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Classificazione dei rifiuti: la Corte di Giustizia respinge la tesi della presunzione di pericolosità
di Paolo Pipere
Categoria: Rifiuti
Le finalità della Direttiva quadro sui rifiuti, in primo luogo la preparazione per il riutilizzo e il riciclo, si perseguono con una corretta classificazione dei rifiuti e non certo presumendo la pericolosità di ogni rifiuto prodotto.
Il produttore dei rifiuti agisce correttamente se limita le determinazioni analitiche alla ricerca delle sostanze pericolose che, con un livello di probabilità elevato, possono essere contenute nei prodotti dai quali decadono i rifiuti. Lo conferma l’attesa sentenza della Corte di Giustizia del 28 marzo 2019sui criteri da utilizzare per assegnare le caratteristiche di pericolo ai rifiuti ai quali possono essere attribuiti codici speculari.
La pericolosità non si presume
È stata perciò rifiutata l’ipotesi interpretativa, troppo a lungo sostenuta con veemenza nel nostro Paese, secondo la quale il produttore del rifiuto sarebbe stato tenuto a rovesciare una presunzione di pericolosità mediante analisi volte a verificare l’assenza di qualunque tipo di sostanza classificata come pericolosa.
Contro quest’ultima tesi si era già in precedenza espresso l’Avvocato generale della Corte: «per classificare un rifiuto con una voce MH [voce a specchio pericolosa] non è neppure sufficiente addurre un semplice dubbio sulla sua pericolosità, invocando il principio di precauzione. Se lo fosse, tutti i codici specchio condurrebbero alla classificazione del rifiuto come pericoloso». Eccependo anche la non fattibilità tecnica e l’onerosità di questo genere di analisi: «il principio di fattibilità tecnica e praticabilità economica, espresso all’articolo 4, paragrafo 2, ultimo comma, della direttiva 2008/98, osta a che si imponga al produttore di svolgere analisi assolutamente esaustive della composizione dei rifiuti e di tutti gli indizi di pericolosità delle sostanze che li compongono. Un obbligo siffatto sarebbe peraltro sproporzionato».
La Corte conferma, inoltre, le indicazioni dell’Avvocato generale in merito alla possibilità di giungere ad attribuire le caratteristiche di pericolo al rifiuto anche con mezzi diversi dalle analisi di laboratorio: informazioni sul processo chimico o sul processo di fabbricazione e sulle sostanze impiegate, informazioni fornite dal produttore originario del rifiuto della sostanza o dell’oggetto in seguito divenuto rifiuto, il ricorso alle banche dati ufficiali costituiscono altrettanti metodi per conseguire efficacemente l’obiettivo.
Si devono ricercare le sostanze ragionevolmente presenti nel rifiuto
Nessuna disposizione della normativa dell’Unione, infatti, può essere interpretata, secondo la Corte, nel senso di imporre la verifica dell’assenza, nel rifiuto, di qualsiasi sostanza pericolosa.
Si tratterebbe di un obbligo definito come “irragionevole”, sia dal punto di vista tecnico sia economico. Il produttore o il detentore ha l’obbligo, pertanto, di ricercare le sostanze pericolose che ragionevolmente possono essere presenti nel rifiuto, e “non ha nessun margine di discrezionalità” in proposito. I metodi da utilizzare sono quelli definiti a livello europeo o, in mancanza, quelli nazionali, se riconosciuti a livello internazionale.
La conferma verrebbe, secondo la Corte, anche dalla comunicazione della Commissione sulla classificazione dei rifiuti del 9 aprile 2008 e dalla corretta interpretazione del principio di precauzione, alla base della legislazione ambientale dell’Unione Europea. Il legislatore dell’Unione nel settore della gestione dei rifiuti: «ha inteso operare un bilanciamento tra, da un lato, il principio di precauzione e, dall’altro, la fattibilità tecnica e la praticabilità economica, in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano essere limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti in tale rifiuto e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze».
La conferma della Cassazione
Un’indicazione che era già stata formulata, in termini sostanzialmente identici dalla quarta sezione della Cassazione penale con la sentenza n. 6548 del 9 febbraio 2018: «In caso di rifiuti con codice a specchio, per identificarne la non pericolosità non è necessaria la indiscriminata ricerca di tutte le sostanze che il rifiuto potrebbe astrattamente contenere, ma unicamente di quelle che, con più elevato livello di probabilità, possono essere presenti nel rifiuto. Ciò è affermato nella scorta di un contemperamento tra il principio di precauzione e quello di economicità e fattibilità tecnica della gestione dei rifiuti».
Verifica accurata delle sostanze pertinenti
La sentenza della Corte di Giustizia, così come le precedenti linee guida della Commissione Europea sulla classificazione dei rifiuti, fornisce una risposta definitiva e inequivocabile alla domanda posta dalla terza sezione della Cassazione penale alla Corte europea: «Se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o se invece la ricerca delle sostanze pericolose possa essere effettuata secondo criteri probabilistici considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto».
Il quesito della Cassazione lasciava inequivocabilmente trasparire la preferenza per l’orientamento secondo il quale la ricerca delle sostanze ragionevolmente presenti nel rifiuto sarebbe stata insufficiente e non “accurata e rappresentativa”, in altri termini per l’ipotesi interpretativa definita con un eufemismo la “tesi della certezza” ma, più correttamente, della “pericolosità presunta”. Secondo questo approccio, di fronte a un rifiuto al quale si può attribuire una voce a specchio, per esempio una scatola di cartone utilizzata per consegnare prodotti alimentari a un supermercato[1], dovrebbe essere ricercata analiticamente l’eventuale, ma nella realtà assolutamente improbabile considerato il contesto d’uso dell’imballaggio, presenza di ogni sostanza classificata come pericolosa in concentrazioni superiori ai valori di soglia che impongono di attribuire le diverse caratteristiche di pericolo. Quella stessa tesi, ormai definitivamente rifiutata dalla Corte di Giustizia è stata sostenuta anche con argomentazioni di questo tipo: «In altri termini, non c’è dubbio che, qualora, in caso di classificazione secondo la tesi della probabilità, al produttore venga contestato un reato per la errata attribuzione del codice a specchio, il chimico analista autore della classificazione errata potrebbe essere chiamato a risponderne in sede penale come concorrente nel reato stesso. Il che, tuttavia, non esclude affatto la responsabilità del produttore o del gestore del rifiuto il quale è, comunque, il soggetto individuato dalla legge quale responsabile della classificazione e, quale professionista nel settore dei rifiuti, non può certo ignorare la normativa vigente e la giurisprudenza della Cassazione[2]».
Principio di precauzione
Secondo la Corte di Giustizia, invece, il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che: «qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso».
Il ricorso alla presunzione di pericolosità costituisce perciò l’ultima ratio, e non certo il punto di partenza del percorso di classificazione di un rifiuto.
Piacenza, 8 aprile 2019.
Questo tema, così come quello della recente sentenza della Corte di Giustizia europea sulla cessazione della qualifica di rifiuto e della bozza di decreto sulla digitalizzazione dei formulari identificativi del rifiuto e dei registri di carico e scarico, saranno approfonditi nel corso di formazione “Rifiuti: novità e criticità – Stop SISTRI, new FIR e Registri, Voci a specchio, Classificazione, End of Waste, fanghi in agricoltura, BAT rifiuti, RTGR, sottoprodotti”, nelle edizioni di Bari, 9 maggio 2019, Milano, 22 maggio 2019 e Padova, 5 giugno 2019.
[1] Le linee guida della Commissione europea sulla classificazione dei rifiuti ritengono che i codici da 15 01 01 a 15 01 09 costituiscano le voci a specchio non pericolose di quelle alle quali devono essere attribuiti i codici 15 01 10 e 15 01 11.
[2] “Codici a specchio: basta confusione, facciamo chiarezza”, di Gianfranco Amendola e Mauro Sanna, www.industrieambiente.it
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Classificazione dei rifiuti: la Corte di Giustizia respinge la tesi della presunzione di pericolosità
di Paolo Pipere
Le finalità della Direttiva quadro sui rifiuti, in primo luogo la preparazione per il riutilizzo e il riciclo, si perseguono con una corretta classificazione dei rifiuti e non certo presumendo la pericolosità di ogni rifiuto prodotto.
Il produttore dei rifiuti agisce correttamente se limita le determinazioni analitiche alla ricerca delle sostanze pericolose che, con un livello di probabilità elevato, possono essere contenute nei prodotti dai quali decadono i rifiuti. Lo conferma l’attesa sentenza della Corte di Giustizia del 28 marzo 2019 sui criteri da utilizzare per assegnare le caratteristiche di pericolo ai rifiuti ai quali possono essere attribuiti codici speculari.
La pericolosità non si presume
È stata perciò rifiutata l’ipotesi interpretativa, troppo a lungo sostenuta con veemenza nel nostro Paese, secondo la quale il produttore del rifiuto sarebbe stato tenuto a rovesciare una presunzione di pericolosità mediante analisi volte a verificare l’assenza di qualunque tipo di sostanza classificata come pericolosa.
Contro quest’ultima tesi si era già in precedenza espresso l’Avvocato generale della Corte: «per classificare un rifiuto con una voce MH [voce a specchio pericolosa] non è neppure sufficiente addurre un semplice dubbio sulla sua pericolosità, invocando il principio di precauzione. Se lo fosse, tutti i codici specchio condurrebbero alla classificazione del rifiuto come pericoloso». Eccependo anche la non fattibilità tecnica e l’onerosità di questo genere di analisi: «il principio di fattibilità tecnica e praticabilità economica, espresso all’articolo 4, paragrafo 2, ultimo comma, della direttiva 2008/98, osta a che si imponga al produttore di svolgere analisi assolutamente esaustive della composizione dei rifiuti e di tutti gli indizi di pericolosità delle sostanze che li compongono. Un obbligo siffatto sarebbe peraltro sproporzionato».
La Corte conferma, inoltre, le indicazioni dell’Avvocato generale in merito alla possibilità di giungere ad attribuire le caratteristiche di pericolo al rifiuto anche con mezzi diversi dalle analisi di laboratorio: informazioni sul processo chimico o sul processo di fabbricazione e sulle sostanze impiegate, informazioni fornite dal produttore originario del rifiuto della sostanza o dell’oggetto in seguito divenuto rifiuto, il ricorso alle banche dati ufficiali costituiscono altrettanti metodi per conseguire efficacemente l’obiettivo.
Si devono ricercare le sostanze ragionevolmente presenti nel rifiuto
Nessuna disposizione della normativa dell’Unione, infatti, può essere interpretata, secondo la Corte, nel senso di imporre la verifica dell’assenza, nel rifiuto, di qualsiasi sostanza pericolosa.
Si tratterebbe di un obbligo definito come “irragionevole”, sia dal punto di vista tecnico sia economico. Il produttore o il detentore ha l’obbligo, pertanto, di ricercare le sostanze pericolose che ragionevolmente possono essere presenti nel rifiuto, e “non ha nessun margine di discrezionalità” in proposito. I metodi da utilizzare sono quelli definiti a livello europeo o, in mancanza, quelli nazionali, se riconosciuti a livello internazionale.
La conferma verrebbe, secondo la Corte, anche dalla comunicazione della Commissione sulla classificazione dei rifiuti del 9 aprile 2008 e dalla corretta interpretazione del principio di precauzione, alla base della legislazione ambientale dell’Unione Europea. Il legislatore dell’Unione nel settore della gestione dei rifiuti: «ha inteso operare un bilanciamento tra, da un lato, il principio di precauzione e, dall’altro, la fattibilità tecnica e la praticabilità economica, in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano essere limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti in tale rifiuto e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze».
La conferma della Cassazione
Un’indicazione che era già stata formulata, in termini sostanzialmente identici dalla quarta sezione della Cassazione penale con la sentenza n. 6548 del 9 febbraio 2018: «In caso di rifiuti con codice a specchio, per identificarne la non pericolosità non è necessaria la indiscriminata ricerca di tutte le sostanze che il rifiuto potrebbe astrattamente contenere, ma unicamente di quelle che, con più elevato livello di probabilità, possono essere presenti nel rifiuto. Ciò è affermato nella scorta di un contemperamento tra il principio di precauzione e quello di economicità e fattibilità tecnica della gestione dei rifiuti».
Verifica accurata delle sostanze pertinenti
La sentenza della Corte di Giustizia, così come le precedenti linee guida della Commissione Europea sulla classificazione dei rifiuti, fornisce una risposta definitiva e inequivocabile alla domanda posta dalla terza sezione della Cassazione penale alla Corte europea: «Se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o se invece la ricerca delle sostanze pericolose possa essere effettuata secondo criteri probabilistici considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto».
Il quesito della Cassazione lasciava inequivocabilmente trasparire la preferenza per l’orientamento secondo il quale la ricerca delle sostanze ragionevolmente presenti nel rifiuto sarebbe stata insufficiente e non “accurata e rappresentativa”, in altri termini per l’ipotesi interpretativa definita con un eufemismo la “tesi della certezza” ma, più correttamente, della “pericolosità presunta”. Secondo questo approccio, di fronte a un rifiuto al quale si può attribuire una voce a specchio, per esempio una scatola di cartone utilizzata per consegnare prodotti alimentari a un supermercato[1], dovrebbe essere ricercata analiticamente l’eventuale, ma nella realtà assolutamente improbabile considerato il contesto d’uso dell’imballaggio, presenza di ogni sostanza classificata come pericolosa in concentrazioni superiori ai valori di soglia che impongono di attribuire le diverse caratteristiche di pericolo. Quella stessa tesi, ormai definitivamente rifiutata dalla Corte di Giustizia è stata sostenuta anche con argomentazioni di questo tipo: «In altri termini, non c’è dubbio che, qualora, in caso di classificazione secondo la tesi della probabilità, al produttore venga contestato un reato per la errata attribuzione del codice a specchio, il chimico analista autore della classificazione errata potrebbe essere chiamato a risponderne in sede penale come concorrente nel reato stesso. Il che, tuttavia, non esclude affatto la responsabilità del produttore o del gestore del rifiuto il quale è, comunque, il soggetto individuato dalla legge quale responsabile della classificazione e, quale professionista nel settore dei rifiuti, non può certo ignorare la normativa vigente e la giurisprudenza della Cassazione[2]».
Principio di precauzione
Secondo la Corte di Giustizia, invece, il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che: «qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso».
Il ricorso alla presunzione di pericolosità costituisce perciò l’ultima ratio, e non certo il punto di partenza del percorso di classificazione di un rifiuto.
Piacenza, 8 aprile 2019.
Questo tema, così come quello della recente sentenza della Corte di Giustizia europea sulla cessazione della qualifica di rifiuto e della bozza di decreto sulla digitalizzazione dei formulari identificativi del rifiuto e dei registri di carico e scarico, saranno approfonditi nel corso di formazione “Rifiuti: novità e criticità – Stop SISTRI, new FIR e Registri, Voci a specchio, Classificazione, End of Waste, fanghi in agricoltura, BAT rifiuti, RTGR, sottoprodotti”, nelle edizioni di Bari, 9 maggio 2019, Milano, 22 maggio 2019 e Padova, 5 giugno 2019.
Info e approfondimenti: formazione@tuttoambiente.it – 0523.315305
[1] Le linee guida della Commissione europea sulla classificazione dei rifiuti ritengono che i codici da 15 01 01 a 15 01 09 costituiscano le voci a specchio non pericolose di quelle alle quali devono essere attribuiti i codici 15 01 10 e 15 01 11.
[2] “Codici a specchio: basta confusione, facciamo chiarezza”, di Gianfranco Amendola e Mauro Sanna, www.industrieambiente.it
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