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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
L’economia circolare: un concetto in continua evoluzione
di Stefano Leoni
Categoria: Sviluppo sostenibile
Negli ultimi 7 anni, perlomeno in Unione europea (nel 2105 è stato pubblicato il primo piano europeo d’azione per l’economia circolare e nel 2020 il suo aggiornamento), hanno avuto un particolare sviluppo le politiche di transizione verso l’Economia Circolare, che – semplificando – si può definire come quel modello di produzione e consumo che mira alla massima efficienza nell’uso delle risorse. Modello che – sempre in uno sforzo di semplificazione – si contrappone a quello imperante definito lineare (estrai, consuma e getta via). Secondo le recenti politiche europee dobbiamo abbandonare il secondo per adottare senza via di ritorno il primo modello. Ma quando avremmo raggiunto questo obiettivo? Ossia quando si può affermare che un’economia è definitivamente circolare? In altri termini cos’è l’economia circolare? Dare una risposta a questo quesito non è di facile soluzione. Del resto, un’identità che si fonda su di un rapporto di contrapposizione – circolare vs lineare – non consente di definire nessuno dei due modelli. Basti pensare a quella che esiste tra bene e male. Uno esiste solo se esiste l’altro. Se non ci fosse il brutto, non percepiremmo il bello. Peraltro, può accadere che ciò che viene considerato bello da taluni sia considerato brutto da altri. Questo perché attraverso la contrapposizione i concetti tendono a relativizzarsi e a forgiarsi sulla base della percezione dell’altro e quindi delle ideologie e delle morali – laiche o religiose – che si sono succedute nei diversi periodi storici. Pertanto, se dovessimo accettare una definizione basata sulla contrapposizione, si giungerebbe a prendere atto che l’economia circolare sia un concetto basato sull’accettabilità sociale delle politiche che ne sostengono lo sviluppo. E di conseguenza, dovremmo rinunciare a ritenere che l’obiettivo dell’economia circolare rappresenti una necessità. A questo punto non potrebbe sfuggire l’assurda conclusione a cui porterebbe una simile rinuncia: significherebbe contraddire gli elementi fondanti le politiche ambientali, che invece si basano su analisi e misurazioni scientifiche. E che in questo caso ci dicono che, se non modifichiamo il nostro modello economico, i contraccolpi saranno così devastanti da minare una pacifica convivenza nel nostro pianeta già nel prossimo futuro e, pensando lungo termini, addirittura a compromettere la sopravvivenza della specie umana (in proposito è utile consultare l’ultimo rapporto dell’IPCC). Se queste sono le basi, allora l’economia circolare torna ad essere una necessità, al di là dell’accettazione sociale. Questa prima asseverazione ci permette di piantare già un primo paletto: come per tutte le politiche ambientali, nella definizione degli obiettivi e degli ambiti di intervento deve prevalere l’aspetto scientifico a quello sociale. Mentre nella definizione delle misure da adottare occorre considerare anche il tema dell’accettazione sociale. La realtà ci mostra appieno la rilevanza di questa affermazione: la guerra in Ucraina e la relativa crisi energetica ci ha portato a ripensare – seppur temporaneamente – ad alcune scelte recentemente assunte in materia di carburanti e di misure economiche a loro sostegno. Ma non alla necessità di aumentare la circolarità del nostro modello economico. Quindi, quando parliamo di economia circolare intendiamo due elementi: il punto al quale dobbiamo tendere (obiettivo) e la serie di iniziative che dobbiamo assumere per raggiungere il traguardo, indicandone i settori di intervento, i tempi e la tipologia delle misure. Questo è il metodo assunto dall’Unione Europea. Non esiste una definizione ufficiale di economia circolare, ma solo una strategia che delinea obiettivi – al momento solo intermedi – e misure per raggiungerli. Ad esempio, il settimo programma di azione ambientale dell’UE si prefigge che entro il 2050 si riuscirà a vivere bene nel rispetto dei limiti ecologici del nostro pianeta e, fra l’altro, che prosperità e ambiente sano saranno basati su un’economia circolare senza sprechi. Questa breve proposizione è molto efficace per definire un punto di arrivo e la sua collocazione sistematica. Ma non traduce l’obiettivo in un valore numerico. Ciò, tuttavia, non ha impedito di adottare una strategia settoriale, che fissa traguardi settoriali. Può sembrare un’ambiguità, invece è un corretto modo di procedere. L’obiettivo definito dal 7° programma – vivere bene nel rispetto dei limiti ecologici del nostro pianeta – impegna in primo luogo gli stati membri dell’UE, ma non il resto del mondo. Quindi, i nostri obiettivi dipendono molto dalla circolarità delle altre economie. Il concetto di limite ecologico così può ridursi o espandersi, a seconda delle iniziative che intraprenderanno gli altri stati. E ciò implica che gli obiettivi dovranno essere di volta in volta rivisti. Per una migliore comprensione, è utile richiamare l’inquadramento dell’economia circolare effettuato dall’Agenzia europea per l’ambiente (EEA). Secondo questo istituto, l’economia circolare non consiste solo nel massimizzare l’uso efficiente delle risorse (“senza sprechi”), ma nel farlo deve garantire la sostenibilità ambientale, sociale ed economica (“prosperità e ambiente sano”) del nostro modello di crescita economica. L’EEA sostanzia così l’economia circolare come uno dei pilastri dell’economia verde, collocando di conseguenza l’economia circolare nelle politiche di perseguimento dello sviluppo sostenibile. In questo inquadramento l’EEA spiega che la diminuzione della dipendenza dalle importazioni di risorse strategiche (i rischi di approvvigionamento di materie prime essenziali per la nostra economia da paesi extra EU è stato uno degli aspetti che maggiormente hanno portato alla condivisione dell’adozione delle politiche sull’economia circolare) può essere un obiettivo esplicito dell’economia circolare, ma i sistemi europei di produzione-consumo dipendono da tali importazioni e non opereranno in modo isolato. È cruciale capire le pressioni ambientali che sorgono lungo la catena del valore, dove queste pressioni saranno criticamente sentite e come una transizione verso un’economia circolare può influenzare queste pressioni. Solo allora gli sforzi possono essere mirati alle risorse e agli attori per i quali i benefici economici, ambientali e sociali degli approcci circolari risultano maggiori.
Figura 1: La green economy come framework dell’economia circolare. Fonte: EEA – Circular economy in Europe. Report 2/2016 Sempre l’EAA riguardo l’economia circolare ci dice che nella definizione degli obiettivi, dei settori di intervento e delle azioni dobbiamo tener conto delle categorie di risorse rilevanti per l’ambiente e il benessere umano: il cibo, l’acqua, l’energia e i materiali (compresi i prodotti chimici), in relazione ai sistemi alimentari, di mobilità e abitativi che creano le pressioni dominanti (figura 2). Tutti sono influenzati dai megatrend globali (The European environment state and outlook 2015 — Assessment of global megatrends, European Environment Agency). Comprendere questi megatrend globali e il loro possibile impatto sui sistemi di produzione-consumo europei richiederà ulteriori studi. Inoltre, è necessario comprendere le implicazioni ambientali e sociali dei cambiamenti nelle catene di approvvigionamento, sia in Europa che all’estero. In altri termini, le politiche sull’economia circolare sviluppate dall’UE devono essere in grado, quanto più possibile, di influenzare questi megatrend. Ma quanto può l’Unione Europea circolare riuscire in tale compito? Ovviamente, se ampiamente applicata a livello globale, l’iniziativa europea ha il potenziale di influenzare molti di questi megatrend. Le politiche europee, dal canto loro, sono per lo più mirate agli impatti che si verificano all’interno del mercato interno, sia nelle fasi di produzione che di fine vita dei sistemi. E, poiché la legge sul commercio internazionale limita le opzioni di intervento, per influenzare gli impatti della produzione all’estero la politica europea si è basata generalmente su approcci orientati al consumo, come ad es. le etichette ecologiche. Anche se recentemente è stato effettuato un importante passo in avanti. Infatti è stata programmata l’entrata in vigore di dazi – una carbon tax per i prodotti provenienti da stati extra europei, all’interno dei quali non vige un sistema di tassazione delle emissioni di gas serra come da noi – con l’intento di stimolare le produzioni estere verso la sostenibilità e la circolarità.
Figura 2: Global megatrends (GMTs) and European production-consumption systems. Fonte: EEA – Circular economy in Europe. Report 2/2016 Ciò significa che in UE la coerenza tra gli interventi (politici) sulla produzione e sul consumo sarà la chiave per raggiungere questo obiettivo. Una simile capacità, tuttavia, risente di un serie di variabili che non sono al momento tutte prevedibili, come:
l’aumento della popolazione mondiale;
l’aumento della spesa pro-capite;
la riduzione della capacità rigenerativa degli ecosistemi;
l’evoluzione tecnologica e l’utilizzo di nuovi materiali e prodotti;
Sappiamo che tutto ciò si verificherà, ma non sappiamo in che misura e magnitudo. O ancora, se o quando si verificheranno processi irreversibili o se e quando se ne avvieranno di reversibili. Queste incertezze richiederanno un continuo monitoraggio dell’efficacia delle misure adottate e la valutazione del loro rafforzamento o della necessità di introdurne di nuove.
Quali sono le linee di intervento del piano europeo per l’economia circolare
Abbiamo visto che non esiste una definizione di economia circolare, anche a causa della difficoltà di quantificare un unico obiettivo onnicomprensivo. Per comprendere cosa si intende per economia circolare dobbiamo quindi ricorrere ad un altro approccio. La soluzione possibile è il metodo empirico, indicando come economia circolare tutte quelle iniziative intraprese in suo nome. Ovviamente, facendo riferimento alle fonti istituzionali, come l’UE e prendendo a riferimento il piano d’azione europeo del 2020 (alcuni documenti riferibili all’economia circolare sono stati assunti anche dallo Stato italiano, tuttavia non risultano utili ad aggiungere elementi rispetto a quelli adottato al livello europeo; per esempio le linee programmatiche per l’aggiornamento della strategia nazionale per l’economia circolare si presentano come una mera rassegna di misure adottate dall’UE, ma lontane dal fornire indicazioni sul percorso da adottare per il nostro Paese). Questo piano si articola in diversi capitoli:
prodotti sostenibili (progettazione, consumo e processi produttivi);
catene di valore dei prodotti (elettronica e ITC, batterie e veicoli, imballaggi, plastica, prodotti tessili, costruzione e edilizia, prodotti alimentari e nutrienti);
rifiuti (prevenzione; sostanze tossiche; mercato materie prime seconde; esportazione di rifiuti);
la circolarità al servizio delle persone, delle regioni e delle città;
azioni trasversali (strumento per concorrere alla neutralità climatica, impostazione economica, ricerca, innovazione e digitalizzazione);
azione a livello globale;
monitoraggio.
Sotto il primo capitolo rientrano le misure mirate a:
rendere i prodotti di maggiore qualità, funzionali, sicuri, efficienti e economicamente accessibili, più duraturi e concepiti per essere riutilizzati, riparati o sottoposti a procedimenti di riciclaggio di elevata qualità;
facilitare l’introduzione di nuovi servizi sostenibili, modelli di “prodotto come servizio” (product-as-service) e soluzioni digitali capaci di migliorare la qualità della vita, creare posti di lavoro innovativi, nonché incrementare le conoscenze e le competenze.
In quest’ottica, il piano propone misure indirizzate a:
l’aumento del contenuto riciclato nei prodotti, garantendone al tempo stesso le prestazioni e la sicurezza;
la possibilità di rifabbricazione e di riciclaggio di elevata qualità;
la riduzione delle impronte di carbonio e ambientale;
la limitazione dei prodotti monouso e la lotta contro l’obsolescenza prematura;
l’introduzione del divieto di distruggere i beni durevoli non venduti;
la promozione del modello “prodotto come servizio” o di altri modelli in cui i produttori mantengono la proprietà del prodotto o la responsabilità delle sue prestazioni per l’intero ciclo di vita;
la mobilitazione del potenziale di digitalizzazione delle informazioni relative ai prodotti, ivi comprese soluzioni come i passaporti, le etichettature e le filigrane digitali;
un sistema di ricompense destinate ai prodotti in base alle loro diverse prestazioni in termini di sostenibilità, anche associando i livelli elevati di prestazione all’ottenimento di incentivi.
Riguardo ai consumatori, il piano propone misure che:
garantiscano che essi ricevano informazioni attendibili e pertinenti sui prodotti presso il punto vendita, anche in merito alla durata di vita e alla disponibilità di servizi di riparazione, pezzi di ricambio e manuali di riparazione;
contrastino l’ecologismo di facciata e l’obsolescenza prematura;
stabiliscano requisiti minimi per i marchi/loghi di sostenibilità e per gli strumenti di informazione;
istituiscano un nuovo “diritto alla riparazione”;
considerino nuovi diritti orizzontali sostanziali per i consumatori, ad esempio per quanto riguarda le garanzie estese, la disponibilità di pezzi di ricambio o l’accesso alla riparazione e, nel caso delle ITC e dell’elettronica, ai servizi di upgrading.
Per il consumatore “pubblico” la proposta verte in particolare sull’aggiornamento o introduzione di criteri e obiettivi minimi obbligatori in materia di appalti pubblici verdi (GPP) e l’introduzione di un obbligo di comunicazione per monitorare il ricorso agli appalti pubblici verdi (GPP) senza creare oneri amministrativi ingiustificati per gli acquirenti pubblici. Per quanto riguarda i processi produttivi, le misure indicate riguardano invece:
l’aggiornamento della direttiva sulle emissioni industriali, prevedendo l’integrazione delle pratiche dell’economia circolare nei documenti di riferimento delle prossime BAT (best available techniques);
l’agevolazione della simbiosi industriale con l’istituzione di un sistema di comunicazione e certificazione promosso dall’industria e consentendo l’attuazione della simbiosi industriale;
la promozione del settore della bioeconomia sostenibile e circolare;
la promozione dell’uso delle tecnologie digitali per la tracciabilità, la rintracciabilità e la mappatura delle risorse;
e più in generale la promozione del ricorso alle tecnologie verdi.
Sul fronte delle catene di valore dei prodotti il piano europeo punta soprattutto a:
applicare il regime di responsabilità estesa del produttore o, se già in vigore, a rafforzarlo verso la circolarità;
aumentare gli strumenti per un acquisto ambientalmente consapevole da parte dei consumatori, le opportunità per accedere al servizio al posto dell’acquisto o la gestione corretta del rifiuto prodotto (raee, imballaggi, microplastiche, batterie, tessili);
contrastare lo spreco (cibo e acqua);
sostenere la sostituzione di materiali difficili da trattare con altri più sostenibili (bioplastiche vs plastiche);
introdurre obiettivi minimi di reimpiego di materiale riciclato (batterie, veicoli, oli usati, edilizia, fanghi e nutrienti per il suolo, acqua);
sostenere l’aumento del riutilizzo (batterie, imballaggi, tessili, materiali per la ristorazione);
promuovere la preparazione per il riutilizzo (raee);
introdurre obiettivi più stringenti di raccolta e di riciclaggio (batterie, raee, tessili, edilizia);
ridurre o eliminare le sostanze pericolose.
Più in generale riguardo ai rifiuti il piano si propone:
di ridurne la produzione, introducendo specifici obiettivi per alcuni flussi;
di dimezzare al 2030 la produzione dei rifiuti urbani non riciclati;
di armonizzare i sistemi di raccolta differenziata fra gli stati per aumentare il riciclaggio;
di creare un efficiente mercato per le materie riciclate;
e di limitare l’esportazione fuori dall’UE dei rifiuti realizzando un sistema di impianti capace di soddisfare la domanda interna e assicurando un trattamento di elevata qualità.
Infine, la strategia europea vincola la sua attuazione allo sviluppo delle persone, delle città e delle regioni, al perseguimento degli obiettivi climatici analizzando il modo in cui sia possibile misurare in modo sistematico l’impatto della circolarità sulla mitigazione dei cambiamenti climatici e sull’adattamento ai medesimi, migliorando gli strumenti di modellizzazione per cogliere le ricadute positive dell’economia circolare sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e promuovendo il rafforzamento del ruolo della circolarità nelle future revisioni dei piani nazionali per l’energia e il clima e, se del caso, in altre politiche in materia di clima. Il contesto che viene disegnato dal piano europeo prevede anche l’introduzione di misure economiche per la ricerca, sperimentazione e implementazione di nuove tecnologie, materiali, prodotti, servizi o attività economiche circolari, attenendosi ai principi di partecipazione degli stakeholder, della misurabilità delle azioni e della trasparenza delle decisioni. Tenendo in particolare considerazione le piccole medie imprese. L’attuazione del piano del 2020 è in corso, seppur leggermente rallentata dalla crisi pandemica, e vede la Commissione portare avanti una serie di iniziative connesse alle tematiche sopra riportate. La tabella che segue riporta lo stato dell’arte esistente al momento in cui si scrive e i link per accedere a maggiori informazioni.
Inizitiave in corso
Tema
Stato
Sito Web
altri documenti
rifiuti
Spedizioni di rifiuti – Riesame e valutazione delle norme dell’UE
Proposta di regolamento – COM(2021)709 e atti connessi
Una volta inquadrato il tema, sarebbe opportuno che anche l’Italia si doti di uno strumento simile a quello europeo e tarato sulla realtà del nostro Paese. In attesa di ciò fornisco qualche dato utile allo svolgimento di un simile compito. Tenendo conto dei flussi di materia, secondo l’ISTAT, l’Italia nel 2019 ha immesso nel proprio sistema produttivo e di consumo 637,3 Mt di materiali di cui circa la metà (316 Mt) importati. Circa 152 Mt sono stati esportati i restanti 484 Mt sono stati consumati internamente. A fronte di un consumo complessivo di 484 Mt, durante lo stesso anno sono stati prodotti tra rifiuti urbani e speciali circa 180 Mt, di cui circa 38 Mt sono stati generati dal trattamento di altri rifiuti. In altri termini il 22,5% dei materiali immessi nella produzione e consumo nazionali è divenuto rifiuto. Ipotizzando che il 60% delle biomasse e il 90% dei combustibili fossili siano stati consumati (come cibo e come trasformazione in energia) e non sono stati trasformati in rifiuti ne ricaviamo che nel 2019 ogni 4 kg di materiale immesso nei processi di produzione e consumo nazionali 1 kg è diventato rifiuto. Nel 2019 è stata recuperata materia per una quantità complessiva di quasi 125 Mt (113 Mt di rifiuti speciali e circa 13,5 Mt di urbani), quindi i restanti 55 Mt sono andati in smaltimento o in recupero energetico. Ossia più del 10% del consumo interno di materia non ha trovato una piena valorizzazione. Nello stesso anno circa 270 Mt di materiali durevoli, non sono divenuti rifiuti e sono stoccati nei beni presenti nel mercato ancora nella fase di utilizzo. Questo significa che ogni 4 anni accumuliamo nel mercato più di 1 Mldt di materiali durevoli, che potrebbero diventare le miniere di approvvigionamento per il futuro. Sotto il profilo economico, la bilancia commerciale inverte i risultati di quella fisica: secondo l’Osservatorio economico del MISE nel 2018 il saldo import/export italiano è stato positivo per quasi 40 Mld€, tuttavia il costo complessivo delle nostre importazioni è stato di oltre 426 Mld€, ma con un tasso di crescita superiore a quello delle esportazioni. Andamento registrato anche nel 2017. Questi numeri ci dicono che l’Italia è un paese di trasformazione delle risorse, che è povero di materie prime e che dipende pesantemente dall’importazione da mercati esteri e che quindi è troppo esposto alla variazione dei prezzi a livello internazionale. Prezzi che aumenteranno con l’incremento della domanda mondiale di risorse, attesa nel medio e lungo termine a causa dell’incremento demografico e della ricchezza dei paesi. Si rammenta, in proposito, che l’UNEP ha previsto che rispetto al 2015 nel 2060 raddoppierà la loro estrazione globale, dopo aver registrato un aumento di quattro volte tra il 1970 e il 2015. La conversione verso la circolarità è dunque una via obbligata per un’economia manufatturiera come quella italiana. E permetterebbe di coniugare vantaggi ambientali, economici e sociali. Qualche altro dato può essere utile per comprenderne la portata:
l’Italia risulta una rilevante importatrice – il 6,5% di tutte le importazioni rispetto a una media UE del 2,3% – di prodotti del cemento, ferro, acciaio, alluminio, fertilizzanti ed elettricità, che sono responsabili del 45% delle emissioni di CO2 dei settori a rischio di rilocalizzazione;
secondo la Commissione europea l’applicazione dei principi dell’economia circolare nell’insieme dell’economia dell’UE potrebbe aumentarne il PIL di un ulteriore 0,5 % entro il 2030, creando circa 700 000 nuovi posti di lavoro;
esiste un chiaro vantaggio commerciale anche per le singole imprese: le imprese manifatturiere dell’UE destinano in media circa il 40 % della spesa all’acquisto di materiali, i modelli a ciclo chiuso possono pertanto incrementare la loro redditività, proteggendoli nel contempo dalle fluttuazioni dei prezzi delle risorse.
Stefano Leoni Responsabile Circular Economy della Fondazione Sviluppo Sostenibile Italia. Giurista, già presidente del WWF Italia, membro del Council del WWF International, presidente del Centro Regionale per le Bonifiche, docente universitario. È stato commissario delegato per il superamento dell’emergenza ambientale dell’ACNA di Cengio e della Valle Bormida, nonché membro della Commissione per la Valutazione di impatto ambientale presso il Ministero dell’ambiente, ha partecipato a diversi gruppi istruttori per il rilascio dell’AIA. La sua pagina di presentazione sul sito FondazioneSviluppoSostenibile.org. Un suo video sul sito WWF Italia.
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L’economia circolare: un concetto in continua evoluzione
di Stefano Leoni
Negli ultimi 7 anni, perlomeno in Unione europea (nel 2105 è stato pubblicato il primo piano europeo d’azione per l’economia circolare e nel 2020 il suo aggiornamento), hanno avuto un particolare sviluppo le politiche di transizione verso l’Economia Circolare, che – semplificando – si può definire come quel modello di produzione e consumo che mira alla massima efficienza nell’uso delle risorse. Modello che – sempre in uno sforzo di semplificazione – si contrappone a quello imperante definito lineare (estrai, consuma e getta via).
Secondo le recenti politiche europee dobbiamo abbandonare il secondo per adottare senza via di ritorno il primo modello.
Ma quando avremmo raggiunto questo obiettivo? Ossia quando si può affermare che un’economia è definitivamente circolare? In altri termini cos’è l’economia circolare?
Dare una risposta a questo quesito non è di facile soluzione.
Del resto, un’identità che si fonda su di un rapporto di contrapposizione – circolare vs lineare – non consente di definire nessuno dei due modelli.
Basti pensare a quella che esiste tra bene e male. Uno esiste solo se esiste l’altro. Se non ci fosse il brutto, non percepiremmo il bello. Peraltro, può accadere che ciò che viene considerato bello da taluni sia considerato brutto da altri. Questo perché attraverso la contrapposizione i concetti tendono a relativizzarsi e a forgiarsi sulla base della percezione dell’altro e quindi delle ideologie e delle morali – laiche o religiose – che si sono succedute nei diversi periodi storici.
Pertanto, se dovessimo accettare una definizione basata sulla contrapposizione, si giungerebbe a prendere atto che l’economia circolare sia un concetto basato sull’accettabilità sociale delle politiche che ne sostengono lo sviluppo. E di conseguenza, dovremmo rinunciare a ritenere che l’obiettivo dell’economia circolare rappresenti una necessità.
A questo punto non potrebbe sfuggire l’assurda conclusione a cui porterebbe una simile rinuncia: significherebbe contraddire gli elementi fondanti le politiche ambientali, che invece si basano su analisi e misurazioni scientifiche.
E che in questo caso ci dicono che, se non modifichiamo il nostro modello economico, i contraccolpi saranno così devastanti da minare una pacifica convivenza nel nostro pianeta già nel prossimo futuro e, pensando lungo termini, addirittura a compromettere la sopravvivenza della specie umana (in proposito è utile consultare l’ultimo rapporto dell’IPCC).
Se queste sono le basi, allora l’economia circolare torna ad essere una necessità, al di là dell’accettazione sociale. Questa prima asseverazione ci permette di piantare già un primo paletto: come per tutte le politiche ambientali, nella definizione degli obiettivi e degli ambiti di intervento deve prevalere l’aspetto scientifico a quello sociale. Mentre nella definizione delle misure da adottare occorre considerare anche il tema dell’accettazione sociale.
La realtà ci mostra appieno la rilevanza di questa affermazione: la guerra in Ucraina e la relativa crisi energetica ci ha portato a ripensare – seppur temporaneamente – ad alcune scelte recentemente assunte in materia di carburanti e di misure economiche a loro sostegno. Ma non alla necessità di aumentare la circolarità del nostro modello economico.
Quindi, quando parliamo di economia circolare intendiamo due elementi: il punto al quale dobbiamo tendere (obiettivo) e la serie di iniziative che dobbiamo assumere per raggiungere il traguardo, indicandone i settori di intervento, i tempi e la tipologia delle misure.
Questo è il metodo assunto dall’Unione Europea. Non esiste una definizione ufficiale di economia circolare, ma solo una strategia che delinea obiettivi – al momento solo intermedi – e misure per raggiungerli.
Ad esempio, il settimo programma di azione ambientale dell’UE si prefigge che entro il 2050 si riuscirà a vivere bene nel rispetto dei limiti ecologici del nostro pianeta e, fra l’altro, che prosperità e ambiente sano saranno basati su un’economia circolare senza sprechi. Questa breve proposizione è molto efficace per definire un punto di arrivo e la sua collocazione sistematica. Ma non traduce l’obiettivo in un valore numerico. Ciò, tuttavia, non ha impedito di adottare una strategia settoriale, che fissa traguardi settoriali.
Può sembrare un’ambiguità, invece è un corretto modo di procedere.
L’obiettivo definito dal 7° programma – vivere bene nel rispetto dei limiti ecologici del nostro pianeta – impegna in primo luogo gli stati membri dell’UE, ma non il resto del mondo. Quindi, i nostri obiettivi dipendono molto dalla circolarità delle altre economie. Il concetto di limite ecologico così può ridursi o espandersi, a seconda delle iniziative che intraprenderanno gli altri stati. E ciò implica che gli obiettivi dovranno essere di volta in volta rivisti.
Per una migliore comprensione, è utile richiamare l’inquadramento dell’economia circolare effettuato dall’Agenzia europea per l’ambiente (EEA).
Secondo questo istituto, l’economia circolare non consiste solo nel massimizzare l’uso efficiente delle risorse (“senza sprechi”), ma nel farlo deve garantire la sostenibilità ambientale, sociale ed economica (“prosperità e ambiente sano”) del nostro modello di crescita economica. L’EEA sostanzia così l’economia circolare come uno dei pilastri dell’economia verde, collocando di conseguenza l’economia circolare nelle politiche di perseguimento dello sviluppo sostenibile.
In questo inquadramento l’EEA spiega che la diminuzione della dipendenza dalle importazioni di risorse strategiche (i rischi di approvvigionamento di materie prime essenziali per la nostra economia da paesi extra EU è stato uno degli aspetti che maggiormente hanno portato alla condivisione dell’adozione delle politiche sull’economia circolare) può essere un obiettivo esplicito dell’economia circolare, ma i sistemi europei di produzione-consumo dipendono da tali importazioni e non opereranno in modo isolato. È cruciale capire le pressioni ambientali che sorgono lungo la catena del valore, dove queste pressioni saranno criticamente sentite e come una transizione verso un’economia circolare può influenzare queste pressioni. Solo allora gli sforzi possono essere mirati alle risorse e agli attori per i quali i benefici economici, ambientali e sociali degli approcci circolari risultano maggiori.
Figura 1: La green economy come framework dell’economia circolare.
Fonte: EEA – Circular economy in Europe. Report 2/2016
Sempre l’EAA riguardo l’economia circolare ci dice che nella definizione degli obiettivi, dei settori di intervento e delle azioni dobbiamo tener conto delle categorie di risorse rilevanti per l’ambiente e il benessere umano: il cibo, l’acqua, l’energia e i materiali (compresi i prodotti chimici), in relazione ai sistemi alimentari, di mobilità e abitativi che creano le pressioni dominanti (figura 2). Tutti sono influenzati dai megatrend globali (The European environment state and outlook 2015 — Assessment of global megatrends, European Environment Agency). Comprendere questi megatrend globali e il loro possibile impatto sui sistemi di produzione-consumo europei richiederà ulteriori studi. Inoltre, è necessario comprendere le implicazioni ambientali e sociali dei cambiamenti nelle catene di approvvigionamento, sia in Europa che all’estero.
In altri termini, le politiche sull’economia circolare sviluppate dall’UE devono essere in grado, quanto più possibile, di influenzare questi megatrend. Ma quanto può l’Unione Europea circolare riuscire in tale compito?
Ovviamente, se ampiamente applicata a livello globale, l’iniziativa europea ha il potenziale di influenzare molti di questi megatrend. Le politiche europee, dal canto loro, sono per lo più mirate agli impatti che si verificano all’interno del mercato interno, sia nelle fasi di produzione che di fine vita dei sistemi. E, poiché la legge sul commercio internazionale limita le opzioni di intervento, per influenzare gli impatti della produzione all’estero la politica europea si è basata generalmente su approcci orientati al consumo, come ad es. le etichette ecologiche.
Anche se recentemente è stato effettuato un importante passo in avanti. Infatti è stata programmata l’entrata in vigore di dazi – una carbon tax per i prodotti provenienti da stati extra europei, all’interno dei quali non vige un sistema di tassazione delle emissioni di gas serra come da noi – con l’intento di stimolare le produzioni estere verso la sostenibilità e la circolarità.
Figura 2: Global megatrends (GMTs) and European production-consumption systems.
Fonte: EEA – Circular economy in Europe. Report 2/2016
Ciò significa che in UE la coerenza tra gli interventi (politici) sulla produzione e sul consumo sarà la chiave per raggiungere questo obiettivo.
Una simile capacità, tuttavia, risente di un serie di variabili che non sono al momento tutte prevedibili, come:
Sappiamo che tutto ciò si verificherà, ma non sappiamo in che misura e magnitudo. O ancora, se o quando si verificheranno processi irreversibili o se e quando se ne avvieranno di reversibili. Queste incertezze richiederanno un continuo monitoraggio dell’efficacia delle misure adottate e la valutazione del loro rafforzamento o della necessità di introdurne di nuove.
Quali sono le linee di intervento del piano europeo per l’economia circolare
Abbiamo visto che non esiste una definizione di economia circolare, anche a causa della difficoltà di quantificare un unico obiettivo onnicomprensivo. Per comprendere cosa si intende per economia circolare dobbiamo quindi ricorrere ad un altro approccio.
La soluzione possibile è il metodo empirico, indicando come economia circolare tutte quelle iniziative intraprese in suo nome. Ovviamente, facendo riferimento alle fonti istituzionali, come l’UE e prendendo a riferimento il piano d’azione europeo del 2020 (alcuni documenti riferibili all’economia circolare sono stati assunti anche dallo Stato italiano, tuttavia non risultano utili ad aggiungere elementi rispetto a quelli adottato al livello europeo; per esempio le linee programmatiche per l’aggiornamento della strategia nazionale per l’economia circolare si presentano come una mera rassegna di misure adottate dall’UE, ma lontane dal fornire indicazioni sul percorso da adottare per il nostro Paese).
Questo piano si articola in diversi capitoli:
Sotto il primo capitolo rientrano le misure mirate a:
In quest’ottica, il piano propone misure indirizzate a:
Riguardo ai consumatori, il piano propone misure che:
Per il consumatore “pubblico” la proposta verte in particolare sull’aggiornamento o introduzione di criteri e obiettivi minimi obbligatori in materia di appalti pubblici verdi (GPP) e l’introduzione di un obbligo di comunicazione per monitorare il ricorso agli appalti pubblici verdi (GPP) senza creare oneri amministrativi ingiustificati per gli acquirenti pubblici.
Per quanto riguarda i processi produttivi, le misure indicate riguardano invece:
Sul fronte delle catene di valore dei prodotti il piano europeo punta soprattutto a:
Più in generale riguardo ai rifiuti il piano si propone:
Infine, la strategia europea vincola la sua attuazione allo sviluppo delle persone, delle città e delle regioni, al perseguimento degli obiettivi climatici analizzando il modo in cui sia possibile misurare in modo sistematico l’impatto della circolarità sulla mitigazione dei cambiamenti climatici e sull’adattamento ai medesimi, migliorando gli strumenti di modellizzazione per cogliere le ricadute positive dell’economia circolare sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e promuovendo il rafforzamento del ruolo della circolarità nelle future revisioni dei piani nazionali per l’energia e il clima e, se del caso, in altre politiche in materia di clima.
Il contesto che viene disegnato dal piano europeo prevede anche l’introduzione di misure economiche per la ricerca, sperimentazione e implementazione di nuove tecnologie, materiali, prodotti, servizi o attività economiche circolari, attenendosi ai principi di partecipazione degli stakeholder, della misurabilità delle azioni e della trasparenza delle decisioni. Tenendo in particolare considerazione le piccole medie imprese.
L’attuazione del piano del 2020 è in corso, seppur leggermente rallentata dalla crisi pandemica, e vede la Commissione portare avanti una serie di iniziative connesse alle tematiche sopra riportate.
La tabella che segue riporta lo stato dell’arte esistente al momento in cui si scrive e i link per accedere a maggiori informazioni.
Economia Circolare: la situazione dell’Italia
Una volta inquadrato il tema, sarebbe opportuno che anche l’Italia si doti di uno strumento simile a quello europeo e tarato sulla realtà del nostro Paese. In attesa di ciò fornisco qualche dato utile allo svolgimento di un simile compito.
Tenendo conto dei flussi di materia, secondo l’ISTAT, l’Italia nel 2019 ha immesso nel proprio sistema produttivo e di consumo 637,3 Mt di materiali di cui circa la metà (316 Mt) importati. Circa 152 Mt sono stati esportati i restanti 484 Mt sono stati consumati internamente.
A fronte di un consumo complessivo di 484 Mt, durante lo stesso anno sono stati prodotti tra rifiuti urbani e speciali circa 180 Mt, di cui circa 38 Mt sono stati generati dal trattamento di altri rifiuti. In altri termini il 22,5% dei materiali immessi nella produzione e consumo nazionali è divenuto rifiuto.
Ipotizzando che il 60% delle biomasse e il 90% dei combustibili fossili siano stati consumati (come cibo e come trasformazione in energia) e non sono stati trasformati in rifiuti ne ricaviamo che nel 2019 ogni 4 kg di materiale immesso nei processi di produzione e consumo nazionali 1 kg è diventato rifiuto.
Nel 2019 è stata recuperata materia per una quantità complessiva di quasi 125 Mt (113 Mt di rifiuti speciali e circa 13,5 Mt di urbani), quindi i restanti 55 Mt sono andati in smaltimento o in recupero energetico. Ossia più del 10% del consumo interno di materia non ha trovato una piena valorizzazione.
Nello stesso anno circa 270 Mt di materiali durevoli, non sono divenuti rifiuti e sono stoccati nei beni presenti nel mercato ancora nella fase di utilizzo. Questo significa che ogni 4 anni accumuliamo nel mercato più di 1 Mldt di materiali durevoli, che potrebbero diventare le miniere di approvvigionamento per il futuro.
Sotto il profilo economico, la bilancia commerciale inverte i risultati di quella fisica: secondo l’Osservatorio economico del MISE nel 2018 il saldo import/export italiano è stato positivo per quasi 40 Mld€, tuttavia il costo complessivo delle nostre importazioni è stato di oltre 426 Mld€, ma con
un tasso di crescita superiore a quello delle esportazioni. Andamento registrato anche nel 2017.
Questi numeri ci dicono che l’Italia è un paese di trasformazione delle risorse, che è povero di materie prime e che dipende pesantemente dall’importazione da mercati esteri e che quindi è troppo esposto alla variazione dei prezzi a livello internazionale. Prezzi che aumenteranno con l’incremento della domanda mondiale di risorse, attesa nel medio e lungo termine a causa dell’incremento demografico e della ricchezza dei paesi.
Si rammenta, in proposito, che l’UNEP ha previsto che rispetto al 2015 nel 2060 raddoppierà la loro estrazione globale, dopo aver registrato un aumento di quattro volte tra il 1970 e il 2015.
La conversione verso la circolarità è dunque una via obbligata per un’economia manufatturiera come quella italiana. E permetterebbe di coniugare vantaggi ambientali, economici e sociali.
Qualche altro dato può essere utile per comprenderne la portata:
Stefano Leoni
Responsabile Circular Economy della Fondazione Sviluppo Sostenibile Italia. Giurista, già presidente del WWF Italia, membro del Council del WWF International, presidente del Centro Regionale per le Bonifiche, docente universitario. È stato commissario delegato per il superamento dell’emergenza ambientale dell’ACNA di Cengio e della Valle Bormida, nonché membro della Commissione per la Valutazione di impatto ambientale presso il Ministero dell’ambiente, ha partecipato a diversi gruppi istruttori per il rilascio dell’AIA.
La sua pagina di presentazione sul sito FondazioneSviluppoSostenibile.org.
Un suo video sul sito WWF Italia.
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