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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Il danno ambientale e l’ambiente – oggetto delle politiche ambientali.
La politica si occupa inevitabilmente di ambiente, specificatamente nel senso di governo, organizzazione e regolazione della società nel suo insieme, determinandone gli scopi collettivi, mobilitando e gestendo risorse ed energie per il loro raggiungimento.
Nella sua più ampia accezione, la politica si manifesta nella società lato sensu attraverso politics e policy.
Nell’orbita del primo settore rientra «l’insieme di attività che hanno in qualche modo a che vedere con lo stato, con le relazioni tra governanti, leader di partito, elettori, basate sulla ricerca del consenso e/o del potere» (Bulsei[1] e Regonini[2]); nell’altro s’inserisce «l’insieme di azioni, ma anche di non – azioni, poste in essere da soggetti di carattere pubblico e privato, correlate ad un problema collettivo» (Dente[3]).
Un esempio per capire i due concetti: votare alle elezioni, decidere l’intervento militare in Iraq, etc., sono attività di politics. Istituire un fondo per fornire un primo aiuto a chi sia stato danneggiato da un grave danno conseguente ad un disastro ambientale e ad un terremoto; regolamentare le procedure per la costituzione di parte civile di soggetti pubblici, etc., sono, invece, attività di policy.
Le «politiche pubbliche» rappresentano la traduzione di policy. Sono «pubbliche» tanto perché poste in essere da stato, regioni, province, comuni, Unione Europea, quanto perché affrontano questioni che coinvolgono il pubblico, nel senso della collettività dei cittadini. A tal proposito, importante è il contributo filosofico di Dewey[4], il qual individua il pubblico della policy «come l’interlocutore, effettivo o potenziale», che ha di fronte il soggetto che attivi una policy. Una sorta di «parte terza interessata» alle questioni che vengono prese in esame dai policy maker.
Una politica è quindi pubblica nella misura in cui essa tiene conto non solo degli interessi di chi vi prende parte attivamente, ma della collettività implicata: ad esempio, da chi vive in uno specifico quartiere della città o in un’area inquinata o a rischio idrogeologico[5].
Negli ultimi anni si è sviluppata quella che Gert Spaargaren[6] definisce «emancipazione dell’ecologia», alla luce della quale le attività umane vengono valutate sulla base di criteri ecologici; ed un esempio è rappresentato dall’utilizzo di marchi ecologici come Ecolabel o Emas. Attualmente, si registra una contrapposizione tra coloro, come Allan Schnaiberg e Immanuel Wallerstein, fautori di un’interpretazione resistenziale delle risposte sociali alla crisi ambientale che attanaglia ormai da tempo l’intero globo, che dapprima opponendosi ad una riforma a carattere ecologico, poi ritornando appena possibile all’usualità degli sfruttamenti delle risorse naturali, e quelli che, fossilizzandosi su posizioni più marcatamente radicali dell’ecologismo, sostengono l’improcrastinabilità della collocazione dell’ecologia al centro della politica. Per quest’ultimi, «la natura più che un oggetto, costituisce un soggetto politico, incapace di parlare per se stesso, ma non per questo privo di diritti meritevoli di essere difesi».
In sintesi, l’ambiente ha un valore intrinseco e non solo strumentale.
Nella prospettiva ecologista appena enucleata non si registra tuttavia un tramonto teorico, ma piuttosto una sorta di appiattimento a favore dei cd. regimi di giustificazione individuati da Bruno Latour[7]:
Regime domestico, nel quale viene privilegiato il valore della tradizione, del territorio e delle specificità locali (l’ecologismo diventa conservatorismo, localismo, a volte su posizioni reazionarie);
Regime industriale, nel quale sono proclamati i vantaggi apportati dall’economia e dall’industria, unitamente alla capacità di rispondere ad ogni problema (vi è in questo caso uno spiazzamento dell’ecologismo causato dalle risposte tecnologiche ai problemi ambientali: inceneritore, depuratore, marmitta catalitica);
Regime civico, nel quale la volontà generale ed il bene comune sono al centro delle principali piaggerie, salvo poi contrarsi in occasioni di trasformazione in una delle tanti occasioni che richiedono indispensabili azioni di conciliazione (piano regolatore approvato dal consiglio comunale che accoglie le istanze degli ambientalisti e le bilancia con quelle delle industrie e del commercio);
Regime commerciale, nel quale l’ecologismo si frantuma nella miriade di forme del consumismo, dei marchi e dei negozi ecologici, diventando volano per un ulteriore sviluppo economico.
Sulla scorta «dell’autonomia della sfera ecologica» di Spaargeren, secondo la quale da sempre sono state fatte scelte politiche sull’ambiente (e quasi sempre rivolte nella direzione dello sfruttamento piuttosto che in quella della protezione), un’azione collettiva strutturata e sistematica di tutela ambientale solo di recente è andata affermandosi sul panorama politico e sociale. Essa ha senz’altro dato maggiore visibilità e conoscibilità all’ambiente nel senso di essere riuscito a farlo considerare imprescindibile piattaforma «su cui misurare un’ampia gamma di comportamenti individuali e collettivi[8]». Ecco quindi che, all’uopo di fornire maggior chiarezza sull’attuale strutturazione delle politiche ambientali, è stato elaborato un triangolo avente ai vertici l’ambiente, le istituzioni pubbliche e gli attori sociali. Tali elementi interagiscono tra di loro attraverso delle relazioni: la liceità opera tra l’ambiente e gli attori sociali (i comportamenti degli individui, dei gruppi e delle organizzazioni hanno delle importanti ricadute, positive o negative, sull’ecosistema ed evidentemente sulla collettività); l’efficienza e l’efficacia operano tra l’ambiente e le istituzioni pubbliche (si tratta delle conseguenze ecologiche delle decisioni assunte da quest’ultime); mentre la legalità e la legittimità operano tra le istituzioni pubbliche e gli attori sociali (si ha una maggiore incisione delle problematiche ambientali sulla relazione).
Nella relazione tra gli attori sociali e le pubbliche istituzioni appare chiaramente rilevante la legalità del modo in cui le regole vengono fissate ed applicate (chi ha deciso il divieto di smaltimento di rifiuti speciali pericolosi nei corsi d’acqua? Come agire in caso di violazione del divieto?), a cui si unisce inscindibilmente anche una questione di legittimità, nel senso che una legge formalmente ineccepibile può essere ritenuta moralmente o politicamente illegittima se l’autorità che l’ha emanata manca di autorevolezza o credibilità, o se i contenuti della decisione sono considerati scorretti (Perché il legislatore ha vietato lo smaltimento alle aziende manifatturiere e non anche a quelle tessili? Non è che si stanno facendo dei favoritismi?).
Un ultimo accenno merita infine la liceità intercorrente tra ambiente e attori sociali, in base alla quale i comportamenti sono considerati apprezzabili o riprovevoli sotto il profilo etico – morale del comune sentire. In effetti, molto spesso, una qualsiasi sanzione di tipo morale può costituire un valido strumento i cui effetti siano sufficientemente capaci di modificare un certo comportamento, pur in una versione “embrionale” di devianza. E’ il caso, ad esempio, del mancato conferimento dei rifiuti nei specifici contenitori all’uopo predisposti per la raccolta differenziata.
Le politiche pubbliche quale fonte legislativa per l’ambiente.
L’insieme degli interventi che vengono posti in essere tanto da autorità pubbliche, quanto da soggetti privati, volti a disciplinare quelle attività umane che riducono la disponibilità di risorse naturali o ne peggiorano la qualità e fruibilità, costituiscono per Lewanski[9] le azioni indirizzate ad evitare il deterioramento dell’ambiente, a ridurne l’entità o porre riparo a danni già verificatisi[10].
Tutti i provvedimenti adottati ai vari livelli di piccola, media e alta amministrazione, quindi non solo di environment governance, ma anche e principalmente di “produzione legislativa” rientrano appieno nella definizione appena fornita. A titolo esemplificativo, sul sito del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare[11] è riportato l’elenco dei S.I.N. (Siti d’interesse nazionale), siti soggetti a bonifica individuati con specifici provvedimenti normativi (ad esempio, il S.I.N. di Porto Marghera è stato individuato con L. 426/98).
Nelle politiche pubbliche, l’oggetto di analisi attiene ora al paesaggio, al patrimonio naturale e storico – culturale, all’assetto territoriale, ora all’ambiente quale elemento in grado di incidere sulla salute e sulla qualità della vita. Un chiara connessione pertanto di più “versioni” di ambiente inscindibili dai molteplici e vari elementi che valgono nel contempo a costituirlo e a caratterizzarlo”. Le politiche ambientali occupano pertanto un’area compresa, e sotto certi aspetti sovrapposta, tra salute, tutela dei beni culturali e assetto urbanistico – territoriale, con peculiarità chiaramente attinenti ai problemi ambientali.
Per poter dar vita e attuare una governance ambientale non può prescindersi dalla conoscenza tecnico – scientifica, necessaria per l’individuazione dei problemi e per la precisazione delle loro cause e dei possibili rimedi.
I problemi ambientali si caratterizzano per periodi di gestazioni generalmente molto lunghi rispetto ai tempi dei processi di policy. Si spiega cosi, e di questo occorre tenerne conto in sede di definizione delle politiche ambientali, il ritardo con cui si manifesta l’efficacia o meno di un provvedimento, di una norma o di un’azione, anche perché si registra spesso la determinatezza di un imminente scadenza elettorale nella fase di «fissazione dell’agenda» e «formulazione del programma»[12]. Da non trascurare sono poi le cd. «arene pubbliche», elaborate dal Hilgartner[13] e Bosk[14], nelle quali si registrerebbe «una competizione tra innumerevoli temi che domandano attenzione collettiva, quali problemi sociali, dei quali soltanto alcuni riescono tuttavia a conquistare il ruolo di arena pubblica[15]».
La selezione avviene sulla base di fattori istituzionali, politici e culturali, sicché appare evidente che in presenza di una disoccupazione altissima e di una scarsa crescita economica, la priorità difficilmente verrà dall’esecutivo riconosciuta all’ambiente ed ai suoi problemi.
Da un punto di vista strettamente giuridico, secondo Maddalena[16], «non tutto l’ambiente è considerato un bene, ma solo quella parte che è oggetto di interessi contrastanti». Partendo dalla constatazione che gli aerei non sono sempre esistiti, appare evidente che con altrettanta certezza, non è sempre esistita l’esigenza di disciplinare lo spazio aereo sovrastante gli stati nazionali. Di modo che, l’azione di tutela dell’ambiente ha iniziato a manifestarsi e conseguentemente ad espandersi dapprima nel momento in cui si è iniziata a registrare una scarsità di risorse utili e poi con la sempre maggiore riduzione della loro disponibilità (da qui anche i problemi oggetto della geopolitica[17], in cui l’ambiente è inevitabilmente entrato a pieno titolo). I beni ambientali non sempre vengono tutelati attraverso il ricorso a norme di difesa della proprietà, sia essa statale o privata. Rimangono talvolta «beni collettivi» identificabili come «interessi diffusi» in quanto condivisi da tutti gli appartenenti a una formazione sociale e non riconducibili a individui, enti od organizzazioni specifiche. In questo senso, il bene – ambiente è considerato come qualcosa che non appartiene né ai privati né allo stato come istituzione, ma allo stato come comunità, quindi all’insieme dei cittadini.
L’analisi delle politiche pubbliche avviene attraverso il «processo di policy» ovvero quel procedimento attraverso il quale si determina «una ricostruzione dei comportamenti dei vari attori intorno ad una determinata questione, nell’ipotesi che il gioco interattivo che ne risulta sia in grado di spiegare in buona parte gli esiti di un certo provvedimento[18]».
La scaletta procedimentalizzata è la seguente:
Fissazione dell’agenda: emerge in essa un problema con le relative domande da parte di uno più settori della società; la definizione del problema e suo inserimento tra le questioni da affrontare; es. inquinamento e danno ambientale di una vasta area interregionale.
Formulazione del programma di policy: vengono discusse le alternative e assunte le decisioni; es. inserimento dell’area inquinata nella lista dei siti d’interesse nazionale.In tale fase assumono rilievo anche le non – decisioni, che costituiscono decisioni a tutti gli effetti, intese come «impedire che un problema raggiunga la soglia dell’attenzione pubblica, oppure mostrare che esso non è ancora giunto a maturazione, che si sa troppo poco al riguardo o le posizioni in campo non sono bene definite[19]».
Applicazione del programma stabilito.
Valutazione ed eventuale estinzione.
In campo ambientale, nella procedura supra descritta, è tutt’altro che irrilevante l’innovazione tecnologica, la quale tende a produrre una moltiplicazione delle cd. situazioni di «fatto compiuto», anche perché, come si è già avuto modo di evidenziare, l’innovazione procede molto più rapidamente rispetto alla regolamentazione, sicché è proprio quest’ultima quasi sempre, a sancire ciò che viene già da tempo praticato, piuttosto che disciplinarne gli sviluppi.
Il modello incrementale[20]e quello del bidone della spazzatura[21], elaborati rispettivamente da Lindblom e March e Olsen, sono quelli che meglio riescono ad applicarsi al campo ambientale[22].
Nel primo, ove il «campo decisionale si presenta popolato da attori partigiani che dipendono gli uni dagli altri per l’effettuazione di scelte pubbliche e che analizzano i problemi separatamente senza essere sottoposti a qualche forma di sovraordinato», l’obiettivo che s’intende perseguire è individuabile nell’accordo su una specifica combinazione di mezzi/fini, all’interno della quale, tra l’altro, sono i fini ad adattarsi ai mezzi disponibili.
Nel secondo, invece, ciò che determina il tutto, è rappresentato dalla casualità, «essendo la situazione non solo incerta, ma anche ambigua». Coloro che partecipano o sono interessati all’interno del bidone della spazzatura sono in cerca di problemi da risolvere e le soluzioni preesistono al problema stesso, poiché trovano espressione i riflessi di competenze, interessi e risorse organizzative di chi prende parte alla decisione.
L’entrata e l’uscita dall’arena decisionale avvengono sulla base delle modalità attraverso cui si opera la distribuzione delle energie tra impegni e problemi diversi, venendo modificate anche le preferenze nel corso del processo.
La decisione a cui si perviene è strettamente connessa «alla combinazione contingente di problemi, soluzioni, attori e opportunità di scelta».
Gli obiettivi delle politiche pubbliche in materia ambientale.
All’interno delle matrici delle politiche pubbliche in materia ambientale gli obiettivi sono certamente un elemento tutt’altro che trascurabile. Anzi, si potrebbe addirittura asserire che senza un obiettivo ben preciso, la policy non potrebbe venire ad esistenza.
Sebbene esistano in letteratura diverse classificazioni, quella più accreditata risulta quella di Lowi[23], secondo la quale esisterebbe la categoria delle politiche costituenti o costitutive, quella delle politiche distributive, quella delle politiche redistributive e quella delle politiche regolative (competitive e protettive).
Le politiche costitutive non si prefiggono di affrontare una specifica problematica, ma di «predisporre gli attrezzi istituzionali, organizzativi e procedurali necessari al trattamento dei problemi aventi rilevanza collettiva»; nonché di definire «le regole sui poteri o le regole sulle regole»; l’esempio più chiaro di redazione e applicazione di questa forma di politiche è quello che deriva dall’istituzione del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare.
Le politiche distributive sono individuabili come «le decisioni che assegnano benefici in forma esplicita ad una o più categorie di cittadini senza imputare in forma altrettanto esplicita i costi ad altre categorie». Si tratta di tipici trasferimenti e sussidi, differenziati per contenuti e destinatari, a volte indirizzati a piccoli gruppi, quindi politiche che presentano vantaggi tangibili e concentrati, e oneri occulti o diffusi su vasta scala.
Le politiche redistributive sono provvedimenti nei quali è registrabile un trasferimento diretto di risorse fra due o più gruppi sociali, di modo che si differenziano dalle precedenti per il semplice fatto di avere un’imputazione visibile dei costi, così comportando un’inevitabile opposizione da parte di chi è chiamato a sopportarli. In questo frangente, appare chiaro che se i costi sono concentrati, i benefici possono essere diffusi e goduti inconsapevolmente, anche ad esempio da categorie eterogenee di consumatori o risparmiatori; o ad adiuvandum, in presenza di benefici dilazionati nel tempo (miglioramento della qualità dell’aria).
Infine, le politiche regolative, considerato che indicano delle norme di comportamento valide per tutti i membri di una data categoria, «mirano, attraverso un sistema di regole, a determinare il comportamento dei singoli individui» e «non sono passibili di una disaggregazione praticamente illimitata come quelle distributive». In tale contesto si suole distinguerle sulla base di un presupposto di competitività ed un altro di protezione. Nella prima sub – categoria, rientrano quelle politiche orientate verso la regolazione di settori all’interno dei quali più soggetti operano per l’utilizzo (rectius: sfruttamento in senso economico) di una specifica risorsa. E’ il caso del settore/mercato delle radiofrequenze per la telefonia mobile. Nella seconda sub – categoria, ricadono, quelle norme che fissano quali parametri debbano essere rispettati dalle acque ai fini della potabilità. Il riciclaggio dei rifiuti persegue l’obiettivo del miglioramento dell’ambiente, tuttavia, è indubitabile che miri anche a stimolare la competitività tra le imprese addette al servizio di raccolta e smaltimento.
Non da ultimo, occorre richiamare la valenza simbolica, talvolta presente, delle politiche ambientali, con le quali «si fa credere che si agisce, anche se dietro a ciò si celano a volte misure concrete indirizzate a destinatari precisi». E’ il caso della reazione (senza tuttavia «affrontare il problema»), ai dati rilevati dalle centraline di monitoraggio dell’aria installate in varie zone della città da cui discendono le limitazioni del traffico urbano, nonché della contemporanea incentivazione all’acquisto di veicoli di ultima generazione. Molto spesso, nella prassi politica, non è difficile imbattersi in quelle che Baldi[24] definisce pseudo policies; politiche cioè la cui efficacia si presenta particolarmente deficitaria in quanto elaborate attraverso un processo di policy che non ha tenuto in considerazione adeguate conoscenze. Anche la disponibilità di risorse costituisce un elemento importante su cui impostare una policy, specie in un momento storico in cui gli attuali vincoli di bilancio comunitari hanno creato un vero e proprio sbarramento nei confronti dell’attuazione di politiche distributive o redistributive[25].
All’interno della presente analisi, devono trovare una collocazione, seppur sintetica, gli strumenti di policy in campo ambientale. Partendo dal «grado di discrezionalità» e dalla «natura regolativa e finanziaria» è possibile individuare le due dimensioni analitiche con cui vengono classificate le tipologie di strumenti. Caposaldo dell’analisi in questione è e rimane l’incidenza della componente regolativa su un qualsiasi provvedimento nel senso che per esso inevitabilmente si registrano degli effetti sui comportamenti dei destinatari, i quali a loro volta determinano delle conseguenze a livello di flussi finanziari.
Gli standard normativi o norme comando – controllo rientrano nella categoria degli strumenti regolativi a bassa discrezionalità per i destinatari, come ad esempio avviene con i limiti alle emissioni inquinanti. Siamo dinanzi a strumenti piuttosto antichi, risalenti agli anni ’60, nei quali il tipo di comando varia a seconda dei casi, dalla precisazione di tecnologie da adottare all’indicazione di obiettivi da raggiungere, lasciando al destinatario la scelta della soluzione tecnica da adottare. Molto spesso si fa riferimento al concetto di «migliore tecnologia disponibile» per indicare agli operatori l’applicazione che si vuole venga utilizzata: es. motori automobilistici con fissazione di limiti di emissione sempre più severi.
Accanto agli standard si collocano le procedure di analisi e decisione, per le quali, il solo citare la Valutazione di impatto ambientale od anche la Valutazione ambientale strategica, è sufficiente a comprenderne la portata. Vi sono ancora le disposizioni che «modificano le regole di responsabilità e assicurazione in modo da farne beneficiare l’ambiente» che vanno tuttavia cristallizzate in un quadro molto più complesso perché molte risorse ambientali non sono oggetto di proprietà, il che incide significativamente sull’interesse alla loro tutela e sugli strumenti giuridici disponibili. Si pensi alle norme che estendono la responsabilità del produttore all’intero ciclo di vita del prodotto e soprattutto alla direttiva europea 2004/35/CE sulla responsabilità per la prevenzione e riparazione del danno ambientale.
Per quanto riguarda le forme di regolazione di alta discrezionalità, appare sufficiente ricordare che esse si basano essenzialmente sul principio intrinseco alla possibilità, da parte dei destinatari, di decidere se aderire o meno a una specifica modalità di comportamento. Il tutto all’interno di una cornice proattiva e di governance.
Nel senso proattivo, l’attore economico vede le misure di tutela ambientale come opportunità piuttosto che come vincoli, certo dell’opportunità di trarre vantaggio, anche e soprattutto economico, dal miglioramento delle performance ambientali della propria impresa.
Nel senso, invece, della governance si parte dalla riscontrata necessità di dare spazio alla collaborazione tra autorità e parti sociali e all’autoregolazione di quest’ultime, sostenuta da ragioni ideologiche e dalla crescente complessità degli scenari di policy, sufficienti a rendere particolarmente difficili da una lato, una «regolamentazione puntuale» e dall’altro un «approccio amministrativo centralizzato»[26].
Completano il quadro analitico le politiche contrattualizzate, nel cui novero rientrano gli accordi tra imprese e governi, diffusesi in modo particolare negli anni ’80.
Secondo il politologo Luigi Bobbio, trattasi di «scelte pubbliche fondate sul consenso formalizzato delle parti interessate»[27] (enti pubblici od anche soggetti privati) che si ramificano ora nell’ordine pubblico, ora nello sviluppo economico fino alla fornitura di servizi. Varie aree nel più ampio terreno della policy.
In Italia, si sono sviluppate nella forma degli accordi di programma, delle conferenze di servizi, dei protocolli d’intesa, dei contratti d’area, dei patti territoriali, dei contratti di quartiere, etc.
Tali forme sono certamente rilevanti nel campo ambientale, significativamente identificabile con l’ambito del danno e della responsabilità ambientale.
Dall’analisi dei rapporti sullo stato dell’ambiente del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare emerge che mentre nei Paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti le politiche contrattualizzate hanno avuto un successo, in Italia il loro utilizzo è stato piuttosto limitato, il che fa ritenere che probabilmente alcuni aspetti di governance ambientale meritano una maggiore attenzione e studio da parte dei policy maker[28].
[1] G. L. Bulsei, Ricercatore confermato di Sociologia applicata – Area 14/D1 – Sociologia di processi economici, del lavoro, dell’ambiente e del territorio – Università degli studi Piemonte Orientale – http://www.lett.unipmn.it/docenti/bulsei/.
[7] B. Latour, sociologo, antropologo e filosofo della scienza francese nato nel 1947 a Beaune, in Francia. Dopo aver lavorato come assistente presso il Conservatoire national des arts et métiers, e aver insegnato presso l’ École des mines de Paris, è dal settembre 2006 professore presso l’Institut d’études politiques di Parigi – http://www.bruno-latour.fr/.
[14] C. L. Bosk, Professor of Sociology Professor of Anesthesiology and Critical Care, Perelman School of Medicine Senior Fellow, Leonard Davis Institute of Health Economics – University of Pennsylvania – https://sociology.sas.upenn.edu/c_bosk.
[16] P. Maddalena, Il diritto all’ambiente e i diritti all’ambiente nella costruzione della teoria del risarcimento del danno pubblico ambientale, in Rivista giuridica dell’ambiente, 3, pp. 469 – 484.
[17] Il termine “geopolitica” fu coniato nel 1904 dal geografo svedese Rudolf Kjellen, anche se molti fanno cominciare la storia di questa disciplina già con Friedrich Ratzel, il geografo, antropologo ed etnologo tedesco che, proprio nel 1904, moriva. Lo studioso svedese, con “geopolitica”, si riferisce all’uso della conoscenza geografica per favorire gli obiettivi di Stati nazionali specifici. Per altri, la geopolitica nasce sì in quell’anno, ma grazie allo scritto di Sir Halford Mackinder, The Geographical Pivot of History.
[18] G.L. Bulsei, Ambiente e politiche pubbliche, Roma, 2005.
[20] C. Lindblom, The Intelligence of democracy. Decision making through mutual adjustment, New York, Free Press.
[21] J.G. March, J.P. Olsen, Ambiguity and choice in organization, Bergen, Universitets-forlaget; trad. It. parziale. Scelta organizzativa in condizioni di ambiguità, in Logiche di azione organizzativa, a cura di S. Zan, Bologna, Il Mulino, pp. 303 – 318.
[22] Secondo Osti e Pellizzoni, «sembrano più adeguati a rappresentare quanto avviene nelle grandi organizzazioni pubbliche e private e nelle relazioni inter organizzative tipiche dei processi di policy. A titolo esemplificativo, si pensi alla pluralità di attori coinvolti nella fissazione di una soglia di emissioni inquinanti in atmosfera: politici, amministratori, associazioni di categoria, enti di controllo, ambientalisti, esperti. Ed alla necessità di mediare tra interessi differenti (le imprese che impiegano tecnologie obsolete tenderanno a osteggiare limiti molto stringenti, caldeggiati invece da quelle all’avanguardia) e alla difficoltà che ciascun attore può avere a precisare quali siano i propri stessi obiettivi (il governo: abbiamo fissato limiti ragionevoli? C’è il pericolo di mettere in crisi un intero settore economico? Un’impresa: mi conviene premere affinché il nuovo standard di emissione entri in vigore subito oppure tra due anni?)».
[23] T. Lowi, American business, public policy, case – studies and political theory, in World Politics. XVI, 4, pp. 677 – 715; trad. it. Politiche pubbliche, «case studies» e teoria politica, in Id., La scienza delle politiche, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 5 – 36.
[24] B. Baldi, professore associato confermato Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università di Bologna; autrice, tra l’altro, di Politica simbolica, in Dizionario di politiche pubbliche, a cura di G. Capano e M. Giuliani, Roma, pp. 336 – 341.
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Il danno ambientale nelle politiche ambientali
di Cristian Rovito
Il danno ambientale e l’ambiente – oggetto delle politiche ambientali.
La politica si occupa inevitabilmente di ambiente, specificatamente nel senso di governo, organizzazione e regolazione della società nel suo insieme, determinandone gli scopi collettivi, mobilitando e gestendo risorse ed energie per il loro raggiungimento.
Nella sua più ampia accezione, la politica si manifesta nella società lato sensu attraverso politics e policy.
Nell’orbita del primo settore rientra «l’insieme di attività che hanno in qualche modo a che vedere con lo stato, con le relazioni tra governanti, leader di partito, elettori, basate sulla ricerca del consenso e/o del potere» (Bulsei[1] e Regonini[2]); nell’altro s’inserisce «l’insieme di azioni, ma anche di non – azioni, poste in essere da soggetti di carattere pubblico e privato, correlate ad un problema collettivo» (Dente[3]).
Un esempio per capire i due concetti: votare alle elezioni, decidere l’intervento militare in Iraq, etc., sono attività di politics. Istituire un fondo per fornire un primo aiuto a chi sia stato danneggiato da un grave danno conseguente ad un disastro ambientale e ad un terremoto; regolamentare le procedure per la costituzione di parte civile di soggetti pubblici, etc., sono, invece, attività di policy.
Le «politiche pubbliche» rappresentano la traduzione di policy. Sono «pubbliche» tanto perché poste in essere da stato, regioni, province, comuni, Unione Europea, quanto perché affrontano questioni che coinvolgono il pubblico, nel senso della collettività dei cittadini. A tal proposito, importante è il contributo filosofico di Dewey[4], il qual individua il pubblico della policy «come l’interlocutore, effettivo o potenziale», che ha di fronte il soggetto che attivi una policy. Una sorta di «parte terza interessata» alle questioni che vengono prese in esame dai policy maker.
Una politica è quindi pubblica nella misura in cui essa tiene conto non solo degli interessi di chi vi prende parte attivamente, ma della collettività implicata: ad esempio, da chi vive in uno specifico quartiere della città o in un’area inquinata o a rischio idrogeologico[5].
Negli ultimi anni si è sviluppata quella che Gert Spaargaren[6] definisce «emancipazione dell’ecologia», alla luce della quale le attività umane vengono valutate sulla base di criteri ecologici; ed un esempio è rappresentato dall’utilizzo di marchi ecologici come Ecolabel o Emas. Attualmente, si registra una contrapposizione tra coloro, come Allan Schnaiberg e Immanuel Wallerstein, fautori di un’interpretazione resistenziale delle risposte sociali alla crisi ambientale che attanaglia ormai da tempo l’intero globo, che dapprima opponendosi ad una riforma a carattere ecologico, poi ritornando appena possibile all’usualità degli sfruttamenti delle risorse naturali, e quelli che, fossilizzandosi su posizioni più marcatamente radicali dell’ecologismo, sostengono l’improcrastinabilità della collocazione dell’ecologia al centro della politica. Per quest’ultimi, «la natura più che un oggetto, costituisce un soggetto politico, incapace di parlare per se stesso, ma non per questo privo di diritti meritevoli di essere difesi».
In sintesi, l’ambiente ha un valore intrinseco e non solo strumentale.
Nella prospettiva ecologista appena enucleata non si registra tuttavia un tramonto teorico, ma piuttosto una sorta di appiattimento a favore dei cd. regimi di giustificazione individuati da Bruno Latour[7]:
Sulla scorta «dell’autonomia della sfera ecologica» di Spaargeren, secondo la quale da sempre sono state fatte scelte politiche sull’ambiente (e quasi sempre rivolte nella direzione dello sfruttamento piuttosto che in quella della protezione), un’azione collettiva strutturata e sistematica di tutela ambientale solo di recente è andata affermandosi sul panorama politico e sociale. Essa ha senz’altro dato maggiore visibilità e conoscibilità all’ambiente nel senso di essere riuscito a farlo considerare imprescindibile piattaforma «su cui misurare un’ampia gamma di comportamenti individuali e collettivi[8]». Ecco quindi che, all’uopo di fornire maggior chiarezza sull’attuale strutturazione delle politiche ambientali, è stato elaborato un triangolo avente ai vertici l’ambiente, le istituzioni pubbliche e gli attori sociali. Tali elementi interagiscono tra di loro attraverso delle relazioni: la liceità opera tra l’ambiente e gli attori sociali (i comportamenti degli individui, dei gruppi e delle organizzazioni hanno delle importanti ricadute, positive o negative, sull’ecosistema ed evidentemente sulla collettività); l’efficienza e l’efficacia operano tra l’ambiente e le istituzioni pubbliche (si tratta delle conseguenze ecologiche delle decisioni assunte da quest’ultime); mentre la legalità e la legittimità operano tra le istituzioni pubbliche e gli attori sociali (si ha una maggiore incisione delle problematiche ambientali sulla relazione).
Nella relazione tra gli attori sociali e le pubbliche istituzioni appare chiaramente rilevante la legalità del modo in cui le regole vengono fissate ed applicate (chi ha deciso il divieto di smaltimento di rifiuti speciali pericolosi nei corsi d’acqua? Come agire in caso di violazione del divieto?), a cui si unisce inscindibilmente anche una questione di legittimità, nel senso che una legge formalmente ineccepibile può essere ritenuta moralmente o politicamente illegittima se l’autorità che l’ha emanata manca di autorevolezza o credibilità, o se i contenuti della decisione sono considerati scorretti (Perché il legislatore ha vietato lo smaltimento alle aziende manifatturiere e non anche a quelle tessili? Non è che si stanno facendo dei favoritismi?).
Un ultimo accenno merita infine la liceità intercorrente tra ambiente e attori sociali, in base alla quale i comportamenti sono considerati apprezzabili o riprovevoli sotto il profilo etico – morale del comune sentire. In effetti, molto spesso, una qualsiasi sanzione di tipo morale può costituire un valido strumento i cui effetti siano sufficientemente capaci di modificare un certo comportamento, pur in una versione “embrionale” di devianza. E’ il caso, ad esempio, del mancato conferimento dei rifiuti nei specifici contenitori all’uopo predisposti per la raccolta differenziata.
Le politiche pubbliche quale fonte legislativa per l’ambiente.
L’insieme degli interventi che vengono posti in essere tanto da autorità pubbliche, quanto da soggetti privati, volti a disciplinare quelle attività umane che riducono la disponibilità di risorse naturali o ne peggiorano la qualità e fruibilità, costituiscono per Lewanski[9] le azioni indirizzate ad evitare il deterioramento dell’ambiente, a ridurne l’entità o porre riparo a danni già verificatisi[10].
Tutti i provvedimenti adottati ai vari livelli di piccola, media e alta amministrazione, quindi non solo di environment governance, ma anche e principalmente di “produzione legislativa” rientrano appieno nella definizione appena fornita. A titolo esemplificativo, sul sito del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare[11] è riportato l’elenco dei S.I.N. (Siti d’interesse nazionale), siti soggetti a bonifica individuati con specifici provvedimenti normativi (ad esempio, il S.I.N. di Porto Marghera è stato individuato con L. 426/98).
Nelle politiche pubbliche, l’oggetto di analisi attiene ora al paesaggio, al patrimonio naturale e storico – culturale, all’assetto territoriale, ora all’ambiente quale elemento in grado di incidere sulla salute e sulla qualità della vita. Un chiara connessione pertanto di più “versioni” di ambiente inscindibili dai molteplici e vari elementi che valgono nel contempo a costituirlo e a caratterizzarlo”. Le politiche ambientali occupano pertanto un’area compresa, e sotto certi aspetti sovrapposta, tra salute, tutela dei beni culturali e assetto urbanistico – territoriale, con peculiarità chiaramente attinenti ai problemi ambientali.
Per poter dar vita e attuare una governance ambientale non può prescindersi dalla conoscenza tecnico – scientifica, necessaria per l’individuazione dei problemi e per la precisazione delle loro cause e dei possibili rimedi.
I problemi ambientali si caratterizzano per periodi di gestazioni generalmente molto lunghi rispetto ai tempi dei processi di policy. Si spiega cosi, e di questo occorre tenerne conto in sede di definizione delle politiche ambientali, il ritardo con cui si manifesta l’efficacia o meno di un provvedimento, di una norma o di un’azione, anche perché si registra spesso la determinatezza di un imminente scadenza elettorale nella fase di «fissazione dell’agenda» e «formulazione del programma»[12]. Da non trascurare sono poi le cd. «arene pubbliche», elaborate dal Hilgartner[13] e Bosk[14], nelle quali si registrerebbe «una competizione tra innumerevoli temi che domandano attenzione collettiva, quali problemi sociali, dei quali soltanto alcuni riescono tuttavia a conquistare il ruolo di arena pubblica[15]».
La selezione avviene sulla base di fattori istituzionali, politici e culturali, sicché appare evidente che in presenza di una disoccupazione altissima e di una scarsa crescita economica, la priorità difficilmente verrà dall’esecutivo riconosciuta all’ambiente ed ai suoi problemi.
Da un punto di vista strettamente giuridico, secondo Maddalena[16], «non tutto l’ambiente è considerato un bene, ma solo quella parte che è oggetto di interessi contrastanti». Partendo dalla constatazione che gli aerei non sono sempre esistiti, appare evidente che con altrettanta certezza, non è sempre esistita l’esigenza di disciplinare lo spazio aereo sovrastante gli stati nazionali. Di modo che, l’azione di tutela dell’ambiente ha iniziato a manifestarsi e conseguentemente ad espandersi dapprima nel momento in cui si è iniziata a registrare una scarsità di risorse utili e poi con la sempre maggiore riduzione della loro disponibilità (da qui anche i problemi oggetto della geopolitica[17], in cui l’ambiente è inevitabilmente entrato a pieno titolo). I beni ambientali non sempre vengono tutelati attraverso il ricorso a norme di difesa della proprietà, sia essa statale o privata. Rimangono talvolta «beni collettivi» identificabili come «interessi diffusi» in quanto condivisi da tutti gli appartenenti a una formazione sociale e non riconducibili a individui, enti od organizzazioni specifiche. In questo senso, il bene – ambiente è considerato come qualcosa che non appartiene né ai privati né allo stato come istituzione, ma allo stato come comunità, quindi all’insieme dei cittadini.
L’analisi delle politiche pubbliche avviene attraverso il «processo di policy» ovvero quel procedimento attraverso il quale si determina «una ricostruzione dei comportamenti dei vari attori intorno ad una determinata questione, nell’ipotesi che il gioco interattivo che ne risulta sia in grado di spiegare in buona parte gli esiti di un certo provvedimento[18]».
La scaletta procedimentalizzata è la seguente:
In campo ambientale, nella procedura supra descritta, è tutt’altro che irrilevante l’innovazione tecnologica, la quale tende a produrre una moltiplicazione delle cd. situazioni di «fatto compiuto», anche perché, come si è già avuto modo di evidenziare, l’innovazione procede molto più rapidamente rispetto alla regolamentazione, sicché è proprio quest’ultima quasi sempre, a sancire ciò che viene già da tempo praticato, piuttosto che disciplinarne gli sviluppi.
Il modello incrementale[20] e quello del bidone della spazzatura[21], elaborati rispettivamente da Lindblom e March e Olsen, sono quelli che meglio riescono ad applicarsi al campo ambientale[22].
Nel primo, ove il «campo decisionale si presenta popolato da attori partigiani che dipendono gli uni dagli altri per l’effettuazione di scelte pubbliche e che analizzano i problemi separatamente senza essere sottoposti a qualche forma di sovraordinato», l’obiettivo che s’intende perseguire è individuabile nell’accordo su una specifica combinazione di mezzi/fini, all’interno della quale, tra l’altro, sono i fini ad adattarsi ai mezzi disponibili.
Nel secondo, invece, ciò che determina il tutto, è rappresentato dalla casualità, «essendo la situazione non solo incerta, ma anche ambigua». Coloro che partecipano o sono interessati all’interno del bidone della spazzatura sono in cerca di problemi da risolvere e le soluzioni preesistono al problema stesso, poiché trovano espressione i riflessi di competenze, interessi e risorse organizzative di chi prende parte alla decisione.
L’entrata e l’uscita dall’arena decisionale avvengono sulla base delle modalità attraverso cui si opera la distribuzione delle energie tra impegni e problemi diversi, venendo modificate anche le preferenze nel corso del processo.
La decisione a cui si perviene è strettamente connessa «alla combinazione contingente di problemi, soluzioni, attori e opportunità di scelta».
Gli obiettivi delle politiche pubbliche in materia ambientale.
All’interno delle matrici delle politiche pubbliche in materia ambientale gli obiettivi sono certamente un elemento tutt’altro che trascurabile. Anzi, si potrebbe addirittura asserire che senza un obiettivo ben preciso, la policy non potrebbe venire ad esistenza.
Sebbene esistano in letteratura diverse classificazioni, quella più accreditata risulta quella di Lowi[23], secondo la quale esisterebbe la categoria delle politiche costituenti o costitutive, quella delle politiche distributive, quella delle politiche redistributive e quella delle politiche regolative (competitive e protettive).
Le politiche costitutive non si prefiggono di affrontare una specifica problematica, ma di «predisporre gli attrezzi istituzionali, organizzativi e procedurali necessari al trattamento dei problemi aventi rilevanza collettiva»; nonché di definire «le regole sui poteri o le regole sulle regole»; l’esempio più chiaro di redazione e applicazione di questa forma di politiche è quello che deriva dall’istituzione del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare.
Le politiche distributive sono individuabili come «le decisioni che assegnano benefici in forma esplicita ad una o più categorie di cittadini senza imputare in forma altrettanto esplicita i costi ad altre categorie». Si tratta di tipici trasferimenti e sussidi, differenziati per contenuti e destinatari, a volte indirizzati a piccoli gruppi, quindi politiche che presentano vantaggi tangibili e concentrati, e oneri occulti o diffusi su vasta scala.
Le politiche redistributive sono provvedimenti nei quali è registrabile un trasferimento diretto di risorse fra due o più gruppi sociali, di modo che si differenziano dalle precedenti per il semplice fatto di avere un’imputazione visibile dei costi, così comportando un’inevitabile opposizione da parte di chi è chiamato a sopportarli. In questo frangente, appare chiaro che se i costi sono concentrati, i benefici possono essere diffusi e goduti inconsapevolmente, anche ad esempio da categorie eterogenee di consumatori o risparmiatori; o ad adiuvandum, in presenza di benefici dilazionati nel tempo (miglioramento della qualità dell’aria).
Infine, le politiche regolative, considerato che indicano delle norme di comportamento valide per tutti i membri di una data categoria, «mirano, attraverso un sistema di regole, a determinare il comportamento dei singoli individui» e «non sono passibili di una disaggregazione praticamente illimitata come quelle distributive». In tale contesto si suole distinguerle sulla base di un presupposto di competitività ed un altro di protezione. Nella prima sub – categoria, rientrano quelle politiche orientate verso la regolazione di settori all’interno dei quali più soggetti operano per l’utilizzo (rectius: sfruttamento in senso economico) di una specifica risorsa. E’ il caso del settore/mercato delle radiofrequenze per la telefonia mobile. Nella seconda sub – categoria, ricadono, quelle norme che fissano quali parametri debbano essere rispettati dalle acque ai fini della potabilità. Il riciclaggio dei rifiuti persegue l’obiettivo del miglioramento dell’ambiente, tuttavia, è indubitabile che miri anche a stimolare la competitività tra le imprese addette al servizio di raccolta e smaltimento.
Non da ultimo, occorre richiamare la valenza simbolica, talvolta presente, delle politiche ambientali, con le quali «si fa credere che si agisce, anche se dietro a ciò si celano a volte misure concrete indirizzate a destinatari precisi». E’ il caso della reazione (senza tuttavia «affrontare il problema»), ai dati rilevati dalle centraline di monitoraggio dell’aria installate in varie zone della città da cui discendono le limitazioni del traffico urbano, nonché della contemporanea incentivazione all’acquisto di veicoli di ultima generazione. Molto spesso, nella prassi politica, non è difficile imbattersi in quelle che Baldi[24] definisce pseudo policies; politiche cioè la cui efficacia si presenta particolarmente deficitaria in quanto elaborate attraverso un processo di policy che non ha tenuto in considerazione adeguate conoscenze. Anche la disponibilità di risorse costituisce un elemento importante su cui impostare una policy, specie in un momento storico in cui gli attuali vincoli di bilancio comunitari hanno creato un vero e proprio sbarramento nei confronti dell’attuazione di politiche distributive o redistributive[25].
All’interno della presente analisi, devono trovare una collocazione, seppur sintetica, gli strumenti di policy in campo ambientale. Partendo dal «grado di discrezionalità» e dalla «natura regolativa e finanziaria» è possibile individuare le due dimensioni analitiche con cui vengono classificate le tipologie di strumenti. Caposaldo dell’analisi in questione è e rimane l’incidenza della componente regolativa su un qualsiasi provvedimento nel senso che per esso inevitabilmente si registrano degli effetti sui comportamenti dei destinatari, i quali a loro volta determinano delle conseguenze a livello di flussi finanziari.
Gli standard normativi o norme comando – controllo rientrano nella categoria degli strumenti regolativi a bassa discrezionalità per i destinatari, come ad esempio avviene con i limiti alle emissioni inquinanti. Siamo dinanzi a strumenti piuttosto antichi, risalenti agli anni ’60, nei quali il tipo di comando varia a seconda dei casi, dalla precisazione di tecnologie da adottare all’indicazione di obiettivi da raggiungere, lasciando al destinatario la scelta della soluzione tecnica da adottare. Molto spesso si fa riferimento al concetto di «migliore tecnologia disponibile» per indicare agli operatori l’applicazione che si vuole venga utilizzata: es. motori automobilistici con fissazione di limiti di emissione sempre più severi.
Accanto agli standard si collocano le procedure di analisi e decisione, per le quali, il solo citare la Valutazione di impatto ambientale od anche la Valutazione ambientale strategica, è sufficiente a comprenderne la portata. Vi sono ancora le disposizioni che «modificano le regole di responsabilità e assicurazione in modo da farne beneficiare l’ambiente» che vanno tuttavia cristallizzate in un quadro molto più complesso perché molte risorse ambientali non sono oggetto di proprietà, il che incide significativamente sull’interesse alla loro tutela e sugli strumenti giuridici disponibili. Si pensi alle norme che estendono la responsabilità del produttore all’intero ciclo di vita del prodotto e soprattutto alla direttiva europea 2004/35/CE sulla responsabilità per la prevenzione e riparazione del danno ambientale.
Per quanto riguarda le forme di regolazione di alta discrezionalità, appare sufficiente ricordare che esse si basano essenzialmente sul principio intrinseco alla possibilità, da parte dei destinatari, di decidere se aderire o meno a una specifica modalità di comportamento. Il tutto all’interno di una cornice proattiva e di governance.
Nel senso proattivo, l’attore economico vede le misure di tutela ambientale come opportunità piuttosto che come vincoli, certo dell’opportunità di trarre vantaggio, anche e soprattutto economico, dal miglioramento delle performance ambientali della propria impresa.
Nel senso, invece, della governance si parte dalla riscontrata necessità di dare spazio alla collaborazione tra autorità e parti sociali e all’autoregolazione di quest’ultime, sostenuta da ragioni ideologiche e dalla crescente complessità degli scenari di policy, sufficienti a rendere particolarmente difficili da una lato, una «regolamentazione puntuale» e dall’altro un «approccio amministrativo centralizzato»[26].
Completano il quadro analitico le politiche contrattualizzate, nel cui novero rientrano gli accordi tra imprese e governi, diffusesi in modo particolare negli anni ’80.
Secondo il politologo Luigi Bobbio, trattasi di «scelte pubbliche fondate sul consenso formalizzato delle parti interessate»[27] (enti pubblici od anche soggetti privati) che si ramificano ora nell’ordine pubblico, ora nello sviluppo economico fino alla fornitura di servizi. Varie aree nel più ampio terreno della policy.
In Italia, si sono sviluppate nella forma degli accordi di programma, delle conferenze di servizi, dei protocolli d’intesa, dei contratti d’area, dei patti territoriali, dei contratti di quartiere, etc.
Tali forme sono certamente rilevanti nel campo ambientale, significativamente identificabile con l’ambito del danno e della responsabilità ambientale.
Dall’analisi dei rapporti sullo stato dell’ambiente del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare emerge che mentre nei Paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti le politiche contrattualizzate hanno avuto un successo, in Italia il loro utilizzo è stato piuttosto limitato, il che fa ritenere che probabilmente alcuni aspetti di governance ambientale meritano una maggiore attenzione e studio da parte dei policy maker[28].
[1] G. L. Bulsei, Ricercatore confermato di Sociologia applicata – Area 14/D1 – Sociologia di processi economici, del lavoro, dell’ambiente e del territorio – Università degli studi Piemonte Orientale – http://www.lett.unipmn.it/docenti/bulsei/.
[2] G. Regonini – Dipartimento di scienze sociali e politiche – Facolta’ di Scienze Politiche, Economiche e Sociali – Universita’ degli Studi di Milano http://www.politichepubbliche.org/docente.html
[3] B. Dente, Le decisioni di policy, Come si prendono, come si studiano, Bologna, 2011.
[4] John Dewey (Burlington, 20 ottobre 1859 – New York, 1º giugno 1952) filosofo e pedagogista statunitense. È stato anche scrittore e professore universitario. Ha esercitato una profonda influenza sulla cultura, sul costume politico e sui sistemi educativi del proprio paese. Intervenne su questioni politiche, sociali, etiche, come il voto alle donne e sulla delicata questione dell’ingiusta condanna degli anarchici Sacco e Vanzetti – http://it.wikipedia.org/wiki/John_Dewey
[5] L. Pellizzoni, G. Osti, Op. cit. p. 227.
[6] G. Spaargaren professor of “Environmental Policy for Sustainable Lifestyles and Consumption” in the Environmental Policy Group at Wageningen University – https://www.wageningenur.nl/en/Persons/Gert-Spaargaren.htm.
[7] B. Latour, sociologo, antropologo e filosofo della scienza francese nato nel 1947 a Beaune, in Francia. Dopo aver lavorato come assistente presso il Conservatoire national des arts et métiers, e aver insegnato presso l’ École des mines de Paris, è dal settembre 2006 professore presso l’Institut d’études politiques di Parigi – http://www.bruno-latour.fr/.
[8] L. Pellizzoni, G. Osti, Op. cit. p. 229.
[9] Rodolfo Lewanski, professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna: http://www.unibo.it/SitoWebDocente/default.aspx?UPN=rodolfo.lewanski%40unibo.it
[10] L. Pellizzoni, G. Osti, Op. cit. p. 231.
[11] http://www.bonifiche.minambiente.it/
[12] L. Pellizzoni, G. Osti, Op. cit. p. 236.
[13]S. Hilgartner, Associate Professor Science & Technology Studies – Cornell University – http://sts.cornell.edu/people/shh6.cfm.
[14] C. L. Bosk, Professor of Sociology Professor of Anesthesiology and Critical Care, Perelman School of Medicine Senior Fellow, Leonard Davis Institute of Health Economics – University of Pennsylvania – https://sociology.sas.upenn.edu/c_bosk.
[15] L. Pellizzoni, G. Osti, Op. cit. p. 233.
[16] P. Maddalena, Il diritto all’ambiente e i diritti all’ambiente nella costruzione della teoria del risarcimento del danno pubblico ambientale, in Rivista giuridica dell’ambiente, 3, pp. 469 – 484.
[17] Il termine “geopolitica” fu coniato nel 1904 dal geografo svedese Rudolf Kjellen, anche se molti fanno cominciare la storia di questa disciplina già con Friedrich Ratzel, il geografo, antropologo ed etnologo tedesco che, proprio nel 1904, moriva. Lo studioso svedese, con “geopolitica”, si riferisce all’uso della conoscenza geografica per favorire gli obiettivi di Stati nazionali specifici. Per altri, la geopolitica nasce sì in quell’anno, ma grazie allo scritto di Sir Halford Mackinder, The Geographical Pivot of History.
[18] G.L. Bulsei, Ambiente e politiche pubbliche, Roma, 2005.
[19] L. Pellizzoni, G. Osti, Op. cit. p. 233.
[20] C. Lindblom, The Intelligence of democracy. Decision making through mutual adjustment, New York, Free Press.
[21] J.G. March, J.P. Olsen, Ambiguity and choice in organization, Bergen, Universitets-forlaget; trad. It. parziale. Scelta organizzativa in condizioni di ambiguità, in Logiche di azione organizzativa, a cura di S. Zan, Bologna, Il Mulino, pp. 303 – 318.
[22] Secondo Osti e Pellizzoni, «sembrano più adeguati a rappresentare quanto avviene nelle grandi organizzazioni pubbliche e private e nelle relazioni inter organizzative tipiche dei processi di policy. A titolo esemplificativo, si pensi alla pluralità di attori coinvolti nella fissazione di una soglia di emissioni inquinanti in atmosfera: politici, amministratori, associazioni di categoria, enti di controllo, ambientalisti, esperti. Ed alla necessità di mediare tra interessi differenti (le imprese che impiegano tecnologie obsolete tenderanno a osteggiare limiti molto stringenti, caldeggiati invece da quelle all’avanguardia) e alla difficoltà che ciascun attore può avere a precisare quali siano i propri stessi obiettivi (il governo: abbiamo fissato limiti ragionevoli? C’è il pericolo di mettere in crisi un intero settore economico? Un’impresa: mi conviene premere affinché il nuovo standard di emissione entri in vigore subito oppure tra due anni?)».
[23] T. Lowi, American business, public policy, case – studies and political theory, in World Politics. XVI, 4, pp. 677 – 715; trad. it. Politiche pubbliche, «case studies» e teoria politica, in Id., La scienza delle politiche, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 5 – 36.
[24] B. Baldi, professore associato confermato Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università di Bologna; autrice, tra l’altro, di Politica simbolica, in Dizionario di politiche pubbliche, a cura di G. Capano e M. Giuliani, Roma, pp. 336 – 341.
[25] L. Pellizzoni, G. Osti, Op. cit. p. 253.
[26] Ivi, p. 257.
[27] L. Bobbio, Le politiche contrattualizzate, in Il futuro delle politiche pubbliche, a cura di C. Donolo, Milano, Mondadori, pp. 59 – 79.
[28] S’intende chi ha il potere di elaborare e determinare orientamenti e strategie in merito alle questioni più rilevanti per la società e la politica – http://www.treccani.it/vocabolario/policy-maker_(Neologismi)/.
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