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Stefano Maglia

CSS e il problema energetico

di Stefano Leoni

Categoria: Rifiuti

Sembra che ci sia resi conto solo negli ultimi mesi del problema del rischio di approvvigionamento delle risorse necessarie per consentire al nostro Paese, la seconda economia manufatturiera in Europa, di conservare la nostra capacità produttiva e il nostro livello di consumo.

 

In realtà sono anni che questo rischio viene denunciato – in particolare in UE -, ma sembra che i nostri governi – senza alcuna distinzione – abbiano finora fatto “orecchie da mercante” e continuino a sostenere il cosiddetto “Business as usual”, secondo politiche gattopardesche per cui “tutto cambia, ma allo stesso tempo rimane uguale”.

 

Basti pensare ai sostegni per la rottamazione delle auto e l’acquisto di nuove, che non dispongono criteri utili a riformare le criticità del settore, bensì appaiono come meri sussidi all’automotive. C’è da scommettere che appena entreranno in vigore assisteremo ad un incremento dei prezzi delle vetture, fino ad assorbire la regalia del governo.

Il caso dell’automotive è particolarmente pregnante. Da 20 anni – data del recepimento della direttiva 53/2000/CE – l’Italia non centra gli obiettivi di recupero dettati dalla norma europea. Perché? Semplice: non esistono in Italia impianti disposti a ricevere il car fluff, ossia la parte di plastica che rimane dopo la frantumazione delle vetture fuori uso.

La soluzione da adottare è quella del recupero energetico, almeno fino a quando non saranno progettate auto la cui componente plastica potrà essere riciclata e non solo bruciata o gettata in discarica. Tuttavia, non esistono impianti disposti ad accogliere questa frazione e, ancor peggio, i costi di valorizzazione energetica renderebbero antieconomico il riciclaggio delle vetture.

 

Beh! A fronte di questa situazione si parla solo di sussidi a perdere per i produttori di auto, quando invece dovrebbero essere poste condizioni per recuperare questo gap. Si tenga conto, peraltro, che nel settore vige la cosiddetta responsabilità estesa del produttore, secondo la quale chi immette nel mercato una vettura è tenuto a farsi carico dei costi del fine vita al fine di raggiungere gli obiettivi di riciclaggio e recupero.

Nonostante ciò, l’Italia ha recepito la direttiva europea senza disporre in capo ai produttori una benché minima responsabilità finanziaria riguardo al mancato raggiungimento degli obiettivi europei. In altri termini, in caso di condanna del nostro Paese pagheranno tutti i cittadini, ma non i produttori. Peraltro fiscalmente tutti con sede all’estero.

Questa premessa è utile per inquadrare il tema del CSS.

 

Non è con piacere che mi trovo a dover sollevare qualche perplessità riguardo ad un recente articolo pubblicato su questa rivista, nel quale partendo da una pronuncia del Consiglio di Stato sui limiti apposti dalle amministrazioni locali all’utilizzo del CSS si giunge a affermare che “L’individuazione delle risorse occorrenti a ridefinire la mappa del fabbisogno energetico nazionale, per allentare i perniciosi effetti della dipendenza estera (soprattutto legati all’importazione di gas), deve accettare una indispensabile (ed immediata) rivisitazione dei criteri con i quali attualmente vengono classificati i combustibili alternativi, la cui estromissione dal perimetro vincolistico della disciplina in materia di rifiuti, è stata nel corso degli anni fortemente limitata dal contesto normativo di riferimento …”

 

Mi permetto di suggerire che prima di giungere a tali affermazioni occorre disporre un quadro esaustivo della disciplina per evitare spreco di tempi e di risorse.

Innanzitutto, si deve tener conto che il CSS è un combustibile che deriva dal trattamento dei rifiuti. Tematica che negli ultimi anni ha subito notevoli modifiche, che sostanzialmente sono mirate a scoraggiare la produzione di beni in plastica (il cuore del CSS), promuovendone al contrario il riutilizzo, bandendo il monouso, ma addirittura introducendo una tassa europea per gli imballaggi in plastica non riciclati.

 

Introdotta con la decisione (UE, Euratom) 2020/2053 del Consiglio del 14 dicembre 2020 e approvata dall’Italia all’inizio del 2021, trova applicazione a partire dal 2021. La disposizione testualmente recita: “1. Costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio dell’Unione le entrate provenienti:

  1. a) …;
  2. b) …;
  3. c) dall’applicazione di un’aliquota uniforme di prelievo sul peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati generati in ciascuno Stato membro. L’aliquota uniforme di prelievo è pari a 0,80 EUR per chilogrammo.”

Un prelievo di 800 €/t per gli imballaggi in plastica, anche quella biodegradabile, che vanno in discarica o a recupero energetico. Secondo i dati del 2020 l’Italia dovrebbe versare nelle casse dell’UE più di 800 MIn€/a! Un simile contesto economico pensare di incrementare il ricorso al CSS e quindi a costruire nuovi impianti di incenerimento significa avviarsi per una strada che gli imprenditori non possono percorrere. A causa dei costi troppo elevati.

Si deve, infatti, considerare che la quota più rilevante del CSS è data dagli imballaggi in plastica. E che quindi nei prossimi anni si assisterà necessariamente ad una riduzione di questo tipo di prodotti. Neanche è pensabile che possa essere rivista la plastic tax, dal momento che costituisce fonte di finanziamento dell’Unione europea, alla quale non è oggi in grado di rinunciare.

Ovviamente lo stesso discorso non vale per le parti in plastica contenute in prodotti diversi dagli imballaggi. Ma in questo caso dobbiamo osservare che la quantità disponibile, rispetto all’attuale disponibilità impiantistica, scende drasticamente. Quindi, immaginare un piano di sviluppo impiantistico di questo tipo risulta solo tempo perso.

 

Peraltro, pensare che la sostituzione del CSS possa essere alternativa alla crisi da approvvigionamento da gas è a dir poco utopica. Infatti, occorre ricordare che la plastica è un derivato del petrolio (anche nel caso delle cosiddette bioplastiche). E al riguardo le statistiche ISTAT ci dicono che lo scorso anno l’Italia ha importato 117 Mt di fossili, la voce più rilevante di tutte le nostre importazioni.

 

Quindi, l’utilizzo del CSS come risposta al rischio di fornitura del gas non risolve il problema, ma sposta solo l’ambito di rischio.

Un ultimo appunto. Senza tener conto della necessità di contrastare i cambiamenti climatici, i cui costi stimati sono particolarmente rilevanti, l’unica risposta ai rischi di approvvigionamento energetico è data dallo sviluppo delle energie rinnovabili, la cui potenzialità di crescita è enorme e i cui costi sono di molto inferiori a quelli delle altre fonti energetiche. A cominciare dal nucleare il cui kWh costa quasi 4 rispetto a quello generato dall’eolico.

Quindi, se c’è un settore dove dobbiamo snellire i procedimenti amministrativi o allentare i vincoli alla produzione di energia è quello delle rinnovabili.

 

Concludendo, quello dell’energia è un settore che non può essere indirizzato solo sulla base di una pronuncia, peraltro da parte di una giurisdizione che affronta solo aspetti formali e non di merito. E un campo di azione molto più ampio, dove peraltro la salvaguardia dell’ambiente e del clima si sposa con l’economia.

 

Piacenza, 19 aprile 2022

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