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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Gli impianti di recupero possono trasformare i rifiuti in prodotti anche in assenza dei previsti decreti ministeriali o dei regolamenti europei nei casi in cui ciò sia previsto dalle autorizzazioni.
Il Ministero dell’ambiente con nota 1° luglio 2016, prot. n. 10045, fornisce indicazioni per la corretta applicazione dell’articolo 184-ter del decreto legislativo 03 aprile 2006, n. 152 alle amministrazioni che rilasciano le autorizzazioni agli impianti di recupero.
La Direzione generale per i rifiuti e l’inquinamento del dicastero opportunamente ricorda che l’articolo citato dispone che: «Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero (incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo), e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici; b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana».
I criteri specifici
Il problema sul quale interviene la nota in commento è quindi costituito dalla necessità che siano stati preventivamente definiti tali criteri, con regolamenti comunitari o decreti ministeriali, affinché possa realizzarsi la cessazione della qualifica di rifiuto e pertanto la conseguente generazione di prodotti al termine dei trattamenti di recupero che avvengono negli impianti autorizzati. Alcuni enti competenti al rilascio delle autorizzazioni al recupero, infatti, hanno erroneamente ritenuto che l’adozione dei citati criteri per le singole tipologie o per le categorie di sostanze od oggetti derivanti da tali trattamenti costituisse l’unico e indispensabile presupposto per la realizzazione dell’end of waste. Infatti, mentre con riferimento ai sottoprodotti l’art. 184-bis, comma 2, disponendo che: «Sulla base delle condizioni previste al comma 1, possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti» considera l’emanazione dei criteri come meramente eventuale, nel caso della cessazione della qualifica di rifiuto il tenore letterale della disposizione può portare a ritenere la definizione di tali criteri come irrinunciabile.
Decisioni “caso per caso”
La nota ministeriale a questo proposito, richiamando la Direttiva 98/2008/CE, ricorda che: «Nel caso in cui non fossero stati stabiliti criteri a livello comunitario, il comma 3, dello stesso articolo 6 [della Direttiva], invece, dispone che “gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile”».
La norma europea, in realtà al comma 4 e non al comma 3, dell’articolo citato, consente quindi agli Stati membri di disciplinare la materia in assenza di regolamenti comunitari direttamente e immediatamente applicabili in ogni Paese membro dell’Unione Europea. Conformemente a queste indicazioni l’articolo 184-ter del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, al comma 2, dispone che i criteri siano: «adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400».
Gli effetti della disciplina transitoria
Il Ministero precisa però che il comma 3 dello stesso articolo 184-ter ha aggiunto che: «nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’articolo 9-bis, lettere a) e b), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210 […]». Mentre i primi tre decreti citati riguardano le attività di recupero di rifiuti esercitate ricorrendo alle “procedure semplificate” oggi ricomprese nell’Autorizzazione Unica Ambientale, il quarto dispone che: «fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 181-bis (oggi sostituito dall’articolo 184-ter), comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, le caratteristiche dei materiali di cui al citato comma 2 si considerano altresì conformi alle autorizzazioni rilasciate ai sensi degli articoli 208, 209 e 210 del medesimo decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e del decreto legislativa 18 febbraio 2005, n. 59».
Tale norma, argomenta il Ministero, attribuisce alle Autorità competenti al rilascio di provvedimenti autorizzativi relativi all’esercizio di impianti di gestione dei rifiuti la possibilità di definire, nel rispetto delle condizioni di cui all’articolo 184-ter, comma 1, i criteri di cessazione della qualifica di rifiuto per il singolo impianto.
Criteri definiti dalle autorizzazioni
Sulla base delle considerazioni in precedenza esposte, la nota ministeriale precisa che: «I criteri di cui ai regolamenti europei prevalgono, nell’ambito del loro rispettivo campo di applicazione, sui criteri definiti con i decreti ministeriali, laddove abbiano ad oggetto le stesse tipologie di rifiuti. A loro volta, i criteri definiti con i decreti ministeriali prevalgono, salvo uno specifico regime transitorio stabilito dal rispettivo decreto ministeriale, sui criteri che le Regioni — o gli Enti da queste delegati — definiscono in fase di autorizzazione ordinaria di impianti di recupero dei rifiuti, sempre che i rispettivi decreti ministeriali abbiano ad oggetto le medesime tipologie di rifiuti. In via residuale, le Regioni — o gli enti da queste individuati — possono, in sede di rilascio dell’autorizzazione prevista agli articoli 208, 209 e 211, e quindi anche in regime di autorizzazione integrata ambientale (Aia), definire criteri EoW previo riscontro della sussistenza delle condizioni indicate al comma I dell’articolo 184-ter, rispetto a rifiuti che non sono stati oggetto di regolamentazione dei succitati regolamenti comunitari o decreti ministeriali».
L’adeguamento ai Regolamenti
Il documento ministeriale analizza, infine, gli effetti della modifica del comma 8-sexies dell’articolo 216 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 in materia di adeguamento delle attività degli impianti di recupero alle disposizioni contenute nei Regolamenti comunitari sull’end of waste, ritenendo che la nuova formulazione della norma non abbia modificato né le modalità di individuazione dei criteri di cessazione della qualifica di rifiuto, né il riparto delle competenze. Ne consegue, conclude la nota ministeriale, che le Regioni e gli enti dalle stesse delegati hanno la facoltà di definire i criteri per la verifica della cessazione della qualifica di rifiuto in sede di rilascio delle autorizzazioni di cui agli articoli 208, 209 e 211 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, «sempre che, per la stessa tipologia di rifiuto, tali criteri non siano stati definiti con regolamento comunitario o con un decreto ministeriale emanato ai sensi del comma 2, del citato articolo 184-ter».
Sull’utilità dei criteri
Passando dal piano del commento al documento di prassi a quello, più impegnativo ma sicuramente più stimolante, del dibattito dottrinale, a chi scrive sembra opportuno avviare una riflessione collettiva sull’effettiva utilità dei criteri per l’end of waste. Quando i criteri definiti a livello europeo o italiano prescrivono la verifica di condizioni quali: «I rottami non presentano, ad occhio nudo, oli, emulsioni oleose, lubrificanti o grassi, tranne quantità trascurabili che non danno luogo a gocciolamento» oppure «I rottami non contengono ossido di ferro in eccesso, sotto alcuna forma, tranne le consuete quantità dovute allo stoccaggio all’aperto, in condizioni atmosferiche normali, di rottami preparati» (Regolamento 333/2011/UE) sembra legittimo dubitare che queste indicazioni possano condurre ai risultati auspicati di qualità dei prodotti ottenuti dal recupero.
Meglio sarebbe uscire definitivamente dall’ottica secondo la quale si ritiene indispensabile disciplinare nel dettaglio le “tecniche” (insiemi di tecnologie e di modalità operative) di recupero, fatta salva l’assoluta necessità di definire gli impatti ambientali “tollerabili” mediante le prescrizioni contenute nell’autorizzazione, per orientarsi, invece, a responsabilizzare i gestori degli impianti di recupero sulla qualità e le caratteristiche dei prodotti ottenuti.
Se si intende, infatti, garantire la transizione all’economia circolare sembra più rilevante affermare il principio secondo il quale ogni impianto di preparazione per il riutilizzo, di riciclaggio o di recupero di materia debba operare per garantire che i beni derivanti dalla propria attività siano effettivamente e oggettivamente prodotti pienamente rispondenti alla pletora di norme cogenti e tecniche già abbondantemente disponibili allo scopo di garantire che siano sicuri, adeguati rispetto all’uso che se ne farà in un determinato contesto, con caratteristiche prestazionali e di qualità ambientale ritenute irrinunciabili.
In altri termini, se il recupero dei materiali e dei beni dismessi deve divenire una componente rilevante dell’attività economica perché non assoggettarlo alle medesime norme che già disciplinano l’immissione sul mercato di quel genere di prodotti? Perché non ricorrere in maggior misura alle dichiarazioni di conformità che devono essere rilasciate per i prodotti generati da ogni attività di lavorazione industriale o artigianale? Non sembra sensato mantenere un doppio regime: uno per le attività economiche che trasformano in prodotti le risorse naturali, anche quelle non rinnovabili o rinnovabili nel lungo periodo, e un altro per le attività di recupero dei beni diventati rifiuti.
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End Of Waste: qui e ora
di Paolo Pipere
Gli impianti di recupero possono trasformare i rifiuti in prodotti anche in assenza dei previsti decreti ministeriali o dei regolamenti europei nei casi in cui ciò sia previsto dalle autorizzazioni.
Il Ministero dell’ambiente con nota 1° luglio 2016, prot. n. 10045, fornisce indicazioni per la corretta applicazione dell’articolo 184-ter del decreto legislativo 03 aprile 2006, n. 152 alle amministrazioni che rilasciano le autorizzazioni agli impianti di recupero.
La Direzione generale per i rifiuti e l’inquinamento del dicastero opportunamente ricorda che l’articolo citato dispone che: «Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero (incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo), e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana».
I criteri specifici
Il problema sul quale interviene la nota in commento è quindi costituito dalla necessità che siano stati preventivamente definiti tali criteri, con regolamenti comunitari o decreti ministeriali, affinché possa realizzarsi la cessazione della qualifica di rifiuto e pertanto la conseguente generazione di prodotti al termine dei trattamenti di recupero che avvengono negli impianti autorizzati.
Alcuni enti competenti al rilascio delle autorizzazioni al recupero, infatti, hanno erroneamente ritenuto che l’adozione dei citati criteri per le singole tipologie o per le categorie di sostanze od oggetti derivanti da tali trattamenti costituisse l’unico e indispensabile presupposto per la realizzazione dell’end of waste.
Infatti, mentre con riferimento ai sottoprodotti l’art. 184-bis, comma 2, disponendo che: «Sulla base delle condizioni previste al comma 1, possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti» considera l’emanazione dei criteri come meramente eventuale, nel caso della cessazione della qualifica di rifiuto il tenore letterale della disposizione può portare a ritenere la definizione di tali criteri come irrinunciabile.
Decisioni “caso per caso”
La nota ministeriale a questo proposito, richiamando la Direttiva 98/2008/CE, ricorda che: «Nel caso in cui non fossero stati stabiliti criteri a livello comunitario, il comma 3, dello stesso articolo 6 [della Direttiva], invece, dispone che “gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile”».
La norma europea, in realtà al comma 4 e non al comma 3, dell’articolo citato, consente quindi agli Stati membri di disciplinare la materia in assenza di regolamenti comunitari direttamente e immediatamente applicabili in ogni Paese membro dell’Unione Europea. Conformemente a queste indicazioni l’articolo 184-ter del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, al comma 2, dispone che i criteri siano: «adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400».
Gli effetti della disciplina transitoria
Il Ministero precisa però che il comma 3 dello stesso articolo 184-ter ha aggiunto che: «nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’articolo 9-bis, lettere a) e b), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210 […]».
Mentre i primi tre decreti citati riguardano le attività di recupero di rifiuti esercitate ricorrendo alle “procedure semplificate” oggi ricomprese nell’Autorizzazione Unica Ambientale, il quarto dispone che: «fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 181-bis (oggi sostituito dall’articolo 184-ter), comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, le caratteristiche dei materiali di cui al citato comma 2 si considerano altresì conformi alle autorizzazioni rilasciate ai sensi degli articoli 208, 209 e 210 del medesimo decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e del decreto legislativa 18 febbraio 2005, n. 59».
Tale norma, argomenta il Ministero, attribuisce alle Autorità competenti al rilascio di provvedimenti autorizzativi relativi all’esercizio di impianti di gestione dei rifiuti la possibilità di definire, nel rispetto delle condizioni di cui all’articolo 184-ter, comma 1, i criteri di cessazione della qualifica di rifiuto per il singolo impianto.
Criteri definiti dalle autorizzazioni
Sulla base delle considerazioni in precedenza esposte, la nota ministeriale precisa che: «I criteri di cui ai regolamenti europei prevalgono, nell’ambito del loro rispettivo campo di applicazione, sui criteri definiti con i decreti ministeriali, laddove abbiano ad oggetto le stesse tipologie di rifiuti. A loro volta, i criteri definiti con i decreti ministeriali prevalgono, salvo uno specifico regime transitorio stabilito dal rispettivo decreto ministeriale, sui criteri che le Regioni — o gli Enti da queste delegati — definiscono in fase di autorizzazione ordinaria di impianti di recupero dei rifiuti, sempre che i rispettivi decreti ministeriali abbiano ad oggetto le medesime tipologie di rifiuti.
In via residuale, le Regioni — o gli enti da queste individuati — possono, in sede di rilascio dell’autorizzazione prevista agli articoli 208, 209 e 211, e quindi anche in regime di autorizzazione integrata ambientale (Aia), definire criteri EoW previo riscontro della sussistenza delle condizioni indicate al comma I dell’articolo 184-ter, rispetto a rifiuti che non sono stati oggetto di regolamentazione dei succitati regolamenti comunitari o decreti ministeriali».
L’adeguamento ai Regolamenti
Il documento ministeriale analizza, infine, gli effetti della modifica del comma 8-sexies dell’articolo 216 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 in materia di adeguamento delle attività degli impianti di recupero alle disposizioni contenute nei Regolamenti comunitari sull’end of waste, ritenendo che la nuova formulazione della norma non abbia modificato né le modalità di individuazione dei criteri di cessazione della qualifica di rifiuto, né il riparto delle competenze. Ne consegue, conclude la nota ministeriale, che le Regioni e gli enti dalle stesse delegati hanno la facoltà di definire i criteri per la verifica della cessazione della qualifica di rifiuto in sede di rilascio delle autorizzazioni di cui agli articoli 208, 209 e 211 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, «sempre che, per la stessa tipologia di rifiuto, tali criteri non siano stati definiti con regolamento comunitario o con un decreto ministeriale emanato ai sensi del comma 2, del citato articolo 184-ter».
Sull’utilità dei criteri
Passando dal piano del commento al documento di prassi a quello, più impegnativo ma sicuramente più stimolante, del dibattito dottrinale, a chi scrive sembra opportuno avviare una riflessione collettiva sull’effettiva utilità dei criteri per l’end of waste.
Quando i criteri definiti a livello europeo o italiano prescrivono la verifica di condizioni quali: «I rottami non presentano, ad occhio nudo, oli, emulsioni oleose, lubrificanti o grassi, tranne quantità trascurabili che non danno luogo a gocciolamento» oppure «I rottami non contengono ossido di ferro in eccesso, sotto alcuna forma, tranne le consuete quantità dovute allo stoccaggio all’aperto, in condizioni atmosferiche normali, di rottami preparati» (Regolamento 333/2011/UE) sembra legittimo dubitare che queste indicazioni possano condurre ai risultati auspicati di qualità dei prodotti ottenuti dal recupero.
Meglio sarebbe uscire definitivamente dall’ottica secondo la quale si ritiene indispensabile disciplinare nel dettaglio le “tecniche” (insiemi di tecnologie e di modalità operative) di recupero, fatta salva l’assoluta necessità di definire gli impatti ambientali “tollerabili” mediante le prescrizioni contenute nell’autorizzazione, per orientarsi, invece, a responsabilizzare i gestori degli impianti di recupero sulla qualità e le caratteristiche dei prodotti ottenuti.
Se si intende, infatti, garantire la transizione all’economia circolare sembra più rilevante affermare il principio secondo il quale ogni impianto di preparazione per il riutilizzo, di riciclaggio o di recupero di materia debba operare per garantire che i beni derivanti dalla propria attività siano effettivamente e oggettivamente prodotti pienamente rispondenti alla pletora di norme cogenti e tecniche già abbondantemente disponibili allo scopo di garantire che siano sicuri, adeguati rispetto all’uso che se ne farà in un determinato contesto, con caratteristiche prestazionali e di qualità ambientale ritenute irrinunciabili.
In altri termini, se il recupero dei materiali e dei beni dismessi deve divenire una componente rilevante dell’attività economica perché non assoggettarlo alle medesime norme che già disciplinano l’immissione sul mercato di quel genere di prodotti? Perché non ricorrere in maggior misura alle dichiarazioni di conformità che devono essere rilasciate per i prodotti generati da ogni attività di lavorazione industriale o artigianale?
Non sembra sensato mantenere un doppio regime: uno per le attività economiche che trasformano in prodotti le risorse naturali, anche quelle non rinnovabili o rinnovabili nel lungo periodo, e un altro per le attività di recupero dei beni diventati rifiuti.
Piacenza, 8.07.2016
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