Preveniamo rischi Risolviamo problemi Formiamo competenze
"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Il principio di precauzione nella materia dell’elettrosmog assume una valenza più vigorosa che in altri settori del diritto ambientale, connotandosi come vero e proprio strumento di gestione di un rischio. Si ricorda che il principio di precauzione si è affermato definitivamente, a livello internazionale, nel 1992, con la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (Conference on Environment and Development- UNCED) di Rio de Janeiro e qui consacrato nell’art. 15 della Dichiarazione di Rio (Declaration on Environment and Development), in cui si dichiara che: “Al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale[1]”
Parlare di rischio, in riferimento all’elettrosmog, piuttosto che di “inquinamento”, appare più appropriato proprio perché l’inquinamento – con cui si intende, in generale, la contaminazione dell’aria, dell’acqua, del suolo con sostanze e materiali dannosi per la salute dell’uomo e dell’ambiente e capaci d’interferire con i naturali meccanismi di funzionamento degli ecosistemi o compromettere la qualità della vita – presuppone un fatto, che però è ancora da dimostrare[2]. Incertezza e distinzione tra tutela apprestata in riferimento ad un danno certo e tutela apprestata in riferimento ad un danno possibile. La strategia di gestione del rischio dipende dalla scala di priorità che viene adottata: scala di priorità nella valutazione comparata con altri rischi ambientali e sanitari, al fine di graduare gli sforzi per ottenere la miglior tutela complessiva della salute e dell’ambiente, scala di priorità fra tutela ambientale e sanitaria ed altri interessi sociali ed economici. La scelta di una strategia di gestione del rischio fondato su un “elevato livello di tutela ambientale e sanitaria”[3] comporta l’adozione del principio di precauzione e delle migliori tecniche disponibili. Nell’incertezza, tra sottovalutare o sopravvalutare un rischio, adottando il principio di precauzione si sceglie di preferire la possibilità di sbagliare sopravvalutando il rischio. Con la normativa dettata dalla L. 22 febbraio 2001, n. 36, “Legge quadro sulla protezione delle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici”, il nostro Paese ha scelto la linea dell’elevato livello di tutela ambientale e sanitaria. La legge quadro, “un’opera prima”, come è stata definita da autorevole dottrina[4], ha riconosciuto l’esistenza e la serietà del problema elettrosmog, facendo un passo in avanti rispetto al silenzio della normativa comunitaria sui possibili effetti a lungo termine. Nel far questo, ha fondato buona parte della disciplina in essa contenuta sul principio di precauzione,[5] codificando quindi un giudizio di incertezza, legato al concetto di “rischio” sugli effetti a lungo termine dei CEM, attraverso prescrizioni normative ed operative. Il tema di grande rilevanza, studiato a livello internazionale, fin dal 1974, quando l’IRPA (International Radiation Protection Association) formò un gruppo di lavoro sulla radiazioni non-ionizzanti (NIR), sulla cui base si formò nel 1977 un Comitato internazionale, l’INIRC (International Non-Ionizing Radiation Committee). L’IRPA-INIRC sviluppa una collaborazione con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e con l’UNEP (Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite). Fino alla creazione nel 1992 di una nuova Commissione internazionale (ICNIRP), sul cui studio sono state poi emanate nel 1998 le “Linee guida per i limiti di esposizione ai vari tipi di campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici”[6].
L’ICNIRP ha successivamente approfondito i suoi studi con un processo di revisione delle Linee guida, con la previsione di due sistemi per affrontare il tema del rischio cancerogeno riferito ad esposizioni prolungate. I due sistemi proposti si basano su due diverse ipotesi di base:
– che la cancerogenità dei campi elettromagnetici sia provata;
– che il nesso causale tra esposizione prolungata ed inquinamento elettromagnetico ed aumento significativo del rischio di cancro non sia provato con sufficiente certezza.
Nel primo caso non c’è la proposta di un limite di soglia, ma una relazione fra entità dell’esposizione e rischio di cancro. Nel secondo caso, accettando un margine di certezza, non si adottano specifici limiti di tipo sanitario, ma si adottano obiettivi di qualità da raggiungere in un certo arco di tempo ed in modo differenziato[7].
Evoluzione del principio di precauzione
Il principio di precauzione è divenuto nel tempo principio condiviso in ambito europeo attraverso la ratifica del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, istitutivo della Comunità Europea, con cui lo stesso è stato elevato a fondamento della politica comunitaria ambientale, insieme ai principi del “chi inquina paga” e dell’azione preventiva. L’art. 174, par. 2, del Trattato istitutivo della Comunità Europea testualmente recita che la politica in materia ambientale della Comunità “è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”. La Corte di Giustizia, al fine di specificare l’esatta interpretazione ed i confini del suddetto principio, ha avuto modo di affermare che esso fa obbligo alle autorità interessate di adottare provvedimenti appropriati “al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici”. Ed ancora va applicato tenendo conto che “in materia sanitaria il principio di precauzione implica che, nel caso in cui sussistano incertezze quanto all’esistenza o alla portata dei rischi per la salute delle persone, le istituzioni possano prendere provvedimenti di tutela senza dover attendere che la realtà e la gravità di tali rischi siano pienamente dimostrate. Il principio in esame è stato politicamente accettato come strategia nell’ambito della gestione del rischio; esso è auspicabile nel momento in cui le prove scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte, non consentono cioè una valutazione particolareggiata del rischio, e vi sono indicazioni e ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possono essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto. L’applicazione del principio di precauzione interviene unicamente in un’ipotesi di rischio potenziale (diversamente troverebbe applicazione il principio di prevenzione), anche nell’eventualità in cui tale rischio non può essere interamente dimostrato, o la sua portata quantificata, o i suoi effetti determinati per l’insufficienza o il carattere non concludente dei dati scientifici. I fattori che attivano il ricorso al principio di precauzione sono:
– l’identificazione di effetti potenzialmente negativi, derivanti da un fenomeno;
– una valutazione scientifica degli effetti potenzialmente negativi, la quale, per l’insufficienza di dati, il loro carattere inconcludente o la loro imprecisione, non consenta di determinare con sufficiente certezza il rischio in questione.
L’analisi del rischio si compone di tre componenti principali: la valutazione del rischio[8], la scelta della strategia di gestione del rischio, la comunicazione del rischio. Nell’eventualità che la valutazione scientifica non permetta una stima certa del rischio e della sua eventuale gravità per la salute della popolazione e l’ambiente, non si può trascurare l’ipotesi di un pericolo e si deve comunque scegliere una strategia di gestione del rischio. Tale intervento, derivante dal ricorso al principio di precauzione, può esprimersi come inazione o come adozione di misure specifiche, in funzione del livello di rischio accettabile prescelto. Gli atti intrapresi dovrebbero essere il frutto di un’analisi scientifica attenta e puntuale, di una procedura trasparente di valutazione che si avvale di un approccio quanto più partecipato con il coinvolgimento di tutti i diversi portatori di interessi, così da non trascurare alcuna opzione di gestione del rischio. Tali provvedimenti, inoltre, che in qualsiasi caso influenzeranno il tipo di vigilanza che può essere esercitata sul territorio, potranno essere di varia natura e non necessariamente dovranno produrre effetti giuridici suscettibili di controllo giurisdizionale, ad esempio potranno configurarsi come un programma di ricerca o una campagna informativa rivolta alla popolazione. Corollario del principio di precauzione, in questa materia, è il principio c.d. A.L.A.R.A. (As Low As Reasonable Possible)[9], elaborato dall’Organizzazione mondiale della sanità, il quale imporrebbe di escludere l’esposizione della popolazione e dei lavoratori a radiazioni ragionevolmente evitabili, per cui, una volta effettuata la scelta tecnologica, l’esposizione agli effetti potenzialmente nocivi della stessa deve rimanere al livello più basso ragionevolmente ottenibile. Il nucleo essenziale degli obblighi incombenti sul legislatore si sostanzia allora nel: disciplinare la materia in modo da assicurare che l’esposizione si attesti sui livelli di campo più bassi in concreto realizzabili. Tale obiettivo, ovviamente, non può dirsi raggiunto attraverso la semplice previsione di limiti di esposizione e valori di attenzione, che si traduce nella semplice imposizione di una soglia massima di valori di campo priva di carattere incentivante rispetto al mantenimento dei campi nei valori più bassi in concreto realizzabili. A tanto si aggiunga che lo stesso valore cautelativo di detti limiti massimi è assai dubbio in ragione del fatto che essi (inevitabilmente) non riflettono una effettiva conoscenza delle conseguenze dell’esposizione a lungo termine. [10]
In che modo le norme fondate sul principio di precauzione possono rappresentare il mezzo di ricorso a forme concrete di tutela? Basti pensare che la disciplina in materia non prevede un adeguato sistema sanzionatorio (si veda infra) al quale ricorrere in caso di violazione dei valori limite fissati dalla stessa disciplina e che questo elemento avrebbe un effetto disincentivante sulle finalità precauzionali/preventive che si volevano realizzare attraverso la predisposizione di una normativa ad hoc. Ciò ha reso tuttora necessario ricorrere ad altri strumenti di tutela, quali ad esempio, in sede civilistica l’art. 700 c.p.c., ai fini dell’ottenimento di un provvedimento cautelare in funzione di tutela della salute, anche se in quella sede ostacolo ad una efficace tutela è rappresentato dalla difficile dimostrazione dell’esistenza del nesso causale.
Recente evoluzione giurisprudenziale sul parametro di rischio
Lo sviluppo della tecnologia ha portato allo scontro tra esigenze di produzione e diritto alla salute.
La relativa novità del fenomeno e quindi l’inesistenza di studi che si basino su un’osservazione degli effetti dell’elettrosmog protratta per periodi di tempo significativamente lunghi, fa si che attualmente non vi siano certezze e conclusioni univoche circa i possibili effetti cronici conseguenti ad esposizioni prolungate nel tempo alle radiazioni non ionizzanti prodotte dai campi elettromagnetici. Questo, tuttavia, non deve rappresentare a tutti i costi un ostacolo insormontabile all’apprestamento di mezzi di tutela del diritto fondamentale della salute, ove si consideri, tra l’altro, che la certezza scientifica possa essa stessa incontrare degli ostacoli nel suo formarsi. Ora, a scanso d’ogni dubbio, è giurisprudenza (più risalente nel tempo) che fino a quando non verrà scientificamente negato il rischio per la salute legato all’esposizione a campi elettromagnetici, potrà sussistere un nesso causale e, dunque, la responsabilità penale del soggetto agente, cui sia addebitabile quanto meno una colpa generica ( Trib. Rimini, sent. 697-99). [11]
La Corte d’appello di Brescia – Sezione lavoro, nella sentenza 22 dicembre 2009, n. 614 -, relativa ad una richiesta di indennità per malattia professionale formulata all’Inail da un dirigente d’azienda, ha dichiarato risarcibile, a carico dell’istituto, il danno cagionato dall’utilizzo di telefono cellulare o cordless in ambito lavorativo per una media di cinque/sei ore al giorno, per un periodo di dodici anni, in quanto è altamente probabile un ruolo, almeno concausale, delle radiofrequenze nella genesi di neoplasie. Ciò anche se quella rivelata dalla causa di lavoro davanti alla Corte d’appello di Brescia è una “causalità debole” espressione del “modello probabilistico – induttivo” in “una situazione individuale”. Anche se questo, tuttavia, appare plausibile, dato che il lasso di tempo tutto sommato ristretto intercorso dalla diffusione su larga scala nella nostra società (un decennio o poco più) degli strumenti tecnologici in questione impedisce di avere un quadro sufficientemente attendibile degli effetti di questi ultimi sulla salute umana, ossia, più precisamente, preclude ancora acquisizioni scientifiche connotate da caratteri maggiormente stringenti della predetta “causalità debole”. Ma solo perché quando ci si trova in presenza di condotte “sistemiche” tanto diffusivamente lesive di un bene giuridico fondamentale come la salute pubblica, quest’ultimo non può non godere anche di una forma di tutela penale da quei comportamenti spesso tanto scellerati quanto, per l’appunto, “di sistema”[12]. Quello che appare rivoluzionario in questa pronuncia è ciò che ha portato il Tribunale a ritenere affidabili gli studi citati dal CTU (si tratta in particolare della “review” della International Commission on Non–Ionizing Radiation Protection, ossia di una revisione critica della quasi totalità delle indagini epidemiologiche effettuate fino al 2009 e di un lavoro del 2009 di M. Kundi dell’Università di Vienna), per cui seppur allo stato attuale, non vi sia “una convincente evidenza del ruolo delle radiofrequenze nella genesi dei tumori”, ciononostante gli studi presi in esame, “non ne hanno escluso l’associazione”. Sino ad ora, infatti, in caso di controversie analoghe si era sempre fatto riferimento ad uno studio dell’OMS del 2000, basato – si legge in motivazione – “su dati, ovviamente, ancor più risalenti”, il quale “non tiene conto dell’uso più recente, ben più massiccio e diffuso, di tali apparecchi e del fatto che si tratti di tumori a lenta insorgenza: pertanto gli studi del 2009, basati su dati più recenti, sono di per sé più attendibili”, tanto più che “non si tratta di studi su un basso numero di casi, ma al contrario del tutto esaustivo in quanto si tratta di 678 casi”. Non solo, il Collegio giudicante si sofferma su un ulteriore elemento a supporto del giudizio di attendibilità, laddove afferma in motivazione che detti studi “, a differenza dello studio IARC, co-finanziato dalle ditte produttrici di telefoni cellulari, sono indipendenti.” La Corte ha così ritenuto nella specie riconoscersi un nesso di causalità all’80% tra il prolungato utilizzo di un telefono e l’insorgenza di un tumore cerebrale, con conseguente obbligo di risarcimento da parte dell’Inail, spostando chiaramente “il piatto della bilancia” del principio di precauzione verso forme più cautelative e previdenti.
[1] . Il testo originale del Principio di Precauzione è contenuto nella Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e sullo Sviluppo“Principle 15 – In order to protect the environment, the precautionary approach shall be widely applied by States according to their capabilities. Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degradation.”
[2] S. MAGLIA, in Elettrosmog – Dalle origini alla legge quadro di E. RONCHI, F. GIOVANELLI, S. MAGLIA, Piacenza, 2001, pagg 25 e segg
[3] Come previsto dal Trattato sull’Unione Europea.
[4] F. GIOVANELLI, in Elettrosmog – Dalle origini alla legge quadro di E. RONCHI, F. GIOVANELLI, S. MAGLIA, cit., pagg 25 e segg.
[6] Sulla cui base, il Consiglio dell’Unione europea ha emanato la Raccomandazione 1999/519/CE del 12 luglio 1999, relativa alla limitazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici da 0 a 300 GHz
[7] Si veda: E. RONCHI, Per un elevato livello di tutela ambientale e sanitaria in E. RONCHI, F. GIOVANELLI, S. MAGLIA, Elettrosmog. Dalle origini alla legge quadro, cit., pagg. 23 e segg.
[8] La valutazione del rischio può essere schematizzata nei seguenti punti:
– Identificazione del pericolo, agente chimico/fisico/biologico che può indurre effetti negativi sulla popolazione e sull’ambiente;
– Caratterizzazione del pericolo, ovvero la determinazione, in termini quantitativi e/o qualitativi della natura e della gravità degli effetti nocivi collegati con gli agenti o le attività causali, dei rapporti dose-risposta nei casi in cui il nesso causale è stato individuato aldilà di ogni ragionevole dubbio;
– Valutazione dell’esposizione, ovvero della probabilità di esposizione all’agente in questione. Oltre alle informazioni sugli agenti stessi (fonte, distribuzione, concentrazioni, caratteristiche, etc) sono necessari dati sulla probabilità di contaminazione o esposizione della popolazione o dell’ambiente al pericolo;
– Caratterizzazione del rischio, consistente in una stima qualitativa e/o quantitativa che consideri le incertezza, la probabilità, la frequenza e la gravità degli effetti negativi individuati, conosciuti o potenziali che possono verificarsi.
[9] Principio richiamato nella Risoluzione del Parlamento europeo del 5 maggio 1994, “Sulla lotta contro gli inconvenienti provocati dalle radiazioni non-ionizzanti”, da cui è scaturita la Raccomandazione 1999/519/CE del 12 luglio 1999.
[10] Si veda: V. TRIGGIANI, Il decreto “Gasparri” ed i principi fondamentali di politica ambientale comunitaria, in Lexambiente.it, rivista giuridica on- line.
[11] Si veda: G. PETTENATI , Tutela penale dall’inquinamento da radiazioni, in Lexambiente.it, rivista giuridica on line.
[12] Si veda: S. PALMISANO, Tumori e cellulari. Note a margine di una sentenza che serve alla tutela della salute pubblica, in Lexambiente.it, rivista giuridica on line.
Categorie
Elettrosmog: rischio e principio di precauzione
di Giovanni Bellenda, Maria Anna Labarile
Gestione del rischio ambientale
Il principio di precauzione nella materia dell’elettrosmog assume una valenza più vigorosa che in altri settori del diritto ambientale, connotandosi come vero e proprio strumento di gestione di un rischio.
Si ricorda che il principio di precauzione si è affermato definitivamente, a livello internazionale, nel 1992, con la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (Conference on Environment and Development- UNCED) di Rio de Janeiro e qui consacrato nell’art. 15 della Dichiarazione di Rio (Declaration on Environment and Development), in cui si dichiara che: “Al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale[1]”
Parlare di rischio, in riferimento all’elettrosmog, piuttosto che di “inquinamento”, appare più appropriato proprio perché l’inquinamento – con cui si intende, in generale, la contaminazione dell’aria, dell’acqua, del suolo con sostanze e materiali dannosi per la salute dell’uomo e dell’ambiente e capaci d’interferire con i naturali meccanismi di funzionamento degli ecosistemi o compromettere la qualità della vita – presuppone un fatto, che però è ancora da dimostrare[2].
Incertezza e distinzione tra tutela apprestata in riferimento ad un danno certo e tutela apprestata in riferimento ad un danno possibile.
La strategia di gestione del rischio dipende dalla scala di priorità che viene adottata: scala di priorità nella valutazione comparata con altri rischi ambientali e sanitari, al fine di graduare gli sforzi per ottenere la miglior tutela complessiva della salute e dell’ambiente, scala di priorità fra tutela ambientale e sanitaria ed altri interessi sociali ed economici.
La scelta di una strategia di gestione del rischio fondato su un “elevato livello di tutela ambientale e sanitaria”[3] comporta l’adozione del principio di precauzione e delle migliori tecniche disponibili.
Nell’incertezza, tra sottovalutare o sopravvalutare un rischio, adottando il principio di precauzione si sceglie di preferire la possibilità di sbagliare sopravvalutando il rischio.
Con la normativa dettata dalla L. 22 febbraio 2001, n. 36, “Legge quadro sulla protezione delle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici”, il nostro Paese ha scelto la linea dell’elevato livello di tutela ambientale e sanitaria.
La legge quadro, “un’opera prima”, come è stata definita da autorevole dottrina[4], ha riconosciuto l’esistenza e la serietà del problema elettrosmog, facendo un passo in avanti rispetto al silenzio della normativa comunitaria sui possibili effetti a lungo termine. Nel far questo, ha fondato buona parte della disciplina in essa contenuta sul principio di precauzione, [5] codificando quindi un giudizio di incertezza, legato al concetto di “rischio” sugli effetti a lungo termine dei CEM, attraverso prescrizioni normative ed operative.
Il tema di grande rilevanza, studiato a livello internazionale, fin dal 1974, quando l’IRPA (International Radiation Protection Association) formò un gruppo di lavoro sulla radiazioni non-ionizzanti (NIR), sulla cui base si formò nel 1977 un Comitato internazionale, l’INIRC (International Non-Ionizing Radiation Committee). L’IRPA-INIRC sviluppa una collaborazione con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e con l’UNEP (Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite).
Fino alla creazione nel 1992 di una nuova Commissione internazionale (ICNIRP), sul cui studio sono state poi emanate nel 1998 le “Linee guida per i limiti di esposizione ai vari tipi di campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici”[6].
L’ICNIRP ha successivamente approfondito i suoi studi con un processo di revisione delle Linee guida, con la previsione di due sistemi per affrontare il tema del rischio cancerogeno riferito ad esposizioni prolungate.
I due sistemi proposti si basano su due diverse ipotesi di base:
– che la cancerogenità dei campi elettromagnetici sia provata;
– che il nesso causale tra esposizione prolungata ed inquinamento elettromagnetico ed aumento significativo del rischio di cancro non sia provato con sufficiente certezza.
Nel primo caso non c’è la proposta di un limite di soglia, ma una relazione fra entità dell’esposizione e rischio di cancro.
Nel secondo caso, accettando un margine di certezza, non si adottano specifici limiti di tipo sanitario, ma si adottano obiettivi di qualità da raggiungere in un certo arco di tempo ed in modo differenziato[7].
Evoluzione del principio di precauzione
Il principio di precauzione è divenuto nel tempo principio condiviso in ambito europeo attraverso la ratifica del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, istitutivo della Comunità Europea, con cui lo stesso è stato elevato a fondamento della politica comunitaria ambientale, insieme ai principi del “chi inquina paga” e dell’azione preventiva. L’art. 174, par. 2, del Trattato istitutivo della Comunità Europea testualmente recita che la politica in materia ambientale della Comunità “è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”.
La Corte di Giustizia, al fine di specificare l’esatta interpretazione ed i confini del suddetto principio, ha avuto modo di affermare che esso fa obbligo alle autorità interessate di adottare provvedimenti appropriati “al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici”. Ed ancora va applicato tenendo conto che “in materia sanitaria il principio di precauzione implica che, nel caso in cui sussistano incertezze quanto all’esistenza o alla portata dei rischi per la salute delle persone, le istituzioni possano prendere provvedimenti di tutela senza dover attendere che la realtà e la gravità di tali rischi siano pienamente dimostrate.
Il principio in esame è stato politicamente accettato come strategia nell’ambito della gestione del rischio; esso è auspicabile nel momento in cui le prove scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte, non consentono cioè una valutazione particolareggiata del rischio, e vi sono indicazioni e ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possono essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto.
L’applicazione del principio di precauzione interviene unicamente in un’ipotesi di rischio potenziale (diversamente troverebbe applicazione il principio di prevenzione), anche nell’eventualità in cui tale rischio non può essere interamente dimostrato, o la sua portata quantificata, o i suoi effetti determinati per l’insufficienza o il carattere non concludente dei dati scientifici.
I fattori che attivano il ricorso al principio di precauzione sono:
– l’identificazione di effetti potenzialmente negativi, derivanti da un fenomeno;
– una valutazione scientifica degli effetti potenzialmente negativi, la quale, per l’insufficienza di dati, il loro carattere inconcludente o la loro imprecisione, non consenta di determinare con sufficiente certezza il rischio in questione.
L’analisi del rischio si compone di tre componenti principali: la valutazione del rischio[8], la scelta della strategia di gestione del rischio, la comunicazione del rischio.
Nell’eventualità che la valutazione scientifica non permetta una stima certa del rischio e della sua eventuale gravità per la salute della popolazione e l’ambiente, non si può trascurare l’ipotesi di un pericolo e si deve comunque scegliere una strategia di gestione del rischio. Tale intervento, derivante dal ricorso al principio di precauzione, può esprimersi come inazione o come adozione di misure specifiche, in funzione del livello di rischio accettabile prescelto.
Gli atti intrapresi dovrebbero essere il frutto di un’analisi scientifica attenta e puntuale, di una procedura trasparente di valutazione che si avvale di un approccio quanto più partecipato con il coinvolgimento di tutti i diversi portatori di interessi, così da non trascurare alcuna opzione di gestione del rischio. Tali provvedimenti, inoltre, che in qualsiasi caso influenzeranno il tipo di vigilanza che può essere esercitata sul territorio, potranno essere di varia natura e non necessariamente dovranno produrre effetti giuridici suscettibili di controllo giurisdizionale, ad esempio potranno configurarsi come un programma di ricerca o una campagna informativa rivolta alla popolazione.
Corollario del principio di precauzione, in questa materia, è il principio c.d. A.L.A.R.A. (As Low As Reasonable Possible)[9], elaborato dall’Organizzazione mondiale della sanità, il quale imporrebbe di escludere l’esposizione della popolazione e dei lavoratori a radiazioni ragionevolmente evitabili, per cui, una volta effettuata la scelta tecnologica, l’esposizione agli effetti potenzialmente nocivi della stessa deve rimanere al livello più basso ragionevolmente ottenibile.
Il nucleo essenziale degli obblighi incombenti sul legislatore si sostanzia allora nel: disciplinare la materia in modo da assicurare che l’esposizione si attesti sui livelli di campo più bassi in concreto realizzabili.
Tale obiettivo, ovviamente, non può dirsi raggiunto attraverso la semplice previsione di limiti di esposizione e valori di attenzione, che si traduce nella semplice imposizione di una soglia massima di valori di campo priva di carattere incentivante rispetto al mantenimento dei campi nei valori più bassi in concreto realizzabili.
A tanto si aggiunga che lo stesso valore cautelativo di detti limiti massimi è assai dubbio in ragione del fatto che essi (inevitabilmente) non riflettono una effettiva conoscenza delle conseguenze dell’esposizione a lungo termine. [10]
In che modo le norme fondate sul principio di precauzione possono rappresentare il mezzo di ricorso a forme concrete di tutela? Basti pensare che la disciplina in materia non prevede un adeguato sistema sanzionatorio (si veda infra) al quale ricorrere in caso di violazione dei valori limite fissati dalla stessa disciplina e che questo elemento avrebbe un effetto disincentivante sulle finalità precauzionali/preventive che si volevano realizzare attraverso la predisposizione di una normativa ad hoc.
Ciò ha reso tuttora necessario ricorrere ad altri strumenti di tutela, quali ad esempio, in sede civilistica l’art. 700 c.p.c., ai fini dell’ottenimento di un provvedimento cautelare in funzione di tutela della salute, anche se in quella sede ostacolo ad una efficace tutela è rappresentato dalla difficile dimostrazione dell’esistenza del nesso causale.
Recente evoluzione giurisprudenziale sul parametro di rischio
Lo sviluppo della tecnologia ha portato allo scontro tra esigenze di produzione e diritto alla salute.
La relativa novità del fenomeno e quindi l’inesistenza di studi che si basino su un’osservazione degli effetti dell’elettrosmog protratta per periodi di tempo significativamente lunghi, fa si che attualmente non vi siano certezze e conclusioni univoche circa i possibili effetti cronici conseguenti ad esposizioni prolungate nel tempo alle radiazioni non ionizzanti prodotte dai campi elettromagnetici. Questo, tuttavia, non deve rappresentare a tutti i costi un ostacolo insormontabile all’apprestamento di mezzi di tutela del diritto fondamentale della salute, ove si consideri, tra l’altro, che la certezza scientifica possa essa stessa incontrare degli ostacoli nel suo formarsi.
Ora, a scanso d’ogni dubbio, è giurisprudenza (più risalente nel tempo) che fino a quando non verrà scientificamente negato il rischio per la salute legato all’esposizione a campi elettromagnetici, potrà sussistere un nesso causale e, dunque, la responsabilità penale del soggetto agente, cui sia addebitabile quanto meno una colpa generica ( Trib. Rimini, sent. 697-99). [11]
La Corte d’appello di Brescia – Sezione lavoro, nella sentenza 22 dicembre 2009, n. 614 -, relativa ad una richiesta di indennità per malattia professionale formulata all’Inail da un dirigente d’azienda, ha dichiarato risarcibile, a carico dell’istituto, il danno cagionato dall’utilizzo di telefono cellulare o cordless in ambito lavorativo per una media di cinque/sei ore al giorno, per un periodo di dodici anni, in quanto è altamente probabile un ruolo, almeno concausale, delle radiofrequenze nella genesi di neoplasie.
Ciò anche se quella rivelata dalla causa di lavoro davanti alla Corte d’appello di Brescia è una “causalità debole” espressione del “modello probabilistico – induttivo” in “una situazione individuale”.
Anche se questo, tuttavia, appare plausibile, dato che il lasso di tempo tutto sommato ristretto intercorso dalla diffusione su larga scala nella nostra società (un decennio o poco più) degli strumenti tecnologici in questione impedisce di avere un quadro sufficientemente attendibile degli effetti di questi ultimi sulla salute umana, ossia, più precisamente, preclude ancora acquisizioni scientifiche connotate da caratteri maggiormente stringenti della predetta “causalità debole”.
Ma solo perché quando ci si trova in presenza di condotte “sistemiche” tanto diffusivamente lesive di un bene giuridico fondamentale come la salute pubblica, quest’ultimo non può non godere anche di una forma di tutela penale da quei comportamenti spesso tanto scellerati quanto, per l’appunto, “di sistema” [12].
Quello che appare rivoluzionario in questa pronuncia è ciò che ha portato il Tribunale a ritenere affidabili gli studi citati dal CTU (si tratta in particolare della “review” della International Commission on Non–Ionizing Radiation Protection, ossia di una revisione critica della quasi totalità delle indagini epidemiologiche effettuate fino al 2009 e di un lavoro del 2009 di M. Kundi dell’Università di Vienna), per cui seppur allo stato attuale, non vi sia “una convincente evidenza del ruolo delle radiofrequenze nella genesi dei tumori”, ciononostante gli studi presi in esame, “non ne hanno escluso l’associazione”.
Sino ad ora, infatti, in caso di controversie analoghe si era sempre fatto riferimento ad uno studio dell’OMS del 2000, basato – si legge in motivazione – “su dati, ovviamente, ancor più risalenti”, il quale “non tiene conto dell’uso più recente, ben più massiccio e diffuso, di tali apparecchi e del fatto che si tratti di tumori a lenta insorgenza: pertanto gli studi del 2009, basati su dati più recenti, sono di per sé più attendibili”, tanto più che “non si tratta di studi su un basso numero di casi, ma al contrario del tutto esaustivo in quanto si tratta di 678 casi”.
Non solo, il Collegio giudicante si sofferma su un ulteriore elemento a supporto del giudizio di attendibilità, laddove afferma in motivazione che detti studi “, a differenza dello studio IARC, co-finanziato dalle ditte produttrici di telefoni cellulari, sono indipendenti.”
La Corte ha così ritenuto nella specie riconoscersi un nesso di causalità all’80% tra il prolungato utilizzo di un telefono e l’insorgenza di un tumore cerebrale, con conseguente obbligo di risarcimento da parte dell’Inail, spostando chiaramente “il piatto della bilancia” del principio di precauzione verso forme più cautelative e previdenti.
Tratto da Emissioni elettromagnetiche – Guida agli adempimenti, G. Bellenda – M. A. Labarile, Irnerio Editore, 2011
[1] . Il testo originale del Principio di Precauzione è contenuto nella Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e sullo Sviluppo“Principle 15 – In order to protect the environment, the precautionary approach shall be widely applied by States according to their capabilities. Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degradation.”
[2] S. MAGLIA, in Elettrosmog – Dalle origini alla legge quadro di E. RONCHI, F. GIOVANELLI, S. MAGLIA, Piacenza, 2001, pagg 25 e segg
[3] Come previsto dal Trattato sull’Unione Europea.
[4] F. GIOVANELLI, in Elettrosmog – Dalle origini alla legge quadro di E. RONCHI, F. GIOVANELLI, S. MAGLIA, cit., pagg 25 e segg.
[6] Sulla cui base, il Consiglio dell’Unione europea ha emanato la Raccomandazione 1999/519/CE del 12 luglio 1999, relativa alla limitazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici da 0 a 300 GHz
[7] Si veda: E. RONCHI, Per un elevato livello di tutela ambientale e sanitaria in E. RONCHI, F. GIOVANELLI, S. MAGLIA, Elettrosmog. Dalle origini alla legge quadro, cit., pagg. 23 e segg.
[8] La valutazione del rischio può essere schematizzata nei seguenti punti:
– Identificazione del pericolo, agente chimico/fisico/biologico che può indurre effetti negativi sulla popolazione e sull’ambiente;
– Caratterizzazione del pericolo, ovvero la determinazione, in termini quantitativi e/o qualitativi della natura e della gravità degli effetti nocivi collegati con gli agenti o le attività causali, dei rapporti dose-risposta nei casi in cui il nesso causale è stato individuato aldilà di ogni ragionevole dubbio;
– Valutazione dell’esposizione, ovvero della probabilità di esposizione all’agente in questione. Oltre alle informazioni sugli agenti stessi (fonte, distribuzione, concentrazioni, caratteristiche, etc) sono necessari dati sulla probabilità di contaminazione o esposizione della popolazione o dell’ambiente al pericolo;
– Caratterizzazione del rischio, consistente in una stima qualitativa e/o quantitativa che consideri le incertezza, la probabilità, la frequenza e la gravità degli effetti negativi individuati, conosciuti o potenziali che possono verificarsi.
[9] Principio richiamato nella Risoluzione del Parlamento europeo del 5 maggio 1994, “Sulla lotta contro gli inconvenienti provocati dalle radiazioni non-ionizzanti”, da cui è scaturita la Raccomandazione 1999/519/CE del 12 luglio 1999.
[10] Si veda: V. TRIGGIANI, Il decreto “Gasparri” ed i principi fondamentali di politica ambientale comunitaria, in Lexambiente.it, rivista giuridica on- line.
[11] Si veda: G. PETTENATI , Tutela penale dall’inquinamento da radiazioni, in Lexambiente.it, rivista giuridica on line.
[12] Si veda: S. PALMISANO, Tumori e cellulari. Note a margine di una sentenza che serve alla tutela della salute pubblica, in Lexambiente.it, rivista giuridica on line.
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