, si richiamano in sintesi, alcune recenti precisazioni di sostanza evidenziate dalla giurisprudenza in riferimento alla mancata denuncia da parte del proprietario dell’atto di cessione di un bene culturale sottoposto a vincolo. Così, in sintonia con quanto sopra esposto in riferimento all’art. 21 T.U., si richiama la pronuncia delle S.U nella quale si è ritenuto che la nullità prevista, a tutela delle cose di interesse storico e artistico dall’art. 61 della l. 1 giugno n. 1089/39 (ora art. 135 T.U.) per le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere compiuti contro i divieti stabiliti dalla legge stessa o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da essa prescritte, sia di carattere relativo, essendo stabilita nell’interesse esclusivo dello Stato e non possa, quindi, essere dedotta dai privati o essere rilevata di ufficio dal giudice[43]. Si esclude, peraltro, che l’acquirente possa acquisire la proprietà del bene compravenduto per usucapione abbreviata e, ancorchè il contratto di cessione sia divenuto efficace fra le parti, l’atto stesso soggiace alla sanzione di nullità conseguente all’esercizio sopravvenuto del diritto di prelazione, che deve intervenire, comunque, entro il breve termine di due mesi dalla piena conoscenza da parte dell’amministrazione competente ad esercitarlo, dell’atto traslativo della proprietà[44]

In conclusione, nonostante qualche lacuna e un linguaggio talvolta troppo in burocratese comprensibile, peraltro, se si pensa alla vastità del materiale legislativo (più di 900 provvedimenti) che i compilatori hanno dovuto esaminare, il corpus normativo che risulta delineato soddisfa certamente l’avvertita esigenza di risistemazione organica ed omogenea della materia. Il legislatore delegato ha probabilmente utilizzato al massimo gli spazi che la delega gli ha offerto creando un accettabile sistema unitario dei beni culturali dotato di una disciplina organica e una chiara regolamentazione. Ne consegue che l’opinione pubblica e le istituzioni culturali molto si devono attendere da questo Testo Unico che rappresenta un fatto decisamente nuovo nel panorama legislativo italiano.

Apprezzabile, inoltre, il tentativo manifestato dai compilatori nella redazione del T.U. di attribuire una funzione dinamica e non solo di conservazione all’attività di tutela dei beni culturali e ambientali incentivandone la fruizione non solo in chiave turistica ma anche da parte dei cittadini e degli studiosi in rapporto a musei, collezioni, biblioteche, archivi ecc. e valorizzandone il significato sociale.

Non resta, quindi, che valutare l’applicazione pratica che verrà fatta del T.U. auspicandone, possibilmente, la futura integrazione con una opportuna disciplina dell’istituto delle sponsorizzazioni come forma di partecipazione dei privati alla gestione dei beni culturali ed una valorizzazione di quelle tipologie di beni culturali sinora, purtroppo, rimaste in ombra. Mi riferisco, in particolare, alle opere di arte contemporanea, ai beni musicali, agli audiovisivi, ai beni fotografici, alle opere cinematografiche nonché alle espressioni verbali o sonore registrate su supporti magnetici o di altro genere; beni questi che sono presi in considerazione a livello comunitario e sono conservati in importanti istituti statali quali la Discoteca di Stato e la Cineteca Nazionale.

 

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[1] La nozione di origine dottrinale di bene culturale intesa come bene che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà è stata dapprima elaborata nei lavori della Commissione Franceschini, costituita con L. n. 310/64, ed ha successivamente trovato qualche accoglimento nel disposto normativo della L. n. 5/75 istitutiva del Ministero per i beni culturali e ambientali ed in alcune leggi di carattere settoriale. Si richiama, inoltre, la definizione di bene culturale elaborata nella Convenzione UNESCO del 14 luglio 1970 secondo la quale rientrano a pieno diritto nel patrimonio culturale di ogni stato: 1) i beni culturali trovati sul territorio nazionale; 2) i beni culturali acquisiti da missioni archeologiche, etnologiche o di scienza naturale con il consenso delle autorità competenti del paese di origine di tali beni; 3) i beni culturali formanti oggetto di scambi liberamente consentiti; 4) i beni culturali ricevuti a titolo gratuito o acquistati legalmente con l’assenso delle autorità competenti del paese di origine di tali beni. Si veda anche, la pronuncia della Corte cost. n.56 del 1968 secondo cui i beni culturali costituiscono una categoria di beni nei quali il valore culturale inest in re ipsa, e ne giustifica quindi in via generale una disciplina differenziata e costituzionalmente legittima, rispetto ad altre categorie di beni apparentemente identici

[2] Si richiamano i commi 1, 2 e 6 dell’art. 24: 1. Il diritto di accesso è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi dell’art. 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, nonchè nei casi di segreto o di divieto di divulgazione altrimenti previsti dall’ordinamento. 2. Il Governo è autorizzato ad emanare, ai sensi del comma 2 dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti intesi a disciplinare le modalità di esercizio del diritto di accesso e gli altri casi di esclusione del diritto di accesso in relazione alla esigenza di salvaguardare: a) la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali; b) la politica monetaria e valutaria; c) l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità; d) la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici. 6. I soggetti indicati nell’art. 23 hanno facoltà di differire l’accesso ai documenti richiesti sino a quando la conoscenza di essi possa impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell’azione amministrativa. Non è comunque ammesso l’accesso agli atti preparatori nel corso della formazione dei provvedimenti di cui all’art. 13, salvo diverse disposizioni di legge.

[3] In dottrina, peraltro, l’espressione “enti e istituti legalmente riconosciuti” è stata intesa come riferibile a tutti gli enti, siano essi pubblici, privati o ecclesiastici comprendendo, quindi, tutte le associazioni, fondazioni e altre istituzioni che abbiano acquisito la personalità giuridica.

[4] V. Cass. pen., sez. III, 4 febbraio 1999, Baron.

[5] Cfr. Cass. civ., sez. II, 14 marzo 1987, n. 2660, Bulgarini c. Moroni.

[6] Si richiama, in proposito, la recente circolare del Min. dei beni culturali e ambientali 27 agosto 1999, n. 146, pubblicata in G.U. 6 settembre 1999, n. 209.

[7] Gli interventi edilizi individuati dall’art.4, comma 7, della L. n. 493/93 di conversione del D.L. n. 398/93, sono: a) opere di manutenzione straordinaria,
restauro e risanamento conservativo; b) opere di eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esistenti consistenti in rampe o ascensori esterni, ovvero in manufatti che alterino la sagoma dell’edificio; c) recinzioni, muri di cinta e cancellate; d) aree destinate ad attività sportive senza creazione di volumetria; e) opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell’immobile e, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A di cui all’articolo 2 del D.M. del ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, pubblicato nella G. U. n. 97 del 16 aprile 1968, non modifichino la destinazione d’uso; f) revisione o installazione di impianti tecnologici al servizio di edifici o di attrezzature esistenti e realizzazione di volumi tecnici che si rendano indispensabili, sulla base di nuove disposizioni; g) varianti a concessioni edilizie già rilasciate che non incida no sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non cambino la destinazione d’uso e la categoria edilizia e non alterino la sagoma e non violino le eventuali prescrizioni contenute nella concessione edilizia; h) parcheggi di pertinenza nel sottosuolo dello lotto su cui insiste il fabbricato.

[8] Cfr. Cass. pen., sez. II, 17 giugno 1988, Brasi.

[9] Cfr. Cass. civ., sez. I, 27 marzo 1997, n. 2736, Comune Montagnana c. Min. p.i.

[10] T.A.R. Lazio, sez. II, 24 maggio 1988 n. 717, Di Napoli e altro c. Min. beni culturali e ambientali. In senso contrario la pronuncia della Pret. di Roma 27 luglio 1987, Di Napoli c. Min. beni culturali e ambientali che ha escluso che il provvedimento di deposito coattivo possa essere adottato dalla pubblica amministrazione fuori dai casi di particolare gravità ed a seguito di un qualunque inadempimento di obblighi derivanti al proprietario da una dichiarazione di notevole interesse storico del bene

[11] In merito ai limiti evidenziati dalla giurisprudenza amministrativa alla possibilità di imporre il vincolo indiretto su un bene immobile in deroga alle previsioni dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici comunali, v. T.A.R. Lombardia sez. Brescia, 10 ottobre 1995, n. 944, Com. Brescia c. Min. beni culturali e altro che precisa: L’indipendenza del vincolo storico – artistico rispetto alla concomitante disciplina urbanistica dell’area in cui esso ricade non puo’ tradursi in una costantemente precostituita prevalenza del valore costituzionale della tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico della Nazione (art. 9, comma 2 cost.) rispetto alla previsione, parimenti inserita in una norma di rango costituzionale (art. 47 comma 2 cost.), di istituti che favoriscano, da parte dello Stato, l’accesso del risparmio popolare alla proprieta’ dell’abitazione; pertanto, e’ illegittimo il provvedimento con il quale, al fine di bloccare un insediamento di edilizia residenziale pubblica in vicinanza di un immobile gia’ gravato da vincolo diretto, si aggiunge a quest’ultimo un vincolo indiretto ai sensi dell’art. 21 l. 1 giugno 1939 n.1089, comportante l’assoluta inedificabilita’ dell’intera area ad esso circostante.

[12] Tali principi sono stati ribaditi da una importante pronuncia del Cons. di Stato, sez. VI, del 7 dicembre 1994, n. 1745, Min. beni culturali c. Soc. Mediterranea immob.

[13] Si vedano Cons. di Stato, sez. VI, 16 gennaio 1997, n. 57, Pavesi e altro c. Min. beni culturali e altro e T.A.R. Campania, sez. IV, Napoli, 10 gennaio 1996, n. 32, Soc. Nuova immob. Puteolana c. Min. beni culturali

[14] V. T.A.R. Campania, sez. I, 24 maggio 1999, P.A. c. Min. beni culturali.

[15] Si vedano in tema: T.A.R. Lazio, sez. II, 23 gennaio 1997, n. 235 Soc. Sicuri c. Min. beni culturali e T.A.R,. Lazio sez. II, 6 aprile 1993, n. 407 Micheli Gigotti e altro c. Min. beni culturali e altro.

[16] Si veda in proposito, Cons. Stato, ad. gen., 13 luglio 1989 n. 59; Cons. Stato, sez. VI, 7 maggio 1988 n. 568, Min. beni culturali e ambientali c. Regione Veneto e Cons. Stato, sez. VI, 19 gennaio 1985 n. 8, Min. beni culturali ambientali e altro c. Soc. centrale immobili. In senso contrario parrebbe porsi la Cass. pen, sez. VI, con la sentenza del 26 agosto 1999, Schiavone, che ritiene alienabili i beni culturali appartenenti agli enti pubblici territoriali se vi sono le prescritte autorizzazioni, precisando, inoltre, che per i beni appartenenti a province, comuni o istituti legalmente riconosciuti secondo la vecchia dizione della legge 1089/39, il vincolo di interesse storico-artistico si instaura anche se essi non sono compresi negli appositi elenchi ed anche se da tempo sono sottratti alla loro originaria destinazione.

[17] In tema, T.A.R. Umbria, 15 dicembre 1995, n. 510, Univ. studi Perugia c. Sovrintendenza beni culturali Umbria. Con riguardo all’ipotesi di acquisto di beni mobili culturali in forza di possesso di buona fede conseguito in esecuzione di atto astrattamente idoneo all’effetto traslativo, si richiama la sentenza della Cass. civ., sez. I, 7 aprile 1992 n. 4260, Min. beni culturali e ambientali c. Cucci.

[18] Per utili riferimenti in merito all’esercizio del diritto di prelazione, v. Cons. Stato ad. gen.. 23 settembre 1991 n. 7; Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 1987 n. 400, Calabresi e altro c. Min. beni culturali e ambientali e altro e T.A.R. Lazio, sez. II, 29 luglio 1983 n. 747, Calabresi c. Min. beni culturali e altro.

[19] Si veda, Cass. civ., sez. I, 27 giugno 1983 n. 4404, Gozzini c. Ministero beni culturali, in cui si è affermata la responsabilità di un commerciante che non aveva effettuato la denunzia malgrado fosse stato accertato dal sovrintendente archeologico che gli oggetti esposti nel suo negozio dovevano considerarsi di livello storico, artistico ed artigianale corrente e medio.

[20] Si vedano: Cass. pen., sez. III, 12 febbraio 1997, Rizzo ed altri e Cass. pen., sez. III, 17 giugno 1997, P.M. in proc. Leonelli che precisa che l’obbligo della denuncia sorge con la scoperta od il ritrovamento fortuito e perdura anche nel detentore, che non abbia rinvenuto l’oggetto, per tutto il tempo in cui continua a sussistere il rapporto con la cosa.

[21] Si vedano: Cass. pen., sez. III, 12 febbraio 1997, Rizzo e altro, in tema di rinvenimento e dispersione dei resti di una villa romana di età imperiale; Cass. pen., sez. III, 12 dicembre 1995, P.G. in proc. Beretta; Cass. pen., sez. II, 17 febbraio 1987, Lunari e Cass. pen,, sez. III, 10 dicembre 1980, Aufiero.

[22] Cass. civ., sez. I, 13 luglio 1979, n. 4701 Fontana c. Min. P.I.

[23] Cons. Stato, sez. VI, 7 novembre 1996, n. 1520, Min. beni culturali e altro c. Antonucci e altro.

[24] T.A.R. Lazio sez. II, 24 ottobre 1984, n. 1474, Odescalchi c. Min. beni culturali e ambientali e T.A.R. Campania, sez. Salerno, 13 gennaio 1983 n. 27, Dello Iacono e altro c. Min. beni culturali e altro.

[25] In proposito, v. T.A.R. Lazio sez. II, 16 aprile 1980 n. 257, Odescalchi c. Min. beni culturali.

[26] Si richiama Cons. Stato sez.VI, 2 marzo 1987 n. 91, Min. beni culturali c. Russo e altro.

[27] Cfr. T.A.R. Campania, sez, IV, 19 aprile 1999, R.D. c. Min. beni culturali ed altro.

[28] In tema, si vedano Cass. pen., sez. III, 25 giugno 1993, Fiaschi e Cass. pen., sez. III, 20 gennaio 19977, De Donno, che ritiene, tra l’altro, che tra le due ipotesi di reato previste dall’art 59 della L 1089/39 e art. 733 c.p. possa esservi concorso formale dal momento che esse regolano due fattispecie diverse che solo parzialmente coincidono.

[29] Cfr. Cass. pen., sez. III, 2 luglio 1997, Franceschetti.

[30] Cons. Stato, sez. VI, 25 settembre 1995, n. 965 Patano c. Min. beni culturali e altro. Si vedano pure: Cass. pen., sez. III, 26 ottobre 1982, Di Schiavi; Cons. Stato sez. VI, 5 giugno 1979 n. 440, Soc.appalti internazionali c. Min. P.I., e T.A.R. Puglia sez. I, Bari, 22 giugno 1994, n. 1062 Patano c. Com. Mola e altro.

[31] Cfr. Cass. pen., sez. III, 27 marzo 1980, Schiavo.

[32] V. Cass. pen., sez. III, 18 novembre 1986, Fabbri e Cass. pen., 5 aprile 1995, Vallorani.

[33] V. Cass. pen., sez. III, 12 febbraio 1997, Rizzo ed altri, la quale, nell’affermare il principio di cui al rimando in nota, ha confermato la condanna d’appello nei confronti dei responsabili dell’impresa che nel corso dei lavori di sbancamento di un cantiere edilizio avevano rinvenuto e poi disperso in discarica i resti di una villa di età imperiale romana nella zona di Milazzo, omettendo di allertare l’autorità e di conservare i reperti medesimi.

[34] Cfr. Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 1999, P.G. c. Zaccherini.

[35] Si veda Cass. pen., sez. V., 20 febbraio 1998, Samarco, ribadisce il principio secondo cui il “furto archeologico” costituisce una figura criminosa specifica e distinta dal reato di furto.

[36] In questo senso si è pronunciata la Cass. pen., sez. III, con sentenza del 17 novembre 1995, Bevilacqua. Contra, nel senso di ritenere il reato di contraffazione di opere d’arte, un reato contro la fede pubblica, Cass. pen., sez. III, 5 ottobre 1984, Morini.

[37] Così si è pronunciata la Pret. Roma, 13 novembre 1979, Rossignoli

[38] Pret. Roma, 21 giugno 1977, Bonacina.

[39] Si veda Cass. pen., sez. III, 13 marzo 1996, Marini, la quale ritiene che il danno implicito nel reato di cui all’art. 59, comma 1 della L. n. 1089/39 possa consistere anche in una diminuzione del godimento estetico realizzato con opere incompatibili rispetto alla struttura esistente

[40] Da ultimo, T.A.R. Lazio, sez. II, 28 marzo 1987 n. 461 e Tar della Toscana, sez. I, 18 marzo 1999, Soc. U.I. c. Min. beni culturali ed altro.

[41] Cfr., T.A.R. Marche 8 luglio 1982 n. 406, Antognozzi c. Min. beni culturali,

[42] Cfr., Cass. pen., sez. VI, 20 luglio 1979, Mancinelli.

[43] Cfr. Cass. civ., sez. un., 24 novembre 1989, n. 5070, Comune Roma c. Soc. Cie; Cass. civ., sez. II, 26 aprile 1991 n. 4559, Sorcinelli c. Comune Trescore Balneario

[44] Cfr. T.A.R. Toscana, sez. I, 18 maggio 1999, B.A. c. Min. beni culturali e T.A.R. Toscana, sez. I, 27 maggio 1997, n. 154.

 

 

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