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Errore nelle contravvenzioni ambientali: nota a Cass. Pen. n. 4931/2016

di Giovanna Tedesco

Categoria: Responsabilità ambientali

La questione affrontata dalla sentenza annotata (Cassazione Penale, Sez. III, 8 febbraio 2016, u.p. 7 gennaio 2016, n. 4931) concerne la possibilità di ascrivere tra gli elementi sufficienti a qualificare la buona fede scusante nelle contravvenzioni la complessità della normativa che regola la materia (nella specie dei rifiuti, ma si tratta di questione egualmente valida nella quasi totalità delle fattispecie contravvenzionali previste dal D.Lgs. n. 152/2006). Nell’escludere tale possibilità la sentenza riprende alcune tra le principali argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nell’affrontare la tematica dell’errore nei reati ambientali, confermando un orientamento che, nel richiamarsi in modo costante all’art. 5 c.p. – sia pure per escluderne, prevalentemente, l’applicazione – merita di essere riconsiderato alla luce di una ridefinizione, da tempo auspicata dalla dottrina, dei rapporti tra art. 5 e art. 47, comma 3, c.p..

Le questioni poste dalla decisione in commento
Con la sentenza in commento la Corte di cassazione è intervenuta in relazione ad un’ipotesi di gestione non autorizzata di rifiuti da parte di un privato imputato del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (di seguito T.U. amb.)[1] per avere effettuato la predetta attività di gestione in assenza delle prescritte autorizzazioni. Il giudice di prime cure, mostrando di aderire a quell’orientamento della giurisprudenza di merito più sensibile al riconoscimento della capacità scusante dell’errore su legge extrapenale (nel caso di specie, la prescritta iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali) faceva applicazione dell’art. 5 c.p., affermando la scusabilità dell’errore nel quale era incorso l’imputato nella vendita di rifiuti, in considerazione della “notevole complessità della normativa che disciplina la materia della gestione dei rifiuti”, “della natura di extrema ratio del diritto penale” e della mancanza di professionalità nell’attività di vendita dei rifiuti, desumendo da tali elementi la mancanza di “prova che l’imputato fosse consapevole del carattere illecito della propria condotta”.
La Suprema Corte, tramite un approfondito excursus sui criteri di applicazione dell’art. 5 c.p., ribadisce quella che è una giurisprudenza risalente e ormai costante in materia, nel negare la scusabilità dell’errore sul presupposto che il mero fatto negativo dell’ignoranza della normativa settoriale non è sufficiente a fondare una valutazione di inevitabilità dell’errore ai sensi dell’art. 5 c.p., neppure a fronte della particolare complessità di tale normativa, rispetto alla quale sussiste un dovere di informarsi, in ossequio agli obblighi solidaristici posti dall’art. 2 Cost. Breve: la sentenza in oggetto non fa che reiterare il principio per cui la personale convinzione dell’imputato (circa la conformità del proprio comportamento all’ordinamento giuridico) non può assurgere a strumento di misura dell’efficacia e dell’effettività del comando[2].
Il principio affermato dalla sentenza annotata altro non è che l’ennesima conferma di un orientamento granitico della S.C. in tema di errore sulla legge extrapenale, in virtù del quale né l’errore di diritto, né l’errore sul fatto di cui all’art. 47 c.p., possono trovare alimento, per essere scusati, nella personale convinzione che l’imputato abbia dell’applicabilità nei suoi confronti di un obbligo la cui omissione è penalmente sanzionata.
E, nell’affermare tale principio, la pronuncia in discorso condensa alcune delle principali questioni poste dalla tematica dell’errore in un settore, quello delle contravvenzioni in materia ambientale, che più di altri offre significativi spunti di riflessione in ordine alla disciplina teorica e all’applicazione concreta delle disposizioni di cui agli artt. 5 e 47 c.p.
In particolare, si intende porre l’accento sull’incontrastata (ma non per questo scontata) applicazione dell’art. 5 c.p. a tutte le ipotesi di errore su precetti connotati da elementi di antigiuridicità speciale, quale è il reato di cui all’art. 256, comma 1, T.U. amb. (il quale sanziona, al primo comma, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione) in spregio all’esistenza di una, pur valida, alternativa, rinvenibile all’art. 47 c.p. La sentenza offre inoltre uno spunto di riflessione sulle questioni che pure emergono nell’esclusiva applicazione dell’art. 5 c.p., rispetto ai parametri di valutazione circa la scusabilità/evitabilità dell’errore (o dell’ignoranza), i quali assumono connotati particolarmente rigoristici nel settore che ci interessa.

Error iuris nelle contavvenzioni ambientali ed interpretatio abrogans dell’art. 47 c.p.
Come ricordato dalla sentenza annotata, l’attuale disciplina sull’errore[3] di diritto rappresenta l’esito di un bilanciamento tra la piena affermazione del principio di colpevolezza e l’esigenza general-preventiva di non vanificare l’effettiva tenuta dell’ordinamento penale, bilanciamento raggiunto con l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 5 c.p. ad opera della storica sent. n. 364/1988[4], attraverso il richiamo all’art. 2 Cost. ed ai doveri di solidarietà sociale che impongono ai consociati un onere di informazione, nel riconoscere la scusabilità dell’ignoranza o dell’errore di diritto inevitabili, ha ribadito che la personalità della responsabilità penale non è inficiata dalla mancanza di coscienza dell’illiceità del fatto, laddove questa fosse possibile. Ed è proprio tale possibilità di conoscenza a fondare il giudizio di inescusabilità dell’ignoranza della legge penale o, in caso contrario, la sua rilevanza scusante.
Ritenendo superfluo qualunque richiamo al contenuto della sentenza, basti in questa sede ricordare come la Corte Costituzionale abbia finito per avallare una ricostruzione in chiave soggettivistica, nell’orizzonte della colpevolezza, della questione dell’ignorantia legis, la quale risulterà scusabile, come noto, solo ove sia inevitabile, ponendo quindi il problema dell’individuazione dei criteri in base ai quali condurre il giudizio di inevitabilità-scusabilità e fornendo a tal proposito solo alcune indicazioni di massima[5]. Ciò che emerge con chiarezza è la necessità di elementi oggettivi, che prescindano dal mero convincimento soggettivo dell’agente, quali la “mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa” ossia l’obbiettiva oscurità del dettato legislativo o l’esistenza di “assicurazioni erronee di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare”.
Al di là di tali indicazioni la giurisprudenza, sul punto avallata dalla dottrina[6], ha ritenuto utilizzabili i consueti parametri di accertamento della colpa, di prevedibilità ed evitabilità dell’evento e il riferimento alla figura dell’homo eiusdem condicionis et professionis. Tramite il richiamo ai suddetti parametri si è giunti a implementare nel giudizio sull’evitabilità-inescusabilità dell’errore il necessario adempimento, da parte di chi si accinga a compiere attività incidenti in settori socialmente rilevanti e regolati, di una “riflessione sul valore giuridico dell’attività che si sta per compiere”[7], id est l’assolvimento di un dovere di informazione, la cui trascuratezza è ciò che fonda il rimprovero penale (per effetto del disconoscimento della scusabilità dell’errore).
Tale rilettura dell’art. 5 c.p., nell’ampliarne notevolmente le potenzialità applicative, ha ulteriormente ridotto lo spazio operativo dell’art. 47, comma 3, c.p., che la giurisprudenza ha finito per bandire da un sistema di disciplina dell’errore chiuso nell’art. 5, tanto per i casi in cui se ne riconosca l’efficacia scusante[8] quanto per le ipotesi contrarie.
A questo risultato ha contribuito l’elaborazione, quale criterio distintivo tra errore sul precetto ed errore sul fatto o meglio, dell’errore su legge extrapenale che abbia cagionato un errore sul fatto che costituisce reato, della mai abbandonata tesi dell’incorporazione o dell’integrazione[9], a mente della quale occorre distinguere tra norme extrapenali integranti la norma incriminatrice, in quanto concorrono a determinare il contenuto del divieto, l’errore sulle quali investe il significato del precetto penale, pertanto inescusabile, e quelle attinenti solo al fatto, le quali in alcun modo incidono sulla norma penale e sulla sua comprensione, l’errore sulle quali ricade sotto l’art. 47 ultimo comma[10].
Non essendo questa la sede per ulteriori approfondimenti della questione, basti qui rilevare come la giurisprudenza prevalente, nella quale la sentenza annotata si inserisce, tende a qualificare come norme integratrici, sic et simpliciter, tutte le disposizioni richiamate secondo la tecnica delle norme penali in bianco, che è la tecnica adottata nella definizione della maggior parte dei reati ambientali[11], compresa la contravvenzione di cui all’art. 256 T.U. amb.
Autorevole dottrina[12] non ha mancato di rilevare come la Corte di cassazione, nel fare costante applicazione del criterio distintivo tra legge integratrice e non integratrice del precetto penale e giungendo nella gran parte dei casi a propendere per l’integrazione tra legge penale e legge extrapenale (così negando efficacia scusante all’errore su quest’ultima) abbia finito per abrogare, in via di fatto, il comma 3 dell’art. 47 c.p.
Il disconoscimento di un autonomo spazio applicativo all’art. 47 è ulteriormente confermato dal ricorso, in chiave di efficacia scusante, al criterio della buona fede nelle contravvenzioni, che si è imposto nella giurisprudenza come unico percorso alternativo a quello dell’inescusabilità segnato dall’art. 5, obliterando l’esistenza della disciplina dell’errore sulle norme extrapenali, a vantaggio di una figura di creazione interamente giurisprudenziale[13], senza soluzione di continuità con la giurisprudenza operante sotto il Codice previgente, ove non esisteva una norma analoga.
Autorevole dottrina ha posto in evidenza come la giurisprudenza abbia “trascurato di verificare l’avvenuta conversione dell’errore su legge extrapenale in errore sul fatto”[14], perseverando nella valutazione di qualunque errore di diritto sotto la lente dell’art. 5, a prescindere dalla natura penale o extrapenale dell’elemento interessato[15].
Né, in senso contrario, possono richiamarsi quelle pronunce che all’art. 47 si rifanno al solo fine di escluderne l’applicazione in virtù del costante riconoscimento dell’avvenuta integrazione della norma penale ad opera dell’elemento normativo richiamato, secondo la tautologica concezione integrativa (in senso stretto) di ogni norma integratrice (latamente intesa). Sono, invero, un numero sorprendentemente ridotto, le pronunce che fanno applicazione del terzo comma dell’art. 47 c.p.[16].
Peraltro, la necessità di una maggiore precisione ermeneutica dei confini applicativi dell’art. 5 c.p. rispetto all’art. 47 c.p. perde molta dell’importanza che la caratterizza proprio nel settore che ci interessa, in virtù della natura prevalentemente contravvenzionale dei reati ambientali e della sufficienza, ai fini dell’addebito di responsabilità, del mero coefficiente soggettivo colposo. Con la conseguenza che, laddove sia possibile addebitare al soggetto, la negligente violazione del dovere di informazione connesso all’attività compiuta, il reato troverebbe eguale applicazione, tanto in ossequio all’art. 5 c.p., quanto in aderenza al disposto dell’art. 47 c.p.
Diversamente a dirsi per i reati di inquinamento aggravato dalle morti o lesioni (art. 452 ter c.p.) e di disastro ambientale (art. 452 quater c.p.), di recente introduzione nel Codice ad opera della L. n. 68/2015[17], costruiti secondo un parametro soggettivo di tipo doloso. In questa prospettiva assume rilievo l’interpretazione dell’avverbio “comunque abusivamente”[18] che, nell’introdurre un elemento di antigiuridicità speciale nei predetti reati, consente di colpire anche condotte che non si pongono in contrasto con uno specifico provvedimento dell’Autorità o con una ben individuata norma di legge.
L’effetto, dal nostro punto di vista, è quello di innalzare il livello di diligenza richiesto a chi si accinga ad intraprendere un’“attività” potenzialmente impattante sull’ambiente e penalmente sanzionata, così ulteriormente riducendo le possibilità di invocare un errore scusabile.
Rispetto ai predetti reati, laddove si riconduca l’errore su elemento normativo extrapenale all’art. 47, comma 3, c.p., ove tale errore sia colposo, non residuerebbe alcuna responsabilità penale, stante la natura solo dolosa dei reati in oggetto e fatta salva, ovviamente, la possibilità di ricondurre la fattispecie concreta ad ulteriori ipotesi di reato punite a titolo di colpa. Non si può non sottolineare, peraltro, come trattandosi di reati macro-offensivi e connotati da un elevato grado di lesività nei confronti degli interessi protetti, è arduo immaginare un’assenza di colpevolezza per erronea o mancata conoscenza del divieto o della regolamentazione extrapenale allo stesso collegata.
In un contesto interpretativo orientato all’applicazione, in via esclusiva, dell’art. 5 c.p., occorre, d’altronde, rilevare la dipendenza della concreta applicazione della disciplina in materia di errore extrapenale anche dall’interpretazione delle singole fattispecie.
In una simile prospettiva, la sentenza annotata è meritevole di interesse anche nella parte in cui riporta con chiarezza gli orientamenti pacifici della giurisprudenza nella ricostruzione degli elementi di fattispecie ricorrenti nella contravvenzione di deposito incontrollato di rifiuti, così come nella maggior parte delle contravvenzioni ambientali e la loro applicazione con esiti in gran parte incidenti in senso limitativo sulla riconduzione dell’errore sui predetti elementi all’art. 5 piuttosto che all’art. 47 c.p.

Dovere di informazione e scusabilità dell’errore: sfuma la differenza tra professionista e quivus de populo
La sentenza annotata si ascrive a pieno titolo tra quelle pronunce che, nel precipuo settore dei reati ambientali, manifesta, per comprensibili ragioni di tutela dei beni protetti, un notevole irrigidimento dei parametri, normalmente utilizzati dalla giurisprudenza in ossequio all’insegnamento della Corte costituzionale, sottesi alla valutazione della scusabilità dell’ignoranza della (o dell’errore sulla) legge penale. Come noto, tra i predetti parametri, rientra l’adempimento del dovere di informarsi sulla disciplina connessa all’attività, socialmente rilevante, che il soggetto si accinge a compiere. Tale dovere è normalmente interpretato secondo criteri più o meno stringenti a seconda che il soggetto sia in possesso della veste di professionista nel settore di attività cui è garantita protezione penale, valutando l’obbligo di informarsi in modo particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica[19], occorrendo, per la scusabilità dell’ignoranza, un quid pluris, dato da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, dal quale l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.
La valutazione è, teoricamente, più “morbida”, nei confronti del cittadino comune, soprattutto se sfornito di specifiche competenze, sussistendo la condizione dell’ignoranza inevitabile allorché egli abbia assolto il dovere di conoscenza con l’ordinaria diligenza attraverso la corretta utilizzazione dei mezzi di informazione, di indagine e di ricerca dei quali disponga. Nello specifico settore dei reati ambientali la giurisprudenza tende ad irrigidire il giudizio concernente la verifica del rispetto del predetto onere di attivazione al fine di adeguarsi all’ordinamento giuridico, per effetto dell’adozione di un criterio prettamente sostanzialistico nella definizione dello status di “titolare d’impresa” rispetto a quello di “privato”, così estendendo le ipotesi di riconoscimento di quella professionalità ritenuta dalla S.C. elemento fondante l’affermazione di responsabilità per colpa.
Tale risultato è da ascriversi alla dilatazione dei destinatari della sanzione penale, tramite un’interpretazione espansiva dei criteri di individuazione delle qualifiche soggettive che fungono da discrimen non soltanto tra reati commessi dall’imprenditore (puniti più gravemente) e reati comuni, ma addirittura tra la rilevanza penale o solo amministrativa del medesimo fatto.
Avendo a riferimento il reato sul quale è intervenuta la sentenza in oggetto, basti pensare che l’art. 255, comma 1, T.U. Ambiente prevede la mera sanzione amministrativa nei confronti dell’analoga condotta di abbandono di rifiuti commessa, però, da un soggetto privato. La ratio del diverso trattamento riservato allo stesso comportamento, distinguendo l’autore della violazione, viene correntemente individuata nella presunzione di minore incidenza sull’ambiente dell’abbandono posto in essere da soggetti che non svolgono attività imprenditoriale o di gestione di enti[20], ritenendo meno lesivo il comportamento del privato che si limiti a smaltire i propri rifiuti al di fuori di qualsiasi intento economico.
Tale distinzione tende, tuttavia, a sfumare nella prassi e con essa il diverso grado di attivazione richiesto al privato rispetto al professionista nella valutazione dell’elemento soggettivo del reato.
La qualifica soggettiva indicata dalla norma, invero, si ritiene integrata non soltanto in presenza di elementi formalmente idonei a fornire al soggetto la veste di professionista del settore ma anche, ribadisce una giurisprudenza sul punto pacifica e costante, in caso di mero svolgimento, in via di fatto, delle attività connesse alla qualifica professionale richiesta. La giurisprudenza esclude che, nell’individuazione del titolare d’impresa o del responsabile dell’ente, debba farsi riferimento alla formale investitura, assumendo rilievo, invece, la funzione in concreto svolta[21], di guisa che il reato di cui all’art. 256, comma 2, T.U. Ambiente, è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell’ambito di una attività economica esercitata anche di fatto, sia che si tratti di rifiuti di propria produzione, sia che questi abbiano diversa provenienza.
Non essendo questa la sede per analizzare approfonditamente la questione[22], basti qui rilevare come l’indirizzo ermeneutico richiamato dia luogo ad un significativo ampliamento dei soggetti titolari della qualifica sostanziale di professionista, alla quale è connesso il dovere di informarsi, in modo più pregnante rispetto al “comune cittadino”, sullo svolgimento dell’attività soggetta ad autorizzazioni o controlli, dovere che finisce così per essere interpretato rispetto al quivus de populo esattamente nella stessa misura in cui ricade sull’imprenditore professionista, in presenza dello svolgimento di una determinata attività regolamentata[23]. Così opinando si finisce, all’evidenza, per riconoscere al comportamento tenuto la capacità di determinare l’insorgere della qualifica soggettiva richiesta per l’integrazione dell’illecito penale anziché amministrativo, impedendo, per contro, il richiamo alla buona fede scusante nelle contravvenzioni e all’applicazione dell’art. 5 c.p. come risulta formulato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988, posto che l’ignoranza della legge penale non può essere invocata da chi, inserito professionalmente in un determinato campo di attività, non si informi sullo stato delle norme che disciplinano il campo stesso e che possono agevolmente essere acquisite alla conoscenza del soggetto.
Peraltro, anche laddove non si addivenga ad affermare la qualifica imprenditoriale in capo a soggetti esercenti in via di fatto le attività soggette ad abilitazione, si può comunque riscontrare un innalzamento, anche il capo al privato cittadino, del dovere di adeguamento alla normativa settoriale.
Esattamente in questa prospettiva si pone la pronuncia annotata, quando afferma che “a maggior ragione trattandosi di persona priva di specifiche competenze settoriali, incombe sull’agente il dovere di informarsi sulla disciplina di settore dell’attività che si intende porre in essere, assolvendo agli obblighi del c.d. homo eiusdem professionis et condicionis”. A maggior ragione, dunque, il privato-non professionista, deve informarsi.
Si può, inoltre, rilevare come, sempre in una prospettiva di irrigidimento del parametro dell’inescusabilità, la massima che postula la necessità di un comportamento positivo degli organi amministrativi atto ad indurre il soggetto in errore circa il contenuto del precetto penale, venga in concreto ridimensionata in tutte quelle pronunce che non ritengono un tale comportamento positivo integrato in presenza di chiarimenti da parte dell’amministrazione in ordine alla liceità di una determinata attività[24].
Un così pregnante dovere di informazione sembrerebbe sostanziare un’ipotesi di applicazione specifica, in capo a tutti i destinatari del precetto penale, di un più ampio dovere di precauzione[25]. Se è vero che il “principio” di precauzione, in virtù della propria natura, vincola il decisore pubblico e in particolare il legislatore, senza fondare regole cautelari specifiche in assenza di una previa interpositio legislatoris, si può egualmente rilevare come tale principio sembri essere sotteso alla costante tendenza verso una maggiore responsabilizzazione dei privati oltre che dei professionisti che con il loro operato incidano sul bene ambiente.

Incidenza della natura istantanea del reato di deposito incontrollato sulla valutazione del parametro dell’inescusabilità
All’espansione dei possibili soggetti attivi delle contravvenzioni ambientali e del connesso innalzamento del dovere di informazione, contribuisce, sia pure indirettamente, l’orientamento giurisprudenziale che tende a considerare istantanei i reati in discorso, ritenendo sufficiente, ai fini dell’integrazione del reato, anche una sola condotta[26].
Ai fini della configurabilità del reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, una consistente parte della giurisprudenza pone l’accento sulla qualifica dell’agente (per escludere l’applicazione dell’illecito amministrativo corrispondente) piuttosto che sull’occasionalità della condotta, sul presupposto della maggiore offensività delle condotte di colui che operi nell’esercizio di un’attività professionale[27]. La contravvenzione prevista dall’art. 256, comma 1, T.U. amb., costituisce, secondo l’orientamento in discorso, nel quale si inserisce la sentenza in oggetto, un reato istantaneo per la cui integrazione è sufficiente un unico atto di trasporto abusivo di rifiuti, da ritenersi integrato anche in presenza di una condotta occasionale.
Peraltro, come visto, la professionalità dell’attività è riconnessa non soltanto a coloro che effettuano attività tipiche di gestione di rifiuti (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti), ma ad ogni impresa, avente le caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c. o ente, con personalità giuridica o operante anche in via di fatto, indipendentemente dalla qualificazione formale sua o dell’attività medesima.
Tale elemento, connesso alla ritenuta natura istantanea (o al più istantanea con effetti permanenti) delle contravvenzioni in discorso, conduce ad estendere il raggio d’azione delle fattispecie penali rispetto a quelle amministrative e, simmetricamente, finisce per incrementare il numero dei soggetti rispetto ai quali è più severamente valutata l’osservanza dell’onere di informarsi sull’attività svolta, non importa se concretantesi in un’unica azione né se si tratti di un ente con personalità giuridica od operante in via di fatto.
Le stesse circostanze normalmente addotte a motivo di buona fede scusante vengono, in questo contesto, ritenute non idonee ad escludere ulteriori possibilità di conoscenza in capo al soggetto, la cui eventuale ignoranza, in ordine alla regolamentazione dell’attività soggetta a controlli, non potrà essere scusata.
Il carattere isolato della condotta di abbandono o rifiuto non è ritenuto circostanza idonea ad escludere l’elemento psicologico del reato[28], dovendo l’imputato, formalmente titolare dell’attività o esercente in via di fatto l’attività imprenditoriale inquinante, provare di avere fatto tutto quanto era possibile per osservare la legge e che, quindi, nessun rimprovero possa essergli mosso, situazione di difficile realizzazione, stando ai criteri adottati dalla giurisprudenza in argomento.
Se pure si ritiene comprensibile un innalzamento dei livelli di tutela di fronte ad attività incidenti sull’ambiente, è altrettanto plausibile porsi l’interrogativo se, nell’aderire alla tesi della natura istantanea del reato di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti, la giurisprudenza non possa mostrarsi meno rigida nella valutazione della scusabilità dell’errore sulla normativa extrapenale, ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative corrispondenti.

Buona fede nelle contravvenzioni ambientali: quid iuris? Conclusioni
La maggior parte delle contravvenzioni in materia ambientale non ha una funzione propriamente repressiva quanto piuttosto precauzionale, tramite la creazione di un sistema di penalizzazione delle attività connesse alla gestione del bene ambiente, la cui coerenza (ed attuazione) sarebbe vanificata dalla creazione di sacche di non punibilità, tramite l’introduzione di un modello di disciplina “condizionato” da un elemento di incerta individuazione come la buona fede. In particolare, in un settore nel quale la condotta vietata deriva la propria illiceità dalla violazione di funzioni penalmente presidiate, assimilare la disciplina di tali funzioni ad elemento normativo della fattispecie penale, ha l’indubbio pregio di contribuire ad una più completa definizione del disvalore materiale del fatto, evitando una ricostruzione dell’illecito in termini di mera disobbedienza a precetti altrimenti posti. D’altra parte, tuttavia, risulta di difficile delimitazione il confine con la disciplina dell’errore ricadente sul fatto di reato, posto che nell’ipotesi di errata convinzione sulla liceità della condotta per effetto di un supposto adeguamento alla disciplina extrapenale, vi è la persuasione di realizzare un fatto diverso da quello descritto dalla norma incriminatrice, senza che venga intaccata la ratio dell’art. 5 c.p.
Dall’analisi della giurisprudenza tendente a riconoscere rilevanza scusante alla buona fede, pur in assenza di fondamento giuridico positivo, sembrano emergere preoccupazioni di equità sostanziale, espressione più o meno consapevole di un’applicazione alla materia della teoria dell’inesigibilità[29] che, tuttavia, esulano dal campo di applicazione dell’art. 5 come dell’art. 47, comma 3, c.p.
La ratio di equità sostanziale sottesa alla creazione in via ermeneutica della buona fede scusante affiora, ad esempio, in talune decisioni che arrivano a definirla in termini di “scriminante”[30], erigendola a precondizione per l’applicazione della disciplina dell’ignoranza inevitabile.
Appare evidente la confusione concettuale sottesa ai percorsi argomentativi seguiti dalla citata giurisprudenza, la quale non fa altro che aumentare la distanza tra la sistematica codicistica sull’error iuris e la pratica (dis)applicazione della stessa.
La strada formalmente più corretta da percorrere sarebbe quella di una “decompressione” dei confini applicativi dell’art. 47, comma 3, rispetto all’art. 5 c.p., riespandendone la sfera di operatività a tutte le ipotesi nelle quali l’errore di diritto ricada sul fatto e non sul precetto. Così procedendo si eviterebbe il ricorso a nozioni prive di un sicuro fondamento normativo quale è quella della buona fede scusante, la cui ambiguità definitoria è direttamente connessa alla sua carente applicazione, salvo richiamarla in funzione di esclusione del riconoscimento delle pretese di non punibilità avanzate in giudizio. Se uno spazio deve residuare a favore di valutazioni di tipo equitativo, questo potrebbe ancorarsi ad un recupero dell’irrilevanza penale del fatto sul diverso piano dell’(in)offensività, tramite la verifica dei presupposti di applicazione dell’art. 131 bis c.p.[31].

[1] Per approfondimenti sulla norma, Bernasconi, sub. art. 256, in F. Giunta (a cura di), Codice commentato dei reati e degli illeciti ambientali – Seconda edizione, 271 ss.; De Santis, Diritto penale dell’ambiente. Un’ipotesi sistematica, 2012, 259 ss.; Tufariello, I delitti ambientali, 2008, 310 ss.
[2] In termini, Cass. Pen., Sez. III, n. 12946/2014.
[3] Santucci, Errore (dir. pen.) in Enc. dir., Milano, XV, 1966, 280 ss.; Pulitanò, Ignoranza (dir. pen.), in Enc. dir., Milano, XX, 1970, 23; Id., Art. 5, Commentario breve al codice penale, a cura di Crespi – Stella – Zuccalà, II ed., 1992, 26 ss.; Donini, Errore sul fatto ed errore sul divieto nello specchio del diritto penale tributario, in Ind. pen., 1989, 145 ss.; Grosso, voce Errore (diritto penale), in Enc. giur., Roma, XIII, 1989; Flora, Errore, in Dig. disc. pen., Torino, IV, 1990, 255 ss.; De Simone, L’errore su legge extrapenale, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale. Codice penale. Parte generale, diretta da Bricola – Zagrebelsky, I, Torino, II ed., 1996, 686 ss.; Piacenza, Errore ed ignoranza di diritto in materia penale, 1960, 38 ss.; Belfiore, Contributo alla teoria dell’errore in diritto penale, 1997, 32 ss.; Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, sub art. 47, comma 3, Milano, III ed., 2004.
[4] Commentata da Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: “prima lettura” della sentenza n. 364/88, in Foro it., 1988, I, 1385 ss.; Padovani, L’ignoranza inevitabile sulla legge penale e la declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p., in Leg. pen., 1988, 449 ss.; Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 686 ss.
[5] Corte cost., sent. n. 364/1988, parr. 26-28 della motivazione.
[6] Fiandaca, Principio di colpevolezza, cit., 1392; Palazzo, Ignorantia legis: vecchi limiti ed orizzonti nuovi della colpevolezza, in Stile (a cura di), Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, 180 ss.; Id., Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., Torino, VI, 1992, 141 ss.
[7] Pulitanò, Una sentenza storica, cit., 717 ss.
[8] Sicuramente minoritarie le pronunce che hanno riconosciuto la valenza scusante dell’error iuris: Cass. Pen., Sez. I, n. 25912/2003; Cass. Pen., Sez. V, n. 22205/2008; Cass. Pen., Sez. II, n. 46669/2011; Cass. Pen., Sez. III, n. 36852/2014; nonché, di recente, nella nota vicenda di Punta Perotti, Cass. Pen., Sez. III, n. 11045/2015.
[9] Frosali, L’errore nella teoria del diritto penale, 1933, 160 ss.; Carnelutti, Teoria generale del reato, 1933, 171; Palazzo, L’errore sulla legge extrapenale, 1974, 98 ss.; Critici: Battaglini, Errore su leggi diverse dalla legge penale, in Giust. pen., 1933, II, 1188 ss.; Vannini, Poche parole, ma chiare parole in tema di dolo, in Quid iuris?, X, 1953, 31; Saltelli, L’errore su legge diversa dalla legge penale, in Giust. pen., 1946, II, 322 ss.; Pulitanò, L’errore di diritto, cit., 247 ss.; Mantovani, Il principio di soggettività ed il suo integrale recupero nei residui di responsabilità oggettiva, espressa ed occulta, Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2014, 767.
[10] Sulla distinzione tra norme tra norme extrapenali integratrici e non integratrici e sulle relative ricadute di disciplina nei rapporti tra art. 47 e art. 5 c.p., si veda, tra gli altri, Risicato, Gli elementi normativi della fattispecie penale, 2004, 70 ss.; Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, 2008, 841 ss.; Pagliaro, Principi di diritto penale, Parte Generale, Milano, 2003, 52; Marinucci – Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., Milano, 2001, 273 ss.; Palazzo, Legge penale, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, 357; Trapani, Legge penale (Fonti), in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, 3 ss.; De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, Torino, 2011, 102.
[11] Siracusa, La tutela penale dell’ambiente. Bene giuridico e tecniche di incriminazione, 2007, 126 ss.; Plantamura, Diritto penale e tutela dell’ambiente, 2007, 151.
[12] Ruga Riva, Dolo e colpa nei reati ambientali. Considerazioni su precauzione, dolo eventuale ed errore, in www.penalecontemporaneo.it; Id., in Pelissero (a cura di), Tutela dell’ambiente. Parte generale, in Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da Palazzo – Paliero, 2013, 3 ss.; Id., Diritto penale dell’ambiente, 2013, 58 ss.; Belfiore, Contributo alla teoria dell’errore in diritto penale, cit., 32 ss.; Ramacci, Diritto penale dell’ambiente, 2015, 45 ss.; Bernasconi, Il reato ambientale. Tipicità, offensività, antigiuridicità, colpevolezza, 2008; Di Nardo – Di Nardo, I reati ambientali, II ed., 2006, 59.
[13] Sulla figura della buona fede scusante nelle contravvenzioni, Fornasari, Buona fede e delitti: limiti normativi dell’art. 5 c.p. e criteri di concretizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 449 ss.; Palazzo, L’errore sulla legge extrapenale, 1974, 104.
[14] Belfiore, Contributo alla teoria dell’errore, cit., 39 ss.
[15] Sulla ricostruzione della giurisprudenza immediatamente successiva all’introduzione dell’art. 47 nel Codice Rocco, in linea di sostanziale continuità con quella precedente, si veda Licitra, L’errore sulla legge extrapenale, 1988, 7 ss.; Lanzi, L’errore su legge extrapenale, la giurisprudenza degli ultimi anni e la non applicazione dell’art. 47 ult. co. c.p., in Ind. pen., 1976, 299 ss.
[16] A una giurisprudenza di legittimità riluttante a riconoscere la scusabilità dell’errore di diritto, per evidenti ragioni general-preventive si contrappone una meno rigorista giurisprudenza di merito, maggiormente incline a conferire efficacia scusante all’errore sul precetto.
[17] L. 22 maggio 2015, n. 68, Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente, in G.U. Serie Generale n. 122 del 28 maggio 2015. Per una disamina delle nuove disposizioni, Ruga Riva, I nuovi ecoreati, commento alla legge 22 maggio 2015, n. 68, 2015.
[18] Sulla portata di tale elemento si veda Ruga Riva, Ancora sul concetto di abusivamente nei delitti ambientali: replica a Gianfranco Amendola, 6 luglio 2015, in www.lexambiente.com.
[19] Da ultimo, confermano tale orientamento, inaugurato da Cass. Pen., SS.UU., 10 giugno 1994, Calzetta, Cass. Pen., Sez. III, n. 43560/2015, n. 11045/2015, n. 11340/2015.
[20] Cass. Pen., Sez. III, n. 42377/2003, n. 9544/2004, n. 38364/2013.
[21] Cass. Pen., Sez. III, n. 24466/2007, n. 19207/2008, n. 35945/2010, n. 22035/2010; n. 38364/2013, 47662/2014, la quale ha precisato come, nell’individuazione, da farsi in concreto, dell’attività imprenditoriale, il giudice del merito dovrà tener conto di elementi rivelatori quali l’utilizzo di mezzi e modalità che eccedano quelli normalmente nella disponibilità del privato, la natura e la provenienza dei materiali, la quantità e la qualità dei soggetti che hanno posto in essere la condotta.
[22] Sul punto si veda Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, cit., 56 ss.; D’Agostino – Salomone, La tutela dell’ambiente. Profili penali e sanzionatori, 2011, 378 ss.; De Santis, Diritto penale dell’ambiente, cit., 255; Paone, Il produttore di rifiuti e le sue responsabilità per l’illecito smaltimento, in Ambiente, 2011, 648; Id., Obblighi e sanzioni in tema di produzione e deposito temporaneo di rifiuti, in Ambiente & Sviluppo, 2009, 321; Valiante, Manuale di diritto penale dell’ambiente, 2009, 262; Vattani, Le novità relative alla nozione di “produttore di rifiuti” e “deposito temporaneo”, in www.dirittoambiente.net.
[23] Espressione del predetto irrigidimento della valutazione circa la scusabilità dell’error iuris verso soggetti solo “sostanzialmente” imprenditori, si veda da ultimo Cass. pen., Sez. III, n. 25941/2015.
[24] Cass. Pen., Sez. III, n. 11045/2015.
[25] Sul principio di precauzione nei reati ambientali si veda Ruga Riva, Dolo e colpa nei reati ambientali, cit.; Id., Principio di precauzione e diritto penale, in Dolcini – Paliero (a cura di), Scritti in onore di Marinucci, II, 2006, 1754 ss.; nonché, tra i numerosi contributi della dottrina, Giunta, Il diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, 227 ss.; Castronuovo, Principio di precauzione e diritto penale: paradigmi dell’incertezza nella struttura del reato, 2012; Consorte, Tutela penale e principio di precauzione. Profili attuali, problematicità, possibili sviluppi, 2013.
[26] In argomento si veda, Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, 2015, 480 ss.; Paone, Quando si consuma il reato di deposito incontrollato?, nota a Cass. Pen., Sez. III, n. 16183/2013, in Ambiente & Sviluppo, 2014, I, 35; Id., Abbandono o deposito incontrollato di rifiuti: quando il reato è permanente?, nota a Cass. Pen., Sez. III, n. 30910/2014, in Ambiente & Sviluppo, 2014, XI, 777; Id., nota a Cass. Pen., Sez. III, n. 45306, Un trasporto occasionale di rifiuti è sempre sufficiente per integrare la fattispecie incriminatrice?, in Riv. giur. ambiente, 3-4, 2014, 0346B; Bray, Sulla configurabilità dell’abbandono di rifiuti: soggetto attivo e momento consumativo del reato (istantaneo o permanente?), in www.penalecontemporaneo.it.
[27] Si vedano, ex multiis, Cass. Pen., Sez. III, n. 30123/2012; n. 30910/2014; n. 40789/2014; n. 19332/2015; n. 1619/2016; precisa la necessità di una successiva fase di gestione del rifiuto, del quale il reato di deposito incontrollato costituirebbe il prodromo sostanziandosi anch’esso in una forma di gestione del rifiuto, preventiva rispetto al successivo smaltimento o recupero, Cass. pen., sez. III, n. 49590/2015. Optano per la natura permanente del reato, Cass. Pen., Sez. III, nn. 25216/2011; 48489/2013; 30910/2014; 51422/2014.
[28] Cass. Pen., Sez. III, n. 24331/2008, n. 19207/2008, n. 35945/2010.
[29] Per una disamina della dottrina della inesigibilità, Bettiol, Diritto penale, 1982, 489 ss.; Fiandaca – Musco, Diritto penale, 2001, 360; Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, 1990; Scarano, La non esigibilità in diritto penale, 1948; Abbattista, Inesigibilità e scriminanti tacite: ipotesi applicative, in Marinucci – Dolcini, Studi di diritto penale, 1991, 505 ss.
[30] Cass. Pen., Sez. III, n. 45306/2013.
[31] Si vuol far riferimento all’istituto della particolare tenuità del fatto, di recente introdotto con il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28. Per una recente applicazione dell’art. 131 bis c.p., proprio in relazione al reato di gestione abusiva rifiuti ex art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 e di esclusione della punibilità, si veda Cass. Pen., Sez. III, n. 41850/2015.

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