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Stefano Maglia

Lo “sblocca cantieri” blocca la trasformazione dei rifiuti in prodotti

di Paolo Pipere

Categoria: Rifiuti

Allo scadere delle autorizzazioni migliaia di impianti di recupero non potranno più svolgere la loro attività. A rischio il trattamento di tipologie di rifiuti decisive per il raggiungimento degli obiettivi fissati a livello europeo. Tra i casi più eclatanti gli imballaggi industriali e una parte dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

La modifica del comma 3 dell’articolo 184-ter del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, la disposizione che disciplina la cessazione della qualifica di rifiuto individuando le condizioni che devono essere soddisfatte per la trasformazione dei rifiuti in prodotti, operata con la conversione in legge del decreto “sblocca cantieri” (legge 14 giugno 2019, n. 55) non condurrà agli effetti sperati.

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La precedente versione del comma citato disponeva che:

«3. Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’art. 9-bis, lett. a) e b), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210».

La prima parte della norma disponeva che i criteri per verificare l’effettivo rispetto delle quattro condizioni per la cessazione della qualifica di rifiuto, in attesa della definizione di criteri con nuovi decreti ministeriali, fossero quelli contenuti nei tre decreti ministeriali sul recupero con procedure semplificate. La seconda parte della norma, tramite il richiamo all’art. 9-bis, lett. a), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, affermava il principio secondo il quale:

«a) fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 181-bis, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, le caratteristiche dei materiali di cui al citato comma 2 si considerano altresì conformi alle autorizzazioni rilasciate ai sensi degli articoli 208, 209 e 210 del medesimo decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59».

 

Il decreto di cui all’articolo 181-bis, a seguito della sostituzione del medesimo con l’art. 184-ter, è la stessa norma – o serie di norme – richiamata in apertura.

 

La seconda parte del comma 3 dell’art. 184-ter prevedeva anche che le autorizzazioni rilasciate dalle autorità competenti secondo criteri diversi da quelli previsti nei tre decreti ministeriali in precedenza ricordati e dai tre Regolamenti europei sull’and of waste potessero comunque contenere le prescrizioni necessarie a garantire la cessazione della qualifica di rifiuto. In particolare deve essere notato che la norma mirava ad assicurare che le caratteristiche dei materiali in uscita, i prodotti ottenuti dal ciclo di recupero, fossero esattamente quelle prescritte dall’autorizzazione dell’impianto.

 

L’emendamento, prevedendo che:

««3. Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi, quanto alle procedure semplificate per il recupero dei rifiuti, le disposizioni di cui al decreto del Ministro dell’ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario n. 72 alla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 16 aprile 1998, e ai regolamenti di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269» modifica la disposizione previgente confermando la possibilità di realizzare la cessazione della qualifica di rifiuto in impianti autorizzati con le “procedure semplificate” ed eliminando tale possibilità per gli impianti autorizzati con differenti, e molto più complesse e articolate, procedure.

La seconda parte del nuovo comma 3, reintroduce la possibilità eliminata al paragrafo precedente, ma prescrivendo che la cessazione della qualifica di rifiuto, negli impianti con autorizzazione ai sensi dell’art. 208 o con autorizzazione integrata ambientale, possa avvenire solo ed elusivamente nell’ambito dei criteri di dettaglio definiti dai tre decreti ministeriali che disciplinano le procedure semplificate di recupero:

«Le autorizzazioni di cui agli articoli 208, 209 e 211 e di cui al titolo III-bis della parte seconda del presente decreto per il recupero dei rifiuti sono concesse dalle autorità competenti sulla base dei criteri indicati nell’allegato 1, suballegato 1, al citato decreto 5 febbraio 1998, nell’allegato 1, suballegato 1, al citato regolamento di cui al decreto 12 giugno 2002, n. 161, e nell’allegato 1 al citato regolamento di cui al decreto 17 novembre 2005, n. 269, per i parametri ivi indicati relativi a tipologia, provenienza e caratteristiche dei rifiuti, attività di recupero e caratteristiche di quanto ottenuto da tale attività».

In attesa che con: “decreto non avente natura regolamentare del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare possono essere emanate linee guida per l’uniforme applicazione della presente disposizione sul territorio nazionale, con particolare riferimento alle verifiche sui rifiuti in ingresso nell’impianto in cui si svolgono tali operazioni e ai controlli da effettuare sugli oggetti e sulle sostanze che ne costituiscono il risultato, e tenendo comunque conto dei valori limite per le sostanze inquinanti e di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente e sulla salute umana” allo scadere delle autorizzazioni ordinarie e integrate ambientali gli impianti che operano su rifiuti diversi e ottenendo prodotti differenti non potranno più trasformare i rifiuti in prodotti.

La nuova norma impedirà, al momento del rinnovo dei titoli abilitativi, ai gestori di impianti autorizzati con le procedure più complesse e rigorose di realizzare l’end of waste per molte tipologie di rifiuti.

 

I decreti citati, ad esempio, non consentono la trasformazione del rifiuto in prodotto degli imballaggi industriali riutilizzabili contaminati da sostanze pericolose (perché si tratta di tipologie non contemplate dal D.M. 161/2002), generando quindi decine di migliaia di tonnellate di rifiuti che avrebbero potuto essere, come avviene da decenni, essere “bonificati” e utilizzati per molti successivi cicli d’uso.
Impossibile anche la preparazione per il riutilizzo o il riciclaggio di rifiuti di imballaggio metallici costituiti da “fusti, latte, vuoti, lattine di materiali ferrosi e non ferrosi e acciaio anche stagnato” se “etichettati come pericolosi ai sensi della legge 29 maggio 1974, n. 256, decreto del Presidente della Repubblica 24. 11, n. 927 e successive modifiche e integrazioni” perché, in questo caso, esclusi dall’ambito di applicazione del D.M. 5 febbraio 1998.

 

Identico destino, l’impossibilità di realizzare la preparazione per il riutilizzo o il riciclaggio, anche per tutti i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche classificati come pericolosi. Il D.M. 161/2002, infatti, non contempla fra le tipologie di rifiuti recuperabili i frigoriferi, i condizionatori e tutte le apparecchiature contenenti componenti pericolosi.

Sia per gli imballaggi sia per i RAEE vi sono però inderogabili obiettivi di riciclo da raggiungere fissati dalle direttive europee.

 

Una norma presentata come la soluzione del problema in realtà assesta un altro duro colpo all’industria del recupero, già in grave crisi, e pone le basi per altre procedure di infrazione. L’economia circolare, sempre evocata, resta un tema da convegno. Praticarla, in Italia, è sempre più difficile.

 

 

Piacenza, 24.06.2019

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