Top

Preveniamo rischi Risolviamo problemi Formiamo competenze

"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni
TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale
Conta su di noi"
Stefano Maglia

Direttiva SUP e guerra ai rifiuti di plastica: il problema è la plastica o il rifiuto?

di Linda Maestri

Categoria: Rifiuti

 

Mai come in questo periodo l’ambiente era stato destinatario di tanta attenzione, mediatica specialmente. In realtà, e lo sappiamo tutti, le problematiche che oggi ci troviamo ad affrontare hanno radici ben più in là nel tempo, e se i media ne danno conto ora – più che mai – non può dirsi lo stesso dell’Europa e dei suoi organismi di ricerca.

Anche se solo a breve – a che risulti – potrà avvenire la formale approvazione da parte del Consiglio Europeo dell’inflazionatissima Direttiva SUP, che dichiara guerra alle “Single Use Plastics” e della quale qui ci occuperemo, è il caso di guardare indietro a qualche anno fa, quando le Nazioni Unite, gli organismi internazionali e la stessa UE segnalavano la problematica della dispersione dei rifiuti plastici nei mari e negli oceani per rendersi conto che – diversamente da quanto si dice – la questione ha origini ben più lontane di quanto si pensi.

 

 

Dietro le quinte

 

Ebbene, già nella propria risoluzione del 9 luglio 2015[1] il Parlamento Europeo esortava la Commissione “a proporre l’obiettivo di ridurre i rifiuti marini del 50% entro il 2025 rispetto ai livelli del 2014”, la quale a dicembre del 2015 la Commissione Europea identificava la plastica come una delle aree prioritarie d’intervento nell’ambito del Piano d’azione sull’economia circolare[2], proponendo nuovi obiettivi di riutilizzo e riciclaggio per i rifiuti di imballaggio in plastica ed impegnandosi ad adottare entro la fine del 2017 una strategia sulla plastica nell’economia circolare. Precisamente, accogliendo l’invito del Parlamento l’Esecutivo UE segnalava l’intenzione di adottare “anche misure per realizzare l’obiettivo inteso a ridurre in misura significativa i rifiuti marini” (par. 5.1) precisando, in nota (n. 34), che “la Commissione europea, nella comunicazione “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti”, ha proposto di puntare a “ridurre i rifiuti marini del 30% entro il 2020, per i dieci tipi di rifiuti che più comunemente inquinano le spiagge, nonché per le attrezzature da pesca abbandonate in mare, e adattare le priorità in funzione delle quattro regioni marine dell’UE”. Sono già in corso attività in Europa per raggiungere questo obiettivo”.

 

 

Ma su quali basi la Commissione affermava così solennemente l’intenzione di impegnarsi in questo senso?

 

Nel Briefing[3] a cura dell’European Parliamentary Research Service si legge che la proposta di Direttiva in commento si basa tra l’altro su dati e analisi del Centro comune di ricerca della Commissione, in particolare del suo gruppo tecnico sui rifiuti marini a sostegno dell’attuazione della direttiva quadro sulla strategia per l’ambiente marino, che ha pubblicato una serie di relazioni dal 2010.

Nel 2014 nasceva la Marine Litter Watch, un’iniziativa dell’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) che mira a combattere il problema dei rifiuti di plastica e coinvolge organizzazioni non governative e istituti di ricerca. Si tratta dell’unica piattaforma paneuropea che i membri del pubblico possono utilizzare per coordinare le pulizie e registrare rifiuti in spiaggia[4].

Le ricerche[5] pubblicate nel 2015, si legge nel Briefing, già evidenziavano che ogni anno entrano negli oceani da 4,8 a 12,7 milioni di tonnellate di plastica, dal 2 al 5% di rifiuti plastici, il Rapporto 2015 di McKinsey, una società di consulenza per l’ONG statunitense Ocean Conservancy, stima che ci siano oltre 150 milioni di tonnellate di plastica nei mari, il 60% proveniente da rifiuti non raccolti o rifiuti provenienti da fonti terrestri, il 20% da rifiuti di plastica raccolti e successivamente dispersi nell’ambiente oceanico e il 20% dall’attività di pesca. E’ molto importante notare, peraltro, che il Rapporto McKinsey ha stimato che oltre l’80% dei rifiuti di plastica a terra che finisce negli oceani proviene da 20 paesi[6], tra i quali non figurano Paesi comunitari: chiarisce, in nota, il Servizio di ricerca del Parlamento UE che “se considerati collettivamente, i 23 Stati membri dell’UE costieri si classificherebbero al diciottesimo posto nell’elenco”.

 

 

Con particolare riferimento alla plastica biodegradabile, peraltro, nel novembre 2015 un comunicato stampa dell’UNEP (United Nations Environment Programme) annunciava la pubblicazione del Rapporto delle Nazioni Unite “Biodegradable Plastics and Marine Litter. Misconceptions, Concerns and Impacts on Marine Environments” con questi termini: “l’adozione diffusa di prodotti etichettati come “biodegradabili” non diminuirà in modo significativo il volume di plastica che entra nell’oceano oi rischi fisici e chimici che le materie plastiche rappresentano per l’ambiente marino”. Il rapporto ONU, sintesi di alcune delle questioni chiave relative alla biodegradabilità delle materie plastiche negli oceani, evidenziava infatti che la biodegradazione completa della plastica si verifica in condizioni che raramente, se non mai, si verificano in ambienti marini, con alcuni polimeri che richiedono composti organici e temperature prolungate superiori a 50 ° C per disintegrarsi. I polimeri, che si biodegradano in condizioni favorevoli sulla terra, sono molto più lenti da rompere nell’oceano e la loro adozione diffusa, prosegue il Comunicato, probabilmente contribuirà ai rifiuti marini e alle conseguenti conseguenze indesiderabili per gli ecosistemi marini.

 

Proprio l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente ha poi adottato il 5 dicembre 2017 una Risoluzione sui rifiuti marini e sulla microplastica, in linea con l’obiettivo Obiettivo di sviluppo sostenibile 14.1, che mira, entro il 2025, a “prevenire e ridurre in modo significativo l’inquinamento marino di ogni tipo, in particolare dalle attività a terra, compresi i detriti marini e l’inquinamento dei nutrienti“.

 

 

La strategia UE per la plastica

 

L’intento annunciato nel 2015 si è, dunque, concretizzato nella Strategia europea per la plastica nell’economia circolare[7], adottata dalla Commissione Europea il 16 gennaio 2018. A livello mondiale, osserva la Commissione, “ogni anno finiscono negli oceani da 5 a 13 milioni di tonnellate di plastica (che rappresentano dall’1,5% al 4% della produzione mondiale di questo materiale”, mentre in UE la quantità varia 150 000 e 500 000 tonnellate, una piccola percentuale dei rifiuti marini a livello mondiale, ma che finisce in zone marine particolarmente vulnerabili, come il Mar Mediterraneo o il Mar Glaciale Artico. Il fenomeno, prosegue la Commissione, “è accentuato dalla crescente quantità di rifiuti di plastica generati ogni anno, imputabile anche alla crescente diffusione dei prodotti di plastica monouso, ad esempio imballaggi o altri prodotti di consumo gettati dopo un unico breve utilizzo, raramente riciclati e soggetti ad essere dispersi nell’ambiente. Questi prodotti comprendono le piccole confezioni, le borse, le tazze monouso, i coperchi, le cannucce e le posate, nel cui caso la plastica è ampiamente utilizzata per la sua leggerezza, i costi bassi e la praticità”. I prodotti monouso, tendenzialmente utilizzati lontano da casa e gettati nell’ambiente, sono gli oggetti che si trovano più comunemente sulle spiagge e si stima che rappresentino il 50% dei rifiuti marini.

 

Sul tema, osserva la Commissione, l’UE è già intervenuta stabilendo l‘obbligo per gli Stati Membri di adottare misure per ridurre il consumo delle borse di plastica[8] e monitorare e ridurre i rifiuti marini, quest’ultimo facente capo alla Direttiva 2008/56/CE, che istituisce un quadro per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino.

 

Alla faccia dell’atteggiamento Nimby (not in my back yard), l’Esecutivo UE è chiaro nel segnalare che “in molte parti del mondo sono necessari una prevenzione, una raccolta e un riciclaggio adeguati dei rifiuti di plastica. I rifiuti marini provenienti da un paese possono finire sulle spiagge di un altro paese e frammenti di plastica provenienti da tutte le parti del mondo, trasportate dalle correnti marine, con il passare del tempo si accumulano nei mari e negli oceani. Per far fronte a questo problema la cooperazione internazionale è fondamentale”. L’Europa, quindi, non può – e non dovrebbe – accollarsi la paternità di un problema mondiale, e gestirne la cura e le conseguenze con le sole proprie forze. Per lo meno, da quanto sostiene la Commissione, nei consessi internazionali (G7 e G20, Nazioni Unite e convenzione MARPOL) e nell’ambito delle convezioni marittime regionali sono state avviate molte iniziative, ed interventi contro i rifiuti marini sono previsti anche nel programma di governance internazionale per il futuro degli oceani (JOIN(2016)49).

 

 

La Direttiva SUP

 

Il 28 maggio 2018 la Commissione europea ha presentato la propria Proposta di direttiva sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente, Parlamento e Consiglio hanno entrambi adottato la propria posizione sulla Proposta, in accordo a quanto prevede la procedura legislativa ordinaria (co-decisionale), il Comitato economico e sociale europeo e il Comitato delle regioni hanno formulato i propri pareri rispettivamente il 17 e il 10 ottobre 2018, il trilogo interistituzionale è iniziato il 6 novembre 2018.

Il 27 marzo 2019 il Parlamento europeo ha adottato la sua posizione in prima lettura sulla proposta della Commissione, il risultato della votazione del Parlamento rispecchia l’accordo di compromesso convenuto tra le istituzioni.

Allo stato attuale[9], il testo provvisorio è al vaglio del Consiglio Europeo (8 e 10 maggio 2019): se il Consiglio approva la posizione del Parlamento, l’atto legislativo è adottato e, a seguito della firma da parte del presidente del Parlamento e del presidente del Consiglio, è pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.

 

Cosa succederà quando la Direttiva SUP sarà ufficialmente legge?

 

Prima di tutto occorre considerare che per plastica la nuova Direttiva intende la plastica fabbricata con polimeri naturali modificati o con sostanze a base organica, fossili o sintetiche in quanto, diversamente dai polimeri naturali non modificati (unmodified natural polymers) che esistono e sopravvivono naturalmente nell’ambiente, non è presente in natura[10]. Intendendosi per plastica un materiale costituito da un polimero a cui possono essere stati aggiunti additivi o altre sostanze e che può fungere da componente strutturale principale dei prodotti finali, con l’eccezione dei polimeri naturali che non sono stati modificati chimicamente[11], la Direttiva colpisce anche le bioplastiche.

Quindi la definizione di plastica ricomprende articoli in gomma a base polimerica e la plastica a base organica e biodegradabile[12], a prescindere dal fatto che siano derivati dalla biomassa e/o destinati a biodegradarsi nel tempo.

 

 

Art. 4, riduzione del consumo

Precisamente, gli Stati Europei dovranno adottare le misure necessarie per conseguire la riduzione duratura del consumo dei prodotti di plastica monouso elencati nella parte A dell’allegato: tazze per bevande, inclusi i relativi tappi e coperchi; contenitori per alimenti, ossia recipienti quali scatole con o senza coperchio, usati per alimenti destinati al consumo immediato, sul posto o da asporto, generalmente consumati direttamente dal recipiente e pronti per il consumo senza ulteriore preparazione, compresi i contenitori per alimenti tipo fast food o per altri pasti pronti per il consumo immediato (a eccezione di contenitori per bevande, piatti, pacchetti e involucri contenenti alimenti).

 

 

Art. 5, divieto di immissione sul mercato

Dal momento della pubblicazione in Gazzetta gli Stati membri avranno 2 anni per proibire l’immissione sul mercato dei prodotti in plastica oxo-degradabile e di quelli in plastica monouso individuati nella parte B dell’Allegato, ossia: bastoncini cotonati e cannucce, tranne quelli utilizzati a scopo medico (direttive 90/385/CEE e 93/42/CEE), posate (forchette, coltelli, cucchiai, bacchette), piatti, agitatori per bevande, aste da attaccare a sostegno dei palloncini (ma saranno commercializzabili i palloncini per uso industriale o altri usi e applicazioni professionali non distribuiti ai consumatori, e relativi meccanismi).

Il divieto di immissione in commercio colpirà anche contenitori per alimenti in polistirene espanso, ossia recipienti quali scatole con o senza coperchio, usati per alimenti destinati al consumo immediato, sul posto o da asporto, generalmente consumati direttamente dal recipiente e pronti per il consumo senza ulteriore preparazione, compresi i contenitori per alimenti tipo fast food o per altri pasti pronti per il consumo immediato (a eccezione di contenitori per bevande, piatti, pacchetti e involucri contenenti alimenti), contenitori per bevande in polistirene espanso e relativi tappi e coperchi e, infine, tazze per bevande in polistirene espanso e relativi tappi e coperchi.

 

 

Art. 6, requisiti dei prodotti

I prodotti di plastica monouso elencati nella parte C dell’allegato i cui tappi e coperchi sono di plastica potranno essere immessi sul mercato solo a condizione che tappi e coperchi restino attaccati ai contenitori per la durata dell’uso previsto del prodotto (tappi e coperchi di metallo con sigilli di plastica non sono considerati fatti di plastica).

Si tratta di contenitori per bevande con una capacità fino a tre litri (ma non contenitori in vetro o metallo per bevande con tappi e coperchi di plastica, contenitori per bevande destinati e usati per alimenti a fini medici). Quelle fabbricate con polietilene tereftalato come componente principale (PET) dal 2025 dovranno contenere almeno il 25% di plastica riciclata, calcolato come media per tutte le bottiglie in PET immesse sul mercato nel territorio dello Stato membro. Dal 2030 ne dovranno contenere almeno il 30%.

 

 

Art. 7, requisiti di marcatura

Assorbenti e tamponi igienici e relativi applicatori, salviette umidificate per l’igiene personale e per uso domestico, prodotti del tabacco con filtri e filtri commercializzati in combinazione e tazze per bevande dovranno recare una marcatura in caratteri grandi, leggibili e indelebili che indichi ai consumatori le modalità corrette di gestione del rifiuto, le forme di smaltimento da evitare, la presenza di plastica nel prodotto e la conseguente incidenza negativa sull’ambiente della dispersione o di altre forme di smaltimento improprie del rifiuto.

 

 

Responsabilità dei produttori

I produttori saranno chiamati a contribuire a coprire i costi di gestione e bonifica dei rifiuti, come pure i costi delle misure di sensibilizzazione.

Ma chi sono i produttori? Stando all’art. 2 del testo, si intende chi fabbrica, riempie, vende o importa (in uno Stato membro o in un paese terzo) a titolo professionale, a prescindere dalla tecnica di vendita, anche attraverso contratti a distanza, e immette sul mercato prodotti di plastica monouso o prodotti di plastica monouso riempiti o attrezzi da pesca contenenti plastica.

 

 

Il fine giustifica i mezzi?

 

Annunciata ufficialmente già nel 2015, la problematica della dispersione dei rifiuti di plastica nell’ambiente non può dirsi un fulmine a ciel sereno. Si può dire, però, che sul fronte della prevenzione dell’inquinamento da plastica questa direttiva di certo entra a piè pari a sconvolgere le industrie europee, colpendo la produzione del prodotto e, quindi, tutto quello che ne costituisce l’antecedente.

In rapporto al fine, però, c’è un aspetto indispensabile da considerare: come rilevato dal citato Rapporto McKinsey 2015, e osservato dalla stessa Commissione UE nella Strategia sulla plastica, la direttiva ha lo scopo di arginare un fenomeno che trova fonte all’esterno del suo campo di applicazione[13]. Stando al Servizio di ricerca del Parlamento UE, “se considerati collettivamente, i 23 Stati membri dell’UE costieri si classificherebbero al diciottesimo posto nell’elenco”. Si sta chiedendo alle industrie europee un sacrificio che non può rimanere isolato a livello internazionale, in questo senso è indispensabile esortare la collaborazione e l’impegno attivo a livello globale, al fine di non vanificare lo sforzo richiesto.

 

 

Sempre guardando al rapporto tra fine e mezzi, non si può rimanere indifferenti ad un altro aspetto altrettanto fondamentale: è tutta colpa della plastica?

E’ assurdo che nel 2019 sia una direttiva Europea a fare riferimento ad “obblighi di sensibilizzazione” e che solo negli ultimi mesi, anche per effetto di queste future misure, l’ambiente sia diventato una questione attuale e quotidiana, all’attenzione di tutti: se questo fosse accaduto prima, o almeno da quando è stato sollevato il problema dell’inquinamento di mari e oceani, probabilmente non saremmo arrivati a questa condizione al limite del non-ritorno.

Il problema non è la plastica, è la dispersione nell’ambiente di questi prodotti, una volta che non ci servono più: il problema è l’educazione, civica e ambientale, ancora oggi relegata a mera iniziativa personale e volontaria. Non solo la plastica, ma nessun rifiuto deve essere disperso nell’ambiente!

Tuttavia, l’educazione non basta se, a monte, non disponiamo delle infrastrutture necessarie a mettere in pratica quello che si insegna, permettendo il riuso – in primis – ed il recupero di questi prodotti. Questa direttiva non può e non deve colpire solo i produttori di prodotti di plastica monouso, ma deve colpirci tutti, a partire dalle Istituzioni, che dovranno sostenere la riconversione dell’industria plastica, garantire le strutture necessarie ad una gestione circolare delle – ormai poche – risorse di cui possiamo ancora disporre, e l’informazione e l’educazione di tutti i cittadini.

 

Bandire i prodotti in plastica monouso è un passo importante e significativo, che sarà inutile se non sostenuto da un cambiamento sociale, che permetta a tutti di avere contezza dell’impatto del proprio agire sull’ambiente e, di conseguenza, sul prossimo.

 

 

Ci è voluto un mare di plastica per parlare di ambiente, non aspettiamo un mare di vetro per cambiare le nostre abitudini e renderci conto che ne abbiamo solo parlato.

 

 

 

Piacenza, 17.05.2019

 

 

[1] European Parliament resolution of 9 July 2015 on resource efficiency: moving towards a circular economy (2014/2208(INI)). Punto 44: “Urges the Commission to propose a target to reduce marine litter by 50 % by 2025 compared with 2014 levels“.

 

[2] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, L’anello mancante – Piano d’azione dell’Unione Europea per l’economia circolare (COM(2015) 614 final), Bruxelles, 2 dicembre 2015. Precisamente, al par. 5.1. la Commissione segnalava che “se si vuole garantire il passaggio a un’economia circolare è necessario aumentare il riciclaggio della plastica. L’uso di questo materiale nell’Unione è cresciuto in maniera costante, ma ne viene riciclato meno del 25% e circa il 50% è collocato in discarica. Grandi quantità di rifiuti di plastica finiscono anche negli oceani, ragion per cui tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile per il 2030 vi è quello di prevenire e ridurre in maniera significativa l’inquinamento marino di tutti i tipi, compresi i rifiuti marini”.

 

[3] Single-use plastics and fishing gear – Reducing marine litter, indirizzato ai membri e al personale del Parlamento Europeo come materiale di base per assisterli nel loro lavoro parlamentare, pubblicato il 28 novembre 2018.

 

[4] Utilizza la ricerca scientifica condotta, almeno in parte, dai membri del pubblico e la tecnologia dei telefoni cellulari per aiutare gli individui e le comunità a riunirsi per ripulire le spiagge europee. I volontari usano l’app Marine Litter Watch per formare comunità che raccolgono rifiuti dalle spiagge e inviano dati sugli oggetti trovati nel SEE.

 

[5] Jenna R. Jambeck, Roland Geyer, Chris Wilcox, Theodore R. Siegler, Miriam Perryman, Anthony Andrady, Ramani Narayan, Kara Lavender Law, REPORT Plastic waste inputs from land into the ocean, 13 Febbraio 2015.

 

[6] Cina, Indonesia, Filippine, Vietnam, Sri Lanka, Thailandia, Egitto, Malesia, Nigeria, Bangladesh, Sudafrica, India, Algeria, Turchia, Pakistan, Brasile, Birmania, Marocco, Nord Corea e Stati Uniti.

 

[7] COM(2018) 28 final. Per approfondimenti v. M. A. Cerizza, Rifiuti di plastica: una strategia europea per proteggere il pianeta e i cittadini.

 

[8] Il riferimento è alla Direttiva 2015/720/UE, che modifica la direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero, per approfondimenti v. S. Maglia, L. Maestri, Obbligo sacchetti di plastica a pagamento: molto rumore per nulla?.

 

[9] Questo il link per seguire l’iter: https://eur-lex.europa.eu/procedure/EN/2018_172 .

 

[10] Art. 3: “plastic means a material consisting of a polymer as defined in point (5) of Article 3 of Regulation (EC) No 1907/2006, to which additives or other substances may have been added, and which can function as a main structural component of final products, with the exception of natural polymers that have not been chemically modified”.

 

[11] Il discrimine è la modifica chimica della struttura del polimero naturale, da che discenderebbe che non rientreranno nell’ambito del divieto i polimeri naturali (es. polpa di cellulosa) la cui struttura non sia stata modificata chimicamente, a prescindere dagli additivi che possano essere stati aggiunti.

 

[12] Letteralmente: “The adapted definition of plastics should therefore cover polymer-based rubber items and bio-based and biodegradable plastics”.

 

[13] Cina, Indonesia, Filippine, Vietnam, Sri Lanka, Thailandia, Egitto, Malesia, Nigeria, Bangladesh, Sudafrica, India, Algeria, Turchia, Pakistan, Brasile, Birmania, Marocco, Nord Corea e Stati Uniti.

Torna all'elenco completo

© Riproduzione riservata