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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Negli ultimi anni l’opportunità data dalla possibilità di inquadramento di alcuni residui produttivi quali sottoprodotti (opportunità che viene ampiamente utilizzata in tanti Paesi europei e che costituisce uno dei pilastri dell’Economia Circolare) ha avuto una vita piuttosto tribolata nel nostro Paese, come dimostrano anche i tanti articoli pubblicati su www.tuttoambiente.it e le numerose sentenze della Corte di Cassazione (anche recentissime, in parte contradditorie e tendenzialmente assai restrittive) in materia.
Per far chiarezza sull’argomento, in quest’articolo andremo ad analizzarne la definizione e la normativa; prenderemo poi in considerazione le previsioni dettate dal D.M. 264/16 e dalle circolari ministeriali del 2017; ci soffermeremo sul tema controverso dell’intermediario del sottoprodotto; sottolineeremo l’importanza dell’onere probatorio e della documentazione a sostegno del corretto inquadramento dei sottoprodotti; toccheremo poi anche un tema spesso confuso, ovvero quello riguardante il rapporto tra sottoprodotti e SOA; concluderemo, infine, con i profili di rischio e responsabilità degli attori coinvolti nella gestione dei sottoprodotti.
Premessa
I sottoprodotti sono quegli scarti di produzione che possono essere gestiti come beni e non come rifiuti, se soddisfano tutte le condizioni previste dalla legge (art. 184-bis del D.L.vo 152/2006), con grandi vantaggi economici e gestionali.
Infatti le attività economiche che impiegano sottoprodotti in luogo di materie prime convenzionali non hanno la necessità di acquisire le autorizzazioni, indispensabili, invece, per gestire i rifiuti.
Ovviamente tutto ciò può comportare notevole risparmio di costi, ma solo se si osservano scrupolosamente tutte le seguenti condizioni:
la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto.
è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi.
la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale.
l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
Se manca anche una sola delle condizioni sopra elencate, lo scarto di produzione deve essere assoggettato alla disciplina dei rifiuti, pena il rischio di pesanti sanzioni.
Il D.M. 264/16
Oltre al D.L.vo 152/06, non si può non far riferimento al D.M. 264/16 che – come ho già avuto modo di scrivere più volte su www.tuttoambiente.it – si tratta di uno strumento non indispensabile, ma certamente utile agli operatori per comprendere come dimostrare il rispetto delle suddette condizioni, assicurando così una maggiore uniformità delle possibili interpretazioni, dal momento che, nella pratica, hanno suscitato diversi problemi applicativi.
Ma quali sono i punti essenziali e le criticità del D.M 264/16?
Il primo dubbio importante riguarda l’effettivo ambito di applicazione, nonché la relativa portata, del D.M. 264/16. Infatti stando a quanto dispone il comma 2 dell’art. 184-bis, il Decreto Ministeriale non potrebbe stabilire criteri generici applicabili a tutti i sottoprodotti, ma limitarsi a fornirli solo per alcune “specifiche tipologie di sostanze o oggetti”: il D.M. in commento, invece, ha un titolo generico (Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti) e il testo del dispositivo non fa alcun riferimento a particolari categorie, limitandosi a identificare come (condivisibile) finalità principale (art. 1) quella di “favorire ed agevolare l’utilizzo come sottoprodotti”: in realtà poi gli allegati (v. All. 1) concernono solo le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di biogas in impianti energetici o per la produzione di energia mediante combustione.
Quindi, la domanda che ci si deve porre è: il D.M. 264/2016 è applicabile a tutti i sottoprodotti o solo alle biomasse?
Innanzitutto si ribadisce quanto sopra anticipato, ovvero che si tratta di un provvedimento utile, ma non indispensabile (e ciò lo dimostra la lettera dell’art. 184-bis, c. 2: “… possono essere adottate …”). Ad avviso di chi scrive, si ritiene che il Decreto sia stato appositamente redatto affinché se dal 2 marzo 2017 un produttore genera delle biomasse residuali e le destina all’impiego per la produzione di biogas in impianti energetici o per la produzione di energia mediante combustione, allora da tale data deve – sostanzialmente – ottemperare alle previsioni del D.M.
Viceversa, per tutte le altre sostanze od oggetti (tranne terre e rocce, per le quali occorre fare riferimento al D.M. n. 161/2012 o all’art. 41-bis, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, nonché – in futuro – ad un nuovo D.P.R. in corso di emanazione) è certamente opportuno, anche se non indispensabile, rispettare i parametri del D.M. 264/16, perché dal 2 marzo 2017 gli organi di controllo faranno senz’altro riferimento a questo provvedimento nella loro attività di verifica, pur mantenendo ovviamente “in vita” la possibilità di dimostrare le quattro condizioni che fanno di uno scarto di produzione un sottoprodotto anche in altro modo.
Proseguendo nella disamina del provvedimento, si segnala l’art. 2, c. 1, lett. b), il quale definisce residuo di produzione “ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto”, con ciò confermando che il sottoprodotto deve scaturire da un processo produttivo (con conseguente esclusione, per esempio, del fresato d’asfalto).
Il successivo art. 3 ribadisce due aspetti fondamentali: il Decreto non si applica “ai residui derivanti da attività di consumo” (c. 1, lett. c) e “restano ferme le disposizioni speciali adottate per la gestione di specifiche tipologie e categorie di residui, tra cui le norme in materia di gestione delle terre e rocce da scavo” (c. 2), confermando la riserva di legge in materia di terre e rocce da scavo.
L’art. 4 sottolinea, poi, l’importanza di dare dimostrazione del soddisfacimento dei requisiti di legge ed al c. 2 propone alcune modalità con le quali provare la sussistenza delle circostanze, “fatta salva la possibilità di dimostrare, con ogni mezzo ed anche con modalità e con riferimento a sostanze ed oggetti diversi da quelli precisati nel presente decreto, o che soddisfano criteri differenti, che una sostanza o un oggetto derivante da un ciclo di produzione non è un rifiuto, ma un sottoprodotto”. È, quindi, evidente che c’è ancora la libertà di fornire altre prove e dimostrazioni.
Si segnala quanto previsto al c. 3, ovvero che il produttore e l’utilizzatore del sottoprodotto si iscrivono (obbligo?) in un apposito elenco pubblico istituito presso le Camere di commercio territorialmente competenti. Si ritiene che questa previsione costituisca una criticità che merita di essere segnalata, in parte perché non si ravvisa la necessità di un tale elenco ed in parte perché le Camere di commercio non sono ovviamente affatto preparate a questa gestione.
Si concorda, da ultimo, sulla previsione del c. 4, ovvero sull’obbligo di conservazione della documentazione per tre anni, nonché sulla loro messa a disposizione all’autorità di controllo.
L’art. 5 è interamente dedicato alla certezza dell’utilizzo: come si dimostra? La norma sottolinea come “il requisito della certezza dell’utilizzo è dimostrato dal momento della produzione del residuo fino al momento dell’impiego dello stesso”. In questa sede il testo fa riferimento al “produttore” ed al “detentore”: chi sarebbe il detentore? Forse l’utilizzatore? La sua figura non è precisata nell’art. 2 (definizioni).
Non solo: proseguendo nella lettura del c. 1 dell’art. 5 si parla di “sistema di gestione”. Che cosa sarebbe? Che funzione riveste? Forse quella di garantire il flusso di tracciabilità del sottoprodotto?
Anche in questo caso la norma è poco chiara.
Il c. 4 dell’art. 5 afferma che “costituisce elemento di prova l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari e gli utilizzatori” e in questo caso non si può non citare la Comunicazione della Commissione al Consiglio ed al Parlamento Europeo relativa alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti del 21 febbraio 2007: già allora, infatti, l’anzidetta Comunicazione dava atto di come “l’esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi può indicare che il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che quindi vi è certezza del riutilizzo”.
Si segnala un ulteriore elemento di criticità: chi è l’intermediario del sottoprodotto? Premesso che non va confuso con l’intermediario di rifiuti, si potrebbe supporre che sia una figura che agevola l’incontro tra produttore ed utilizzatore dei residui di produzione (anche se l’art. 2 inerente le definizioni non ne fa cenno).
Al c. 5 dell’art. 5 si dà la possibilità che, in mancanza dei contratti sopraccitati, il requisito della certezza dell’utilizzo e l’intenzione di non disfarsi dei residuo possano essere dimostrati mediante la predisposizione di una “scheda tecnica” contenente le informazioni di cui all’All. 2 (estremamente generica). Il problema è che questa scheda tecnica deve essere numerata, vidimata e gestita con la modalità dei registri IVA dalle Camere di Commercio territorialmente competenti: ma come? Questa previsione rappresenta un evidente passo indietro rispetto alla dichiarata libertà di gestione dei sottoprodotti.
Importante segnalare quanto disposto dall’art. 6 in materia di normale pratica industriale. La norma, infatti, elenca che cosa è normale pratica industriale e che cosa non lo è, insistendo sulle caratteristiche ambientali connesse all’ultimo requisito di cui all’art. 184-bis. La formulazione letterale è poco chiara e ridondante, tanto che ripete per ben tre volte “ambientali”, “ambiente” e ancora “ambiente” nello stesso periodo.
Mentre l’art. 7 ritorna ancora sulla scheda tecnica, l’art. 8 disciplina in materia di deposito e movimentazione del sottoprodotto. Fermo restando che rifiuti e sottoprodotti devono essere tenuti separati tra loro, si concorda sul fatto che fino all’effettivo utilizzo, il sottoprodotto deve essere depositato e movimentato nel rispetto di specifiche norme tecniche (se disponibili), evitando spandimenti accidentali, contaminazione delle matrici ambientali e prevenendo o minimizzando la formazione di emissioni diffuse e la diffusione di odori.
Corre l’obbligo di segnalare quanto previsto dal c. 4, ovvero che “la responsabilità del produttore o del cessionario in relazione alla gestione del sottoprodotto è limitata alle fasi precedenti alla consegna dello stesso all’utilizzatore o a un intermediario”. Ma come può considerarsi terminata la responsabilità del produttore con la consegna del sottoprodotto all’intermediario? Significa che quest’ultimo ne ha la detenzione? Come si concilia questa previsione con l’utilizzo diretto (“utilizzato direttamente”), previsto dal requisito normativo?
L’art. 9 si sofferma brevemente sui controlli e le ispezioni, mentre l’art. 10 ribadisce l’onere a carico delle Camere di Commercio di istituire una piattaforma di scambio tra domanda e offerta. Da ultimo, premesso che l’art. 1, c. 4 non esiste nel provvedimento (!), l’art. 11 rammenta che il Decreto è comunicato alla Commissione europea secondo la procedura di informazione comunitaria prevista dalla Dir. 2015/1535.
In conclusione, pertanto, si ritiene che il D.M. 264 sia senz’altro uno strumento utile per muovere una situazione ferma da anni, ma che sia un provvedimento a rischio di bocciatura a livello europeo troppo “di dettaglio” nei confronti di un istituto che potrebbe essere sì un minimo regolamentato per favorirne l’utilizzo, ma non ulteriormente imbrigliato!
Le circolari ministeriali
Successivamente all’emanazione del D.M. 264/16, il Ministero dell’Ambiente è intervenuto per fornire una serie di chiarimenti aventi, peraltro, valore meramente interpretativo del testo del decreto – perché né il D.M., né tantomeno le Circolari possono prevalere sul testo dell’art. 184-bis del D.L.vo 152/06.
Con la Circolare n. 3084 del 3 marzo 2017 (emanata il giorno successivo all’entrata in vigore del Decreto) il Ministero si è espresso in merito alla natura ed alle funzioni dell’elenco pubblico dei produttori ed utilizzatori di sottoprodotti da istituire presso le Camere di Commercio, osservando come “tale disposizione non introduca un requisito abilitante per i produttori e gli utilizzatori di sottoprodotti, ma preveda la realizzazione di un elenco contenente le generalità degli operatori interessati a cedere o acquistare residui produttivi da impiegare, utilmente e legalmente, nell’ambito della propria attività, con finalità conoscitiva e di mera facilitazione degli scambi”.
Infatti, “la qualifica di un materiale come sottoprodotto, dunque non rifiuto, prescinde dalla iscrizione del produttore o dell’utilizzatore nel suddetto elenco, essendo di carattere oggettivo e legata alla dimostrazione della sussistenza dei requisiti richiesti dall’articolo 184-bis”.
Pertanto, conclude il Ministero, “la mancata iscrizione non comporta l’immediata inclusione del residuo nel novero dei rifiuti”: invero, “la possibilità di gestire un residuo quale sottoprodotto e non come rifiuto, dunque, non dipende in alcun modo, né in positivo, né in negativo, dalla esistenza della documentazione probatoria prevista nel decreto né, tantomeno, dalla iscrizione nell’elenco”.
A distanza di due mesi dalla Circ. n. 3084/2017, con la successiva Circolare n. 7619 del 30 maggio 2017 il Ministero si è espresso in maniera generica e contraddittoria su tutto il testo del decreto, sempre premettendo che esso “non innova in alcun modo la disciplina sostanziale generale del settore” e che “se un residuo andrà considerato sottoprodotto o meno dipenderà, dunque, esclusivamente dalla sussistenza delle condizioni di legge sopra richiamate [art. 184-bis]”.
In merito al requisito della certezza dell’utilizzo, il par. 4 della circolare ribadisce che la qualifica di sottoprodotto non potrà mai essere acquisita in un tempo successivo alla generazione del residuo, non potendo un materiale qualificato come rifiuto divenire sottoprodotto.
Nella specie, gli strumenti probatori indicati dal decreto sono la documentazione contrattuale e la scheda tecnica. Il par. 5 della Circolare precisa che “il primo requisito della cui sussistenza si può formare la prova tramite il concorso della documentazione contrattuale, ovviamente, è quello della certezza dell’utilizzo”.
Poi, “la possibilità di fornire la prova della sussistenza degli altri requisiti tramite tale documentazione dipenderà dallo specifico contenuto di quest’ultima”, mentre “tramite la scheda tecnica, invece, gli operatori potranno fornire la dimostrazione della sussistenza di tutti i requisiti di cui all’articolo 184-bis, comma 1. È, dunque, ben possibile che anche chi dispone di una documentazione contrattuale si giovi della sua compilazione”.
Con riferimento alla «Dichiarazione di conformità», si evidenzia come questa debba essere compilata in caso di cessione del sottoprodotto per assicurare la conformità dello stesso ai requisiti richiesti dalla legge ed alla scheda tecnica, della quale è necessario indicare gli estremi di riferimento.
E’ evidente il rapporto di sussidiarietà esistente tra questi due elementi: la documentazione contrattuale è idonea a supportare la dimostrazione della certezza dell’utilizzo, mentre la scheda tecnica risulta utile ad “identificare i soggetti che intervengono nell’ambito della gestione del sottoprodotto (produttore, utilizzatore ed eventuali intermediari), di descrivere il processo di produzione da cui origina il sottoprodotto, nonché le specifiche tecniche del materiale che deve essere impiegato e le modalità di gestione dello stesso, fino all’utilizzo”.
L’importanza della documentazione contrattuale è ben evidente se si considera che ad avviso del Ministero la prova della certezza dell’utilizzo “è legata alla circostanza secondo la quale, sin dal momento della produzione, l’attività o l’impianto in cui il residuo deve essere utilizzato sia già individuato, ovvero, quanto meno, che sia individuabile in considerazione delle specifiche caratteristiche possedute del materiale che ne rendono compatibile l’impiego in determinati cicli produttivi”.
Sempre secondo le indicazioni del Ministero, non sono ammessi dubbi circa “la tipologia di impianto o di attività in cui il residuo può essere e sarà impiegato in considerazione delle sue caratteristiche tecniche, e sulla circostanza che, in virtù di queste caratteristiche, l’impiego è possibile in quei determinati tipi di impianti o attività senza il ricorso a trattamenti diversi dalla normale pratica industriale”. Tuttavia, al parag. 6.3.VI si ipotizza il caso in cui, al momento della produzione del residuo, non sia ancora immediatamente noto il soggetto responsabile dell’impiego dello stesso.
In questa circostanza, è senz’altro particolarmente raccomandata all’operatore la compilazione della scheda tecnica, avendo cura di indicare con esattezza anche i tempi e le modalità di deposito, nelle more dell’utilizzo, in quanto tali elementi potrebbero risultare condizionanti o anche pregiudizievoli rispetto all’effettivo impiego dell’oggetto o della sostanza.
In tale ipotesi, non risulta possibile (e, quindi, non è necessario) compilare anche la parte della scheda con l’indicazione del nominativo del destinatario. In particolare, nell’ipotesi in cui all’atto della produzione del residuo non fosse immediatamente identificato il destinatario del sottoprodotto, non potendo essere indicato con esattezza l’impianto di utilizzo, dovranno essere inserite le informazioni relative all’attività o al settore di destinazione, considerate le specifiche tecniche del residuo, che lo rendono idoneo a determinati utilizzi.
In ordine al deposito del sottoprodotto va chiarito che la gestione e la movimentazione dello stesso, dalla produzione fino all’impiego del medesimo, devono essere realizzate in modo da assicurare – oltre all’assenza di rischi ambientali o sanitari – il mantenimento delle caratteristiche del residuo necessarie a consentirne l’impiego.
Per tali ragioni, deve essere sempre garantita la congruità delle tempistiche e delle modalità di gestione, che devono essere funzionali all’utilizzo dei materiali nel periodo più idoneo allo stesso e non devono incidere negativamente sulla qualità e funzionalità dei materiali medesimi ai fini dello specifico impiego previsto.
La scheda tecnica deve, quindi, indicare, tra l’altro, il tempo massimo previsto per il deposito, decorso il quale si presume che possano essere pregiudicate le caratteristiche merceologiche o di funzionalità necessarie per l’impiego previsto. Se dovesse decorrere il tempo massimo di deposito indicato nella scheda tecnica per il deposito senza che la sostanza o l’oggetto sia stato utilizzato questi perderanno la qualifica di sottoprodotto e dal giorno successivo alla scadenza del termine massimo devono essere gestiti come rifiuti, oppure sarà necessario compilare una nuova scheda tecnica, nel caso in cui il residuo presenti ancora le caratteristiche per poter essere qualificato come sottoprodotto, eventualmente destinato ad un impiego differente da quello in origine previsto.
Con riferimento alla fase di trasporto, il decreto non contempla documentazione diversa da quella ordinariamente impiegata per il trasporto delle merci.
Relativamente, invece, al concetto di normale pratica industriale, il Ministero ha osservato che tale requisito “risponde alla duplice esigenza da un lato di tener conto che il bisogno di un trattamento preliminare prima della utilizzazione di un residuo può segnalare il fatto di trovarsi dinanzi ad un rifiuto e, dall’altro, di considerare che anche le materie prime talvolta necessitano di essere lavorate prima del loro impiego nel processo produttivo (Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste, cit., par. 1.2.4)”.
Al fine della prova della riconducibilità dell’operazione alla normale pratica industriale, prosegue la circolare al par. 6.4, l’operatore potrebbe dimostrare, ad esempio, che: – il trattamento non incide o non fa perdere al materiale la sua identità, le caratteristiche merceologiche, o la qualità ambientale, non determina un mutamento strutturale delle componenti chimico-fisiche della sostanza o una sua trasformazione radicale (questo stride con la ratio europea); – il trattamento corrisponde a quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale il materiale viene utilizzato ed in particolare a quelli ordinariamente effettuati sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire.
L’intermediario del sottoprodotto
A differenza della figura dell’intermediario della gestione dei rifiuti, quella dell’intermediario del sottoprodotto non è normata.
Essa è semplicemente sfiorata in un paio di disposizioni ministeriali, ma non si rinviene una vera e propria disciplina dedicata a questo soggetto.
Come già anticipato poco sopra, il D.L.vo 152/06 non ne fa cenno (e nemmeno la Dir. 98/08) e pertanto l’unico provvedimento ad occuparsene è il D.M. 264/16 (e di conseguenza la Circ. Min. 7619/17) nei seguenti articoli: • art. 5, c. 4: “ai fini di cui al comma 3, costituisce elemento di prova l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari e gli utilizzatori, dai quali si evincano le informazioni relative alle caratteristiche tecniche dei sottoprodotti, alle relative modalità di utilizzo e alle condizioni della cessione che devono risultare vantaggiose e assicurare la produzione di una utilità economica o di altro tipo”; • art. 8, c. 4: “la responsabilità del produttore o del cessionario in relazione alla gestione del sottoprodotto è limitata alle fasi precedenti alla consegna dello stesso all’utilizzatore o a un intermediario”; • Scheda tecnica e dichiarazione di conformità: “la scheda tecnica e la dichiarazione di conformità di cui agli articoli 5 e 7 del presente decreto devono contenere le seguenti informazioni: … Riferimenti di eventuali intermediari”.
Ora, pur non esistendo un’esplicita definizione normativa di questa figura, si ritiene ragionevole considerare l’intermediario del sottoprodotto quale mero partner aziendale terzo esterno, al pari di un procacciatore d’affari, che mette in relazione il produttore (venditore) e l’utilizzatore (acquirente), senza un formale rapporto di dipendenza o rappresentanza con le parti coinvolte.
In altre parole, questo soggetto rivestirebbe il ruolo di un referente aziendale esterno che, non acquisendo (cautelativamente) la detenzione del sottoprodotto, realizzerebbe solo l’incontro tra produttori e destinatari idonei a ricevere il materiale ed a perfezionare così il contratto.
E’ vero che sia l’art. 8 del D.M. 264/16, sia la Circ. n. 7619/17 parrebbero ipotizzare anche questa opzione, ma è da ritenersi assolutamente da evitare in quanto contraria alla legge ed alla interpretazione della giurisprudenza.
L’intermediario dei sottoprodotti, in alcuni casi, potrebbe diventare il primo interlocutore per realizzare accordi commerciali continuativi, contribuendo sotto il profilo probatorio a dimostrare l’esistenza di contratti commerciali, nonché di un mercato per quel residuo.
Dal momento che il Decreto sembrerebbe ammettere la consegna del sottoprodotto all’intermediario (ma non la Dir. 2008/98 né il D.L.vo 152/06), non si può non riconoscere l’utilità di questa figura che mette in contatto chi produce il sottoprodotto con chi lo utilizza.
Tuttavia, a che risulti, solo in un caso la giurisprudenza si è pronunciata al riguardo: la Corte di Cassazione Penale, sez. VII, con l’ordinanza n. 50628 del 16 dicembre 2019 ha affermato che se è vero che l’esistenza di rapporti contrattuali tra il produttore del residuo ed “eventuali” intermediari ed “utilizzatori” rilevano in termini di prova sulla certezza dell’utilizzo, il mero richiamo all’esistenza di tali rapporti non può però essere sufficiente a soddisfare le verifiche richieste, necessitando che dalla documentazione citata possano con certezza evincersi le caratteristiche tecniche dei prodotti, l’esistenza di condizioni che giustifichino la vantaggiosità della cessione, e via dicendo.
Tale dimostrazione specifica richiede anche l’osservanza dell’art. 6 del D.M. 264/16 per quanto attiene alla “normale pratica industriale” cui fa riferimento l’art. 184 bis lett. c) che contempla specifiche verifiche sui requisiti dei prodotti e sull’impatto ambientale derivante dai processi di trasformazione.
L’onere probatorio e la documentazione
L’onere della prova della sussistenza delle condizioni in capo a colui che voglia utilizzare il sottoprodotto.
In particolare, come evidenziato anche dalla giurisprudenza più volte citata, è consigliabile – cautelativamente – predisporre “una precisa documentazione di natura tecnica, che verta sulle caratteristiche del ciclo di produzione, sul successivo reimpiego ed eventuali successivi trattamenti, sulla presenza di caratteristiche idonee a soddisfare tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e l’assenza di impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana” (Cass. Pen. Sez. III n. 38590 del 7 agosto 2017).
Si consiglia, pertanto, la predisposizione di un vero e proprio dossier[1], da inviare in copia agli Enti competenti (o almeno segnalarne l’esistenza via PEC) affinché abbiano preventiva contezza della gestione degli scarti e da esibire in caso di verifica da parte degli organi di controllo, e che permetta loro di comprendere agevolmente il flusso di gestione dei sottoprodotti di cui al quesito.
Ovviamente si tratta di consigli di carattere cautelativo, ma che si ritengono essenziali in una materia delicata e rischiosa come questa, ove è assai labile il confine “rifiuto – non rifiuto”.
Sottoprodotti e SOA
A livello comunitario, i sottoprodotti di origine animale trovano disciplina nel Regolamento (CE) n. 1069/2009[1] e nel relativo regolamento attuativo (UE) n. 142/2011[2].
In particolare, il Regolamento 1069/2009 stabilisce norme sanitarie e di polizia sanitaria relative ai sottoprodotti di origine animale (ossia “corpi interi o parti di animali, prodotti di origine animale o altri prodotti ottenuti da animali, non destinati al consumo umano”, c.d. SOA) e ai prodotti derivati (ossia “prodotti ottenuti attraverso uno o più trattamenti, trasformazioni o fasi di lavorazione di sottoprodotti di origine animale”), finalizzate a evitare o ridurre al minimo i rischi per la salute pubblica e degli animali e garantire la sicurezza della catena alimentare e dei mangimi.
I SOA sono classificati in tre categorie a seconda del livello di rischio per la salute pubblica e degli animali – in conformità degli elenchi di cui agli articoli 8, 9 e 10 – e tali categorie determinano il modo in cui dovrebbero essere smaltiti o recuperati.
In considerazione del fatto che nella maggioranza dei casi si pongono dubbi e questioni relativamente al alcune specifiche tipologie di SOA, esigenze di sintesi impongono di concentrare la trattazione sulla categoria 3[3], e precisamente sulla tipologia descritta alla lett. f) dell’art. 10 corrispondente a “prodotti di origine animale o prodotti alimentari contenenti prodotti di origine animale, i quali non sono più destinati al consumo umano per motivi commerciali o a causa di problemi di fabbricazione o difetti di condizionamento o altri difetti che non presentano rischi per la salute pubblica o degli animali”.
Il quadro normativo sopra descritto si completa con il Regolamento (UE) n. 142/2011 che stabilisce le misure di attuazione per le norme sanitarie e di polizia sanitaria relative ai SOA e ai prodotti da essi derivati di cui al regolamento 1069/2009, e per le norme relative a taluni campioni e articoli non sottoposti a controlli veterinari ai posti d’ispezione frontalieri.
In ordine all’applicazione della disciplina ambientale è fondamentale, a livello nazionale, richiamare l’art. 185 del D.L.vo 152/06. Tale norma, rubricata “Esclusioni dall’ambito di applicazione”, come sostituita dall’art. 13 del D.L.vo 205/10[4], espressamente esclude dal campo di applicazione della Parte Quarta del citato D.L.vo 152/06 “in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento … b) i sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, contemplati dal regolamento (CE) n. 1774/2002[5], eccetto quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio”.
Dal punto di vista normativo, quindi, i SOA, compresi i prodotti trasformati, rientrano nel campo di applicazione della Parte Quarta del D.L.vo 152/06 (“Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati”) solo se destinati allo smaltimento per incenerimento o in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o compostaggio.
Tuttavia, è bene precisare, sotto i profili ambientali, che l’inclusione nella disciplina di cui alla Parte IV del D.L.vo 152/06 non vuol dire automaticamente che i materiali siano riconducibili al novero dei rifiuti, in quanto nella stessa Parte IV si ritrovano regolamentati anche i “sottoprodotti”. In tal caso, occorrerà allora verificare se quei sottoprodotti di origine animale abbiano tutti quei requisiti richiesti dall’art. 184 bis del D.L.vo 152/06.
In caso contrario i sottoprodotti di origine animale saranno a tutti gli effetti dei rifiuti e troveranno la loro regolamentazione nella Parte IV del D.L.vo 152/06 e saranno soggetti a tutti quegli obblighi che la medesima disciplina prescrive per la loro gestione.
Nella regolazione dei SOA, dunque, coesistono due discipline concorrenti, una sanitaria ed una ambientale, quest’ultima applicabile allorquando i SOA siano “destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio”.
In definitiva, quindi, la qualifica di un materiale come sottoprodotto di origine animale ai sensi del reg. (CE) n. 1069/2009 non esclude a priori che lo stesso materiale possa essere qualificato altresì come rifiuto o come sottoprodotto ex art. 184 bis D.L.vo 152/06 e sia, di conseguenza, sottoposto all’applicazione della pertinente normativa.
Profili di rischio e responsabilità
È bene premettere che nel caso in cui vengano meno i requisiti per la qualifica di un materiale come sottoprodotto o – ancor meglio – possano rimanere dubbi nel caso di verifiche e/o controlli, la responsabilità della gestione del residuo come rifiuto (non più sottoprodotto) ricade sul soggetto che si trova in possesso del medesimo immediatamente prima che diventi rifiuto. Ogni soggetto che interviene lungo la filiera di gestione del sottoprodotto è inoltre tenuto alla dimostrazione dei requisiti richiesti che rendono tale il residuo, limitatamente a quanto sia nella propria disponibilità e conoscenza, non essendo applicabile l’estensione dell’onere della prova rispetto a parti della filiera su cui il soggetto non ha poteri di verifica e controllo.
Il D.M. 264/2016 più volte richiamato, prevede, infatti, all’art. 8, c. 4, che “la responsabilità del produttore o del cessionario in relazione alla gestione del sottoprodotto è limitata alle fasi precedenti alla consegna dello stesso all’utilizzatore o a un intermediario”. Conseguentemente, in caso di perdita dei requisiti sostanziali per la qualifica del residuo come sottoprodotto, viene meno la responsabilità dei detentori precedenti rispetto ad eventi sopravvenuti e indipendenti dalla loro volontà ed attività.
Pertanto, l’utilizzo dei residui come sottoprodotti in assenza del rispetto dei requisiti normativi fa sì che si applichi la normativa sui rifiuti di cui alla Parte IV del D.L.vo 152/06, ed in particolare quella sanzionatoria (due reati): art. 256– attività di gestione di rifiuti non autorizzata[6] (per chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione) e art. 452–quaterdecies del Codice penale–attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti[7](ex art. 260 D.L.vo 152/06) – qualora sia provato che le parti si siano accordate per gestire dei residui come sottoprodotti senza che ne avessero i requisiti.
A tal proposito, si rammenta che entrambi questi illeciti costituiscono anche reati presupposto con riferimento all’applicazione del D.L.vo 231/01[8].
Conclusioni
Poiché quello dei sottoprodotti è un regime derogatorio rispetto a quello ordinario (dei rifiuti), fin tanto che il produttore non riuscirà a smarcare tutti i requisiti e a sostenere il flusso produttivo con adeguata documentazione a sostegno, non sarà possibile concludere a favore dell’inquadramento effettivo dei residui di produzione quali sottoprodotti ai sensi dell’art. 184-bis.
Se così non fosse, quindi, i materiali dovranno essere classificati e gestiti come rifiuti in conformità alle disposizioni contenute nella Parte IV del D.L.vo 152/06.
Pertanto si consiglia vivamente di ottemperare il più possibile a quanto prevede la normativa vigente, perché la qualifica dei residui come sottoprodotti, laddove possibile, sarebbe sicuramente vista con favore alla luce dei principi della c.d. Economia Circolare, che incentivano le attività di riutilizzo degli scarti di produzione, come evidenziato dallo stesso PNRR.
[1]Regolamento (CE) n. 1069/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 ottobre 2009, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale e ai prodotti derivati non destinati al consumo umano e che abroga il regolamento (CE) n. 1774/2002. Pubblicato sulla gazzetta Ufficiale UE L 300 del 14 novembre 2009, in vigore dal 4 dicembre 2009 ed applicato a decorrere dal 4 marzo 2011.
[2]Regolamento (UE) n. 142/2011 della Commissione, del 25 febbraio 2011, recante disposizioni di applicazione del regolamento (CE) n. 1069/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale e ai prodotti derivati non destinati al consumo umano, e della direttiva 97/78/CE del Consiglio per quanto riguarda taluni campioni e articoli non sottoposti a controlli veterinari alla frontiera, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 54 del 26 febbraio 2011, si applica dal 4 marzo 2011.
[3] La Categoria 3 ha ad oggetto SOA il cui rischio sanitario è minore o addirittura nullo.
[4]Decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 288 del 10 dicembre 2010 – Suppl. Ordinario n. 269, in vigore dal 25 dicembre 2010
[5] I riferimenti al regolamento (CE) n. 1774/2002 si intendono oggi riferiti al vigente Reg. 1069/2009.
[6] Art. 256 (Attività di gestione di rifiuti non autorizzata)
“1. Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 è punito:
a) con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi;
b) con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi”.
“Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni.
Se si tratta di rifiuti ad alta radioattività si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.
Alla condanna conseguono le pene accessorie di cui agli articoli 28, 30, 32 bis e 32 ter, con la limitazione di cui all’articolo 33.
Il giudice, con la sentenza di condanna o con quella emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente.
È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca”.
[8]Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica.
Pubblicata in G.U. n. 140 del 19 giugno 2001 ed in vigore dal 4 luglio 2001.
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Sottoprodotti: definizione, gestione, vantaggi, criticità, esempi
di Stefano Maglia
Negli ultimi anni l’opportunità data dalla possibilità di inquadramento di alcuni residui produttivi quali sottoprodotti (opportunità che viene ampiamente utilizzata in tanti Paesi europei e che costituisce uno dei pilastri dell’Economia Circolare) ha avuto una vita piuttosto tribolata nel nostro Paese, come dimostrano anche i tanti articoli pubblicati su www.tuttoambiente.it e le numerose sentenze della Corte di Cassazione (anche recentissime, in parte contradditorie e tendenzialmente assai restrittive) in materia.
Per far chiarezza sull’argomento, in quest’articolo andremo ad analizzarne la definizione e la normativa; prenderemo poi in considerazione le previsioni dettate dal D.M. 264/16 e dalle circolari ministeriali del 2017; ci soffermeremo sul tema controverso dell’intermediario del sottoprodotto; sottolineeremo l’importanza dell’onere probatorio e della documentazione a sostegno del corretto inquadramento dei sottoprodotti; toccheremo poi anche un tema spesso confuso, ovvero quello riguardante il rapporto tra sottoprodotti e SOA; concluderemo, infine, con i profili di rischio e responsabilità degli attori coinvolti nella gestione dei sottoprodotti.
Premessa
I sottoprodotti sono quegli scarti di produzione che possono essere gestiti come beni e non come rifiuti, se soddisfano tutte le condizioni previste dalla legge (art. 184-bis del D.L.vo 152/2006), con grandi vantaggi economici e gestionali.
Infatti le attività economiche che impiegano sottoprodotti in luogo di materie prime convenzionali non hanno la necessità di acquisire le autorizzazioni, indispensabili, invece, per gestire i rifiuti.
Ovviamente tutto ciò può comportare notevole risparmio di costi, ma solo se si osservano scrupolosamente tutte le seguenti condizioni:
Se manca anche una sola delle condizioni sopra elencate, lo scarto di produzione deve essere assoggettato alla disciplina dei rifiuti, pena il rischio di pesanti sanzioni.
Il D.M. 264/16
Oltre al D.L.vo 152/06, non si può non far riferimento al D.M. 264/16 che – come ho già avuto modo di scrivere più volte su www.tuttoambiente.it – si tratta di uno strumento non indispensabile, ma certamente utile agli operatori per comprendere come dimostrare il rispetto delle suddette condizioni, assicurando così una maggiore uniformità delle possibili interpretazioni, dal momento che, nella pratica, hanno suscitato diversi problemi applicativi.
Ma quali sono i punti essenziali e le criticità del D.M 264/16?
Il primo dubbio importante riguarda l’effettivo ambito di applicazione, nonché la relativa portata, del D.M. 264/16.
Infatti stando a quanto dispone il comma 2 dell’art. 184-bis, il Decreto Ministeriale non potrebbe stabilire criteri generici applicabili a tutti i sottoprodotti, ma limitarsi a fornirli solo per alcune “specifiche tipologie di sostanze o oggetti”: il D.M. in commento, invece, ha un titolo generico (Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti) e il testo del dispositivo non fa alcun riferimento a particolari categorie, limitandosi a identificare come (condivisibile) finalità principale (art. 1) quella di “favorire ed agevolare l’utilizzo come sottoprodotti”: in realtà poi gli allegati (v. All. 1) concernono solo le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di biogas in impianti energetici o per la produzione di energia mediante combustione.
Quindi, la domanda che ci si deve porre è: il D.M. 264/2016 è applicabile a tutti i sottoprodotti o solo alle biomasse?
Innanzitutto si ribadisce quanto sopra anticipato, ovvero che si tratta di un provvedimento utile, ma non indispensabile (e ciò lo dimostra la lettera dell’art. 184-bis, c. 2: “… possono essere adottate …”).
Ad avviso di chi scrive, si ritiene che il Decreto sia stato appositamente redatto affinché se dal 2 marzo 2017 un produttore genera delle biomasse residuali e le destina all’impiego per la produzione di biogas in impianti energetici o per la produzione di energia mediante combustione, allora da tale data deve – sostanzialmente – ottemperare alle previsioni del D.M.
Viceversa, per tutte le altre sostanze od oggetti (tranne terre e rocce, per le quali occorre fare riferimento al D.M. n. 161/2012 o all’art. 41-bis, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, nonché – in futuro – ad un nuovo D.P.R. in corso di emanazione) è certamente opportuno, anche se non indispensabile, rispettare i parametri del D.M. 264/16, perché dal 2 marzo 2017 gli organi di controllo faranno senz’altro riferimento a questo provvedimento nella loro attività di verifica, pur mantenendo ovviamente “in vita” la possibilità di dimostrare le quattro condizioni che fanno di uno scarto di produzione un sottoprodotto anche in altro modo.
Proseguendo nella disamina del provvedimento, si segnala l’art. 2, c. 1, lett. b), il quale definisce residuo di produzione “ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto”, con ciò confermando che il sottoprodotto deve scaturire da un processo produttivo (con conseguente esclusione, per esempio, del fresato d’asfalto).
Il successivo art. 3 ribadisce due aspetti fondamentali: il Decreto non si applica “ai residui derivanti da attività di consumo” (c. 1, lett. c) e “restano ferme le disposizioni speciali adottate per la gestione di specifiche tipologie e categorie di residui, tra cui le norme in materia di gestione delle terre e rocce da scavo” (c. 2), confermando la riserva di legge in materia di terre e rocce da scavo.
L’art. 4 sottolinea, poi, l’importanza di dare dimostrazione del soddisfacimento dei requisiti di legge ed al c. 2 propone alcune modalità con le quali provare la sussistenza delle circostanze, “fatta salva la possibilità di dimostrare, con ogni mezzo ed anche con modalità e con riferimento a sostanze ed oggetti diversi da quelli precisati nel presente decreto, o che soddisfano criteri differenti, che una sostanza o un oggetto derivante da un ciclo di produzione non è un rifiuto, ma un sottoprodotto”. È, quindi, evidente che c’è ancora la libertà di fornire altre prove e dimostrazioni.
Si segnala quanto previsto al c. 3, ovvero che il produttore e l’utilizzatore del sottoprodotto si iscrivono (obbligo?) in un apposito elenco pubblico istituito presso le Camere di commercio territorialmente competenti. Si ritiene che questa previsione costituisca una criticità che merita di essere segnalata, in parte perché non si ravvisa la necessità di un tale elenco ed in parte perché le Camere di commercio non sono ovviamente affatto preparate a questa gestione.
Si concorda, da ultimo, sulla previsione del c. 4, ovvero sull’obbligo di conservazione della documentazione per tre anni, nonché sulla loro messa a disposizione all’autorità di controllo.
L’art. 5 è interamente dedicato alla certezza dell’utilizzo: come si dimostra? La norma sottolinea come “il requisito della certezza dell’utilizzo è dimostrato dal momento della produzione del residuo fino al momento dell’impiego dello stesso”. In questa sede il testo fa riferimento al “produttore” ed al “detentore”: chi sarebbe il detentore? Forse l’utilizzatore? La sua figura non è precisata nell’art. 2 (definizioni).
Non solo: proseguendo nella lettura del c. 1 dell’art. 5 si parla di “sistema di gestione”. Che cosa sarebbe? Che funzione riveste? Forse quella di garantire il flusso di tracciabilità del sottoprodotto?
Anche in questo caso la norma è poco chiara.
Il c. 4 dell’art. 5 afferma che “costituisce elemento di prova l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari e gli utilizzatori” e in questo caso non si può non citare la Comunicazione della Commissione al Consiglio ed al Parlamento Europeo relativa alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti del 21 febbraio 2007: già allora, infatti, l’anzidetta Comunicazione dava atto di come “l’esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi può indicare che il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che quindi vi è certezza del riutilizzo”.
Si segnala un ulteriore elemento di criticità: chi è l’intermediario del sottoprodotto? Premesso che non va confuso con l’intermediario di rifiuti, si potrebbe supporre che sia una figura che agevola l’incontro tra produttore ed utilizzatore dei residui di produzione (anche se l’art. 2 inerente le definizioni non ne fa cenno).
Al c. 5 dell’art. 5 si dà la possibilità che, in mancanza dei contratti sopraccitati, il requisito della certezza dell’utilizzo e l’intenzione di non disfarsi dei residuo possano essere dimostrati mediante la predisposizione di una “scheda tecnica” contenente le informazioni di cui all’All. 2 (estremamente generica). Il problema è che questa scheda tecnica deve essere numerata, vidimata e gestita con la modalità dei registri IVA dalle Camere di Commercio territorialmente competenti: ma come? Questa previsione rappresenta un evidente passo indietro rispetto alla dichiarata libertà di gestione dei sottoprodotti.
Importante segnalare quanto disposto dall’art. 6 in materia di normale pratica industriale. La norma, infatti, elenca che cosa è normale pratica industriale e che cosa non lo è, insistendo sulle caratteristiche ambientali connesse all’ultimo requisito di cui all’art. 184-bis. La formulazione letterale è poco chiara e ridondante, tanto che ripete per ben tre volte “ambientali”, “ambiente” e ancora “ambiente” nello stesso periodo.
Mentre l’art. 7 ritorna ancora sulla scheda tecnica, l’art. 8 disciplina in materia di deposito e movimentazione del sottoprodotto. Fermo restando che rifiuti e sottoprodotti devono essere tenuti separati tra loro, si concorda sul fatto che fino all’effettivo utilizzo, il sottoprodotto deve essere depositato e movimentato nel rispetto di specifiche norme tecniche (se disponibili), evitando spandimenti accidentali, contaminazione delle matrici ambientali e prevenendo o minimizzando la formazione di emissioni diffuse e la diffusione di odori.
Corre l’obbligo di segnalare quanto previsto dal c. 4, ovvero che “la responsabilità del produttore o del cessionario in relazione alla gestione del sottoprodotto è limitata alle fasi precedenti alla consegna dello stesso all’utilizzatore o a un intermediario”. Ma come può considerarsi terminata la responsabilità del produttore con la consegna del sottoprodotto all’intermediario? Significa che quest’ultimo ne ha la detenzione? Come si concilia questa previsione con l’utilizzo diretto (“utilizzato direttamente”), previsto dal requisito normativo?
L’art. 9 si sofferma brevemente sui controlli e le ispezioni, mentre l’art. 10 ribadisce l’onere a carico delle Camere di Commercio di istituire una piattaforma di scambio tra domanda e offerta.
Da ultimo, premesso che l’art. 1, c. 4 non esiste nel provvedimento (!), l’art. 11 rammenta che il Decreto è comunicato alla Commissione europea secondo la procedura di informazione comunitaria prevista dalla Dir. 2015/1535.
In conclusione, pertanto, si ritiene che il D.M. 264 sia senz’altro uno strumento utile per muovere una situazione ferma da anni, ma che sia un provvedimento a rischio di bocciatura a livello europeo troppo “di dettaglio” nei confronti di un istituto che potrebbe essere sì un minimo regolamentato per favorirne l’utilizzo, ma non ulteriormente imbrigliato!
Le circolari ministeriali
Successivamente all’emanazione del D.M. 264/16, il Ministero dell’Ambiente è intervenuto per fornire una serie di chiarimenti aventi, peraltro, valore meramente interpretativo del testo del decreto – perché né il D.M., né tantomeno le Circolari possono prevalere sul testo dell’art. 184-bis del D.L.vo 152/06.
Con la Circolare n. 3084 del 3 marzo 2017 (emanata il giorno successivo all’entrata in vigore del Decreto) il Ministero si è espresso in merito alla natura ed alle funzioni dell’elenco pubblico dei produttori ed utilizzatori di sottoprodotti da istituire presso le Camere di Commercio, osservando come “tale disposizione non introduca un requisito abilitante per i produttori e gli utilizzatori di sottoprodotti, ma preveda la realizzazione di un elenco contenente le generalità degli operatori interessati a cedere o acquistare residui produttivi da impiegare, utilmente e legalmente, nell’ambito della propria attività, con finalità conoscitiva e di mera facilitazione degli scambi”.
Infatti, “la qualifica di un materiale come sottoprodotto, dunque non rifiuto, prescinde dalla iscrizione del produttore o dell’utilizzatore nel suddetto elenco, essendo di carattere oggettivo e legata alla dimostrazione della sussistenza dei requisiti richiesti dall’articolo 184-bis”.
Pertanto, conclude il Ministero, “la mancata iscrizione non comporta l’immediata inclusione del residuo nel novero dei rifiuti”: invero, “la possibilità di gestire un residuo quale sottoprodotto e non come rifiuto, dunque, non dipende in alcun modo, né in positivo, né in negativo, dalla esistenza della documentazione probatoria prevista nel decreto né, tantomeno, dalla iscrizione nell’elenco”.
A distanza di due mesi dalla Circ. n. 3084/2017, con la successiva Circolare n. 7619 del 30 maggio 2017 il Ministero si è espresso in maniera generica e contraddittoria su tutto il testo del decreto, sempre premettendo che esso “non innova in alcun modo la disciplina sostanziale generale del settore” e che “se un residuo andrà considerato sottoprodotto o meno dipenderà, dunque, esclusivamente dalla sussistenza delle condizioni di legge sopra richiamate [art. 184-bis]”.
In merito al requisito della certezza dell’utilizzo, il par. 4 della circolare ribadisce che la qualifica di sottoprodotto non potrà mai essere acquisita in un tempo successivo alla generazione del residuo, non potendo un materiale qualificato come rifiuto divenire sottoprodotto.
Nella specie, gli strumenti probatori indicati dal decreto sono la documentazione contrattuale e la scheda tecnica. Il par. 5 della Circolare precisa che “il primo requisito della cui sussistenza si può formare la prova tramite il concorso della documentazione contrattuale, ovviamente, è quello della certezza dell’utilizzo”.
Poi, “la possibilità di fornire la prova della sussistenza degli altri requisiti tramite tale documentazione dipenderà dallo specifico contenuto di quest’ultima”, mentre “tramite la scheda tecnica, invece, gli operatori potranno fornire la dimostrazione della sussistenza di tutti i requisiti di cui all’articolo 184-bis, comma 1. È, dunque, ben possibile che anche chi dispone di una documentazione contrattuale si giovi della sua compilazione”.
Con riferimento alla «Dichiarazione di conformità», si evidenzia come questa debba essere compilata in caso di cessione del sottoprodotto per assicurare la conformità dello stesso ai requisiti richiesti dalla legge ed alla scheda tecnica, della quale è necessario indicare gli estremi di riferimento.
E’ evidente il rapporto di sussidiarietà esistente tra questi due elementi: la documentazione contrattuale è idonea a supportare la dimostrazione della certezza dell’utilizzo, mentre la scheda tecnica risulta utile ad “identificare i soggetti che intervengono nell’ambito della gestione del sottoprodotto (produttore, utilizzatore ed eventuali intermediari), di descrivere il processo di produzione da cui origina il sottoprodotto, nonché le specifiche tecniche del materiale che deve essere impiegato e le modalità di gestione dello stesso, fino all’utilizzo”.
L’importanza della documentazione contrattuale è ben evidente se si considera che ad avviso del Ministero la prova della certezza dell’utilizzo “è legata alla circostanza secondo la quale, sin dal momento della produzione, l’attività o l’impianto in cui il residuo deve essere utilizzato sia già individuato, ovvero, quanto meno, che sia individuabile in considerazione delle specifiche caratteristiche possedute del materiale che ne rendono compatibile l’impiego in determinati cicli produttivi”.
Sempre secondo le indicazioni del Ministero, non sono ammessi dubbi circa “la tipologia di impianto o di attività in cui il residuo può essere e sarà impiegato in considerazione delle sue caratteristiche tecniche, e sulla circostanza che, in virtù di queste caratteristiche, l’impiego è possibile in quei determinati tipi di impianti o attività senza il ricorso a trattamenti diversi dalla normale pratica industriale”. Tuttavia, al parag. 6.3.VI si ipotizza il caso in cui, al momento della produzione del residuo, non sia ancora immediatamente noto il soggetto responsabile dell’impiego dello stesso.
In questa circostanza, è senz’altro particolarmente raccomandata all’operatore la compilazione della scheda tecnica, avendo cura di indicare con esattezza anche i tempi e le modalità di deposito, nelle more dell’utilizzo, in quanto tali elementi potrebbero risultare condizionanti o anche pregiudizievoli rispetto all’effettivo impiego dell’oggetto o della sostanza.
In tale ipotesi, non risulta possibile (e, quindi, non è necessario) compilare anche la parte della scheda con l’indicazione del nominativo del destinatario. In particolare, nell’ipotesi in cui all’atto della produzione del residuo non fosse immediatamente identificato il destinatario del sottoprodotto, non potendo essere indicato con esattezza l’impianto di utilizzo, dovranno essere inserite le informazioni relative all’attività o al settore di destinazione, considerate le specifiche tecniche del residuo, che lo rendono idoneo a determinati utilizzi.
In ordine al deposito del sottoprodotto va chiarito che la gestione e la movimentazione dello stesso, dalla produzione fino all’impiego del medesimo, devono essere realizzate in modo da assicurare – oltre all’assenza di rischi ambientali o sanitari – il mantenimento delle caratteristiche del residuo necessarie a consentirne l’impiego.
Per tali ragioni, deve essere sempre garantita la congruità delle tempistiche e delle modalità di gestione, che devono essere funzionali all’utilizzo dei materiali nel periodo più idoneo allo stesso e non devono incidere negativamente sulla qualità e funzionalità dei materiali medesimi ai fini dello specifico impiego previsto.
La scheda tecnica deve, quindi, indicare, tra l’altro, il tempo massimo previsto per il deposito, decorso il quale si presume che possano essere pregiudicate le caratteristiche merceologiche o di funzionalità necessarie per l’impiego previsto. Se dovesse decorrere il tempo massimo di deposito indicato nella scheda tecnica per il deposito senza che la sostanza o l’oggetto sia stato utilizzato questi perderanno la qualifica di sottoprodotto e dal giorno successivo alla scadenza del termine massimo devono essere gestiti come rifiuti, oppure sarà necessario compilare una nuova scheda tecnica, nel caso in cui il residuo presenti ancora le caratteristiche per poter essere qualificato come sottoprodotto, eventualmente destinato ad un impiego differente da quello in origine previsto.
Con riferimento alla fase di trasporto, il decreto non contempla documentazione diversa da quella ordinariamente impiegata per il trasporto delle merci.
Relativamente, invece, al concetto di normale pratica industriale, il Ministero ha osservato che tale requisito “risponde alla duplice esigenza da un lato di tener conto che il bisogno di un trattamento preliminare prima della utilizzazione di un residuo può segnalare il fatto di trovarsi dinanzi ad un rifiuto e, dall’altro, di considerare che anche le materie prime talvolta necessitano di essere lavorate prima del loro impiego nel processo produttivo (Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste, cit., par. 1.2.4)”.
Al fine della prova della riconducibilità dell’operazione alla normale pratica industriale, prosegue la circolare al par. 6.4, l’operatore potrebbe dimostrare, ad esempio, che:
– il trattamento non incide o non fa perdere al materiale la sua identità, le caratteristiche merceologiche, o la qualità ambientale, non determina un mutamento strutturale delle componenti chimico-fisiche della sostanza o una sua trasformazione radicale (questo stride con la ratio europea);
– il trattamento corrisponde a quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale il materiale viene utilizzato ed in particolare a quelli ordinariamente effettuati sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire.
L’intermediario del sottoprodotto
A differenza della figura dell’intermediario della gestione dei rifiuti, quella dell’intermediario del sottoprodotto non è normata.
Essa è semplicemente sfiorata in un paio di disposizioni ministeriali, ma non si rinviene una vera e propria disciplina dedicata a questo soggetto.
Come già anticipato poco sopra, il D.L.vo 152/06 non ne fa cenno (e nemmeno la Dir. 98/08) e pertanto l’unico provvedimento ad occuparsene è il D.M. 264/16 (e di conseguenza la Circ. Min. 7619/17) nei seguenti articoli:
• art. 5, c. 4: “ai fini di cui al comma 3, costituisce elemento di prova l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari e gli utilizzatori, dai quali si evincano le informazioni relative alle caratteristiche tecniche dei sottoprodotti, alle relative modalità di utilizzo e alle condizioni della cessione che devono risultare vantaggiose e assicurare la produzione di una utilità economica o di altro tipo”;
• art. 8, c. 4: “la responsabilità del produttore o del cessionario in relazione alla gestione del sottoprodotto è limitata alle fasi precedenti alla consegna dello stesso all’utilizzatore o a un intermediario”;
• Scheda tecnica e dichiarazione di conformità: “la scheda tecnica e la dichiarazione di conformità di cui agli articoli 5 e 7 del presente decreto devono contenere le seguenti informazioni: … Riferimenti di eventuali intermediari”.
Ora, pur non esistendo un’esplicita definizione normativa di questa figura, si ritiene ragionevole considerare l’intermediario del sottoprodotto quale mero partner aziendale terzo esterno, al pari di un procacciatore d’affari, che mette in relazione il produttore (venditore) e l’utilizzatore (acquirente), senza un formale rapporto di dipendenza o rappresentanza con le parti coinvolte.
In altre parole, questo soggetto rivestirebbe il ruolo di un referente aziendale esterno che, non acquisendo (cautelativamente) la detenzione del sottoprodotto, realizzerebbe solo l’incontro tra produttori e destinatari idonei a ricevere il materiale ed a perfezionare così il contratto.
E’ vero che sia l’art. 8 del D.M. 264/16, sia la Circ. n. 7619/17 parrebbero ipotizzare anche questa opzione, ma è da ritenersi assolutamente da evitare in quanto contraria alla legge ed alla interpretazione della giurisprudenza.
L’intermediario dei sottoprodotti, in alcuni casi, potrebbe diventare il primo interlocutore per realizzare accordi commerciali continuativi, contribuendo sotto il profilo probatorio a dimostrare l’esistenza di contratti commerciali, nonché di un mercato per quel residuo.
Dal momento che il Decreto sembrerebbe ammettere la consegna del sottoprodotto all’intermediario (ma non la Dir. 2008/98 né il D.L.vo 152/06), non si può non riconoscere l’utilità di questa figura che mette in contatto chi produce il sottoprodotto con chi lo utilizza.
Tuttavia, a che risulti, solo in un caso la giurisprudenza si è pronunciata al riguardo: la Corte di Cassazione Penale, sez. VII, con l’ordinanza n. 50628 del 16 dicembre 2019 ha affermato che se è vero che l’esistenza di rapporti contrattuali tra il produttore del residuo ed “eventuali” intermediari ed “utilizzatori” rilevano in termini di prova sulla certezza dell’utilizzo, il mero richiamo all’esistenza di tali rapporti non può però essere sufficiente a soddisfare le verifiche richieste, necessitando che dalla documentazione citata possano con certezza evincersi le caratteristiche tecniche dei prodotti, l’esistenza di condizioni che giustifichino la vantaggiosità della cessione, e via dicendo.
Tale dimostrazione specifica richiede anche l’osservanza dell’art. 6 del D.M. 264/16 per quanto attiene alla “normale pratica industriale” cui fa riferimento l’art. 184 bis lett. c) che contempla specifiche verifiche sui requisiti dei prodotti e sull’impatto ambientale derivante dai processi di trasformazione.
L’onere probatorio e la documentazione
L’onere della prova della sussistenza delle condizioni in capo a colui che voglia utilizzare il sottoprodotto.
In particolare, come evidenziato anche dalla giurisprudenza più volte citata, è consigliabile – cautelativamente – predisporre “una precisa documentazione di natura tecnica, che verta sulle caratteristiche del ciclo di produzione, sul successivo reimpiego ed eventuali successivi trattamenti, sulla presenza di caratteristiche idonee a soddisfare tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e l’assenza di impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana” (Cass. Pen. Sez. III n. 38590 del 7 agosto 2017).
Si consiglia, pertanto, la predisposizione di un vero e proprio dossier[1], da inviare in copia agli Enti competenti (o almeno segnalarne l’esistenza via PEC) affinché abbiano preventiva contezza della gestione degli scarti e da esibire in caso di verifica da parte degli organi di controllo, e che permetta loro di comprendere agevolmente il flusso di gestione dei sottoprodotti di cui al quesito.
Ovviamente si tratta di consigli di carattere cautelativo, ma che si ritengono essenziali in una materia delicata e rischiosa come questa, ove è assai labile il confine “rifiuto – non rifiuto”.
Sottoprodotti e SOA
A livello comunitario, i sottoprodotti di origine animale trovano disciplina nel Regolamento (CE) n. 1069/2009[1] e nel relativo regolamento attuativo (UE) n. 142/2011[2].
In particolare, il Regolamento 1069/2009 stabilisce norme sanitarie e di polizia sanitaria relative ai sottoprodotti di origine animale (ossia “corpi interi o parti di animali, prodotti di origine animale o altri prodotti ottenuti da animali, non destinati al consumo umano”, c.d. SOA) e ai prodotti derivati (ossia “prodotti ottenuti attraverso uno o più trattamenti, trasformazioni o fasi di lavorazione di sottoprodotti di origine animale”), finalizzate a evitare o ridurre al minimo i rischi per la salute pubblica e degli animali e garantire la sicurezza della catena alimentare e dei mangimi.
I SOA sono classificati in tre categorie a seconda del livello di rischio per la salute pubblica e degli animali – in conformità degli elenchi di cui agli articoli 8, 9 e 10 – e tali categorie determinano il modo in cui dovrebbero essere smaltiti o recuperati.
In considerazione del fatto che nella maggioranza dei casi si pongono dubbi e questioni relativamente al alcune specifiche tipologie di SOA, esigenze di sintesi impongono di concentrare la trattazione sulla categoria 3[3], e precisamente sulla tipologia descritta alla lett. f) dell’art. 10 corrispondente a “prodotti di origine animale o prodotti alimentari contenenti prodotti di origine animale, i quali non sono più destinati al consumo umano per motivi commerciali o a causa di problemi di fabbricazione o difetti di condizionamento o altri difetti che non presentano rischi per la salute pubblica o degli animali”.
Il quadro normativo sopra descritto si completa con il Regolamento (UE) n. 142/2011 che stabilisce le misure di attuazione per le norme sanitarie e di polizia sanitaria relative ai SOA e ai prodotti da essi derivati di cui al regolamento 1069/2009, e per le norme relative a taluni campioni e articoli non sottoposti a controlli veterinari ai posti d’ispezione frontalieri.
In ordine all’applicazione della disciplina ambientale è fondamentale, a livello nazionale, richiamare l’art. 185 del D.L.vo 152/06. Tale norma, rubricata “Esclusioni dall’ambito di applicazione”, come sostituita dall’art. 13 del D.L.vo 205/10[4], espressamente esclude dal campo di applicazione della Parte Quarta del citato D.L.vo 152/06 “in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento … b) i sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, contemplati dal regolamento (CE) n. 1774/2002[5], eccetto quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio”.
Dal punto di vista normativo, quindi, i SOA, compresi i prodotti trasformati, rientrano nel campo di applicazione della Parte Quarta del D.L.vo 152/06 (“Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati”) solo se destinati allo smaltimento per incenerimento o in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o compostaggio.
Tuttavia, è bene precisare, sotto i profili ambientali, che l’inclusione nella disciplina di cui alla Parte IV del D.L.vo 152/06 non vuol dire automaticamente che i materiali siano riconducibili al novero dei rifiuti, in quanto nella stessa Parte IV si ritrovano regolamentati anche i “sottoprodotti”. In tal caso, occorrerà allora verificare se quei sottoprodotti di origine animale abbiano tutti quei requisiti richiesti dall’art. 184 bis del D.L.vo 152/06.
In caso contrario i sottoprodotti di origine animale saranno a tutti gli effetti dei rifiuti e troveranno la loro regolamentazione nella Parte IV del D.L.vo 152/06 e saranno soggetti a tutti quegli obblighi che la medesima disciplina prescrive per la loro gestione.
Nella regolazione dei SOA, dunque, coesistono due discipline concorrenti, una sanitaria ed una ambientale, quest’ultima applicabile allorquando i SOA siano “destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio”.
In definitiva, quindi, la qualifica di un materiale come sottoprodotto di origine animale ai sensi del reg. (CE) n. 1069/2009 non esclude a priori che lo stesso materiale possa essere qualificato altresì come rifiuto o come sottoprodotto ex art. 184 bis D.L.vo 152/06 e sia, di conseguenza, sottoposto all’applicazione della pertinente normativa.
Profili di rischio e responsabilità
È bene premettere che nel caso in cui vengano meno i requisiti per la qualifica di un materiale come sottoprodotto o – ancor meglio – possano rimanere dubbi nel caso di verifiche e/o controlli, la responsabilità della gestione del residuo come rifiuto (non più sottoprodotto) ricade sul soggetto che si trova in possesso del medesimo immediatamente prima che diventi rifiuto. Ogni soggetto che interviene lungo la filiera di gestione del sottoprodotto è inoltre tenuto alla dimostrazione dei requisiti richiesti che rendono tale il residuo, limitatamente a quanto sia nella propria disponibilità e conoscenza, non essendo applicabile l’estensione dell’onere della prova rispetto a parti della filiera su cui il soggetto non ha poteri di verifica e controllo.
Il D.M. 264/2016 più volte richiamato, prevede, infatti, all’art. 8, c. 4, che “la responsabilità del produttore o del cessionario in relazione alla gestione del sottoprodotto è limitata alle fasi precedenti alla consegna dello stesso all’utilizzatore o a un intermediario”. Conseguentemente, in caso di perdita dei requisiti sostanziali per la qualifica del residuo come sottoprodotto, viene meno la responsabilità dei detentori precedenti rispetto ad eventi sopravvenuti e indipendenti dalla loro volontà ed attività.
Pertanto, l’utilizzo dei residui come sottoprodotti in assenza del rispetto dei requisiti normativi fa sì che si applichi la normativa sui rifiuti di cui alla Parte IV del D.L.vo 152/06, ed in particolare quella sanzionatoria (due reati): art. 256 – attività di gestione di rifiuti non autorizzata[6] (per chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione) e art. 452–quaterdecies del Codice penale – attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti[7] (ex art. 260 D.L.vo 152/06) – qualora sia provato che le parti si siano accordate per gestire dei residui come sottoprodotti senza che ne avessero i requisiti.
A tal proposito, si rammenta che entrambi questi illeciti costituiscono anche reati presupposto con riferimento all’applicazione del D.L.vo 231/01[8].
Conclusioni
Poiché quello dei sottoprodotti è un regime derogatorio rispetto a quello ordinario (dei rifiuti), fin tanto che il produttore non riuscirà a smarcare tutti i requisiti e a sostenere il flusso produttivo con adeguata documentazione a sostegno, non sarà possibile concludere a favore dell’inquadramento effettivo dei residui di produzione quali sottoprodotti ai sensi dell’art. 184-bis.
Se così non fosse, quindi, i materiali dovranno essere classificati e gestiti come rifiuti in conformità alle disposizioni contenute nella Parte IV del D.L.vo 152/06.
Pertanto si consiglia vivamente di ottemperare il più possibile a quanto prevede la normativa vigente, perché la qualifica dei residui come sottoprodotti, laddove possibile, sarebbe sicuramente vista con favore alla luce dei principi della c.d. Economia Circolare, che incentivano le attività di riutilizzo degli scarti di produzione, come evidenziato dallo stesso PNRR.
Per approfondire il tema dei sottoprodotti si consigliano i seguenti articoli:
Il sottoprodotto, il fresato d’asfalto e la “normale pratica”
I trattamenti del sottoprodotto e la “normale pratica industriale”
Registro delle partite di SOA: è obbligatorio?
La “contorta” normativa dei sottoprodotti di origine animale
Sottoprodotti e normale pratica industriale: rassegna di giurisprudenza
Le biomasse come combustibili nel nuovo D.M. sottoprodotti
[1] Regolamento (CE) n. 1069/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 ottobre 2009, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale e ai prodotti derivati non destinati al consumo umano e che abroga il regolamento (CE) n. 1774/2002. Pubblicato sulla gazzetta Ufficiale UE L 300 del 14 novembre 2009, in vigore dal 4 dicembre 2009 ed applicato a decorrere dal 4 marzo 2011.
[2] Regolamento (UE) n. 142/2011 della Commissione, del 25 febbraio 2011, recante disposizioni di applicazione del regolamento (CE) n. 1069/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale e ai prodotti derivati non destinati al consumo umano, e della direttiva 97/78/CE del Consiglio per quanto riguarda taluni campioni e articoli non sottoposti a controlli veterinari alla frontiera, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 54 del 26 febbraio 2011, si applica dal 4 marzo 2011.
[3] La Categoria 3 ha ad oggetto SOA il cui rischio sanitario è minore o addirittura nullo.
[4] Decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 288 del 10 dicembre 2010 – Suppl. Ordinario n. 269, in vigore dal 25 dicembre 2010
[5] I riferimenti al regolamento (CE) n. 1774/2002 si intendono oggi riferiti al vigente Reg. 1069/2009.
[6] Art. 256 (Attività di gestione di rifiuti non autorizzata)
“1. Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 è punito:
[7] Art. 452-quaterdecies Codice Penale
“Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni.
Se si tratta di rifiuti ad alta radioattività si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.
Alla condanna conseguono le pene accessorie di cui agli articoli 28, 30, 32 bis e 32 ter, con la limitazione di cui all’articolo 33.
Il giudice, con la sentenza di condanna o con quella emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente.
È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca”.
[8] Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica.
Pubblicata in G.U. n. 140 del 19 giugno 2001 ed in vigore dal 4 luglio 2001.
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