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Stefano Maglia

Fresato d'asfalto: End of Waste? Considerazioni sul nuovo D.M. 69/2018

di Stefano Maglia, Sabrina Suardi

Categoria: Rifiuti

 

Con il termine “fresato d’asfalto” si intende generalmente “il conglomerato bituminoso recuperato mediante fresatura degli strati del rivestimento stradale, che può essere utilizzato come materiale costituente per miscele bituminose prodotte in impianto a caldo” (citazione tratta dalla norma tecnica UNI EN 13108-8).

 

A tal proposito, la stessa norma specifica i requisiti per la classificazione, stabilendo i controlli da effettuare per accertare eventuali impurità del fresato come materie plastiche, legno, metallo o altri materiali non pertinenti, la frequenza di esecuzione delle prove nonché il contenuto di legante e la determinazione della distribuzione granulometrica[1].

 

Per gestire correttamente il fresato d’asfalto occorre individuare ed esaminare, dal punto di vista operativo, le casistiche che si possono prospettare a seconda della qualifica che detto materiale può assumere. Il fresato d’asfalto, in prima battuta, deve essere tendenzialmente qualificato come rifiuto speciale ai sensi dell’art. 184, c. 3, D.L.vo 152/2006[2], del quale è produttore il soggetto che materialmente effettua l’attività di scarifica del manto stradale[3].
 

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Ai fini della corretta gestione del rifiuto costituito dal fresato d’asfalto occorre dunque procedere alla corretta classificazione del medesimo, mediante l’attribuzione del pertinente codice CER (v. Allegato D, Parte IV, D.L.vo 152/2006).

 

Data l’attività di provenienza dalla quale il fresato decade è ragionevole ritenere che si possa generare un rifiuto a cui competono due codici CER c.d. “a specchio”, uno pericoloso e uno non pericoloso, ossia:

  • 17.03.01* – miscele bituminose contenenti catrame di carbone;
  • 17.03.02 – miscele bituminose diverse da quelle di cui alla voce 17.03.01.

Tale impostazione è stata condivisa dalla giurisprudenza immediatamente successiva all’entrata in vigore del D.L.vo 152/2006. Si fa riferimento alle Sentenze della Corte di Cassazione, Sezione III Pen., n. 16695 dell’8 aprile 2004 e n. 23788 del 18 giugno 2007, per le quali la qualificazione giuridica del fresato d’asfalto proveniente dal disfacimento del manto stradale doveva corrispondere a tutti gli effetti a quella di un rifiuto ed in quanto tale sottoposto alla disciplina di riferimento (in precedenza il D.L.vo 22/1997, c.d. Decreto Ronchi, e successivamente il D.L.vo 152/2006).

Ancor più rigida fu, poi, la medesima Corte nella Sentenza n. 42535 del 14 novembre 2008, nella quale si legge “l’ingente accumulo di terre e rocce con grossi blocchi di asfalto provenienti dalla demolizione del manto stradale e del livello sottostante nel quale non erano comprese rocce da scavo in galleria, integra la fattispecie di cui all’art. 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997” e cioè “Attività di gestione di rifiuti non autorizzata”.

 

 

Nelle prassi amministrative, invece, si è operata da tempo una distinzione, nel considerare il fresato come rifiuto o sottoprodotto, rispetto a due vicende così connotate:

  1. il fresato generato dalla rimozione (tramite fresatura) degli strati superficiali del manto di asfalto, svolta da ditta appaltatrici dei lavori di rifacimento e/o manutenzione delle strade – viene trattato dalla medesima ditta (mediante riselezione e frantumazione) al fine di produrre, utilizzando appositi impianti mobili in situ (cioè all’interno del cantiere), conglomerati bituminosi destinati alla loro immediata riutilizzazione;
  2. il fresato, prodotto dalla stessa società appaltatrice (come sopra), viene trasferito ad altro soggetto, il c.d. “utilizzatore” il quale produce conglomerati bituminosi, impiegando tale residuo produttivo nel proprio (distinto) ciclo di produzione, e dunque presso il proprio impianto (il fresato sarà miscelato con altra materia prima). Sicché, in tal caso il fresato: viene generato dalla società appaltatrice dei lavori di fabbricazione e/o manutenzione stradale per essere poi consegnato ad imprese terze, che lo utilizzano, nel proprio ciclo produttivo come uno dei materiali utili (e concorrenti con altre materie) alla produzione di nuovo conglomerato bituminoso.

 

A sostegno dei menzionati approcci restrittivi si adducevano, abitualmente, le seguenti ragioni:

  • il fresato è contemplato dal Catalogo Europeo dei Rifiuti[4] che gli attribuisce un determinato codice CER, il 170302 miscele bituminose diverse da quelle di cui alla voce 17 03 01*;
  • questo materiale risponderebbe alla nozione di sostanza di cui il detentore si “disfa,” ex lett. a), c. 1, dell’art. 183, D.L.vo 152/2006, con riferimento tanto al proprietario della strada (da cui è prelevato il fresato), quanto alla società appaltatrice, che, in veste di produttrice/detentrice, lo destinerebbe al “recupero”, consegnandolo a terzi, ex art. 183, lett. t), del decreto citato;
  • il fresato, in base ad alcuni contratti d’appalto, deve essere smaltito in discarica, salvo che sia recuperato come rifiuto;
  • esso è previsto e disciplinato, come rifiuto, dal D.M. 5 febbraio 1998, sotto la voce 7.6 e 7.1 (modificata dal D.M. 5 aprile 2006).

 

Dalla qualifica del fresato, come rifiuto, è fatto derivare – ovviamente – un regime giuridico particolarmente oneroso per il suo utilizzatore, sottoposto ad una serie di prescrizioni (dettate dalla Parte IV del D.L.vo 152/2006), per il suo stoccaggio, trasporto, trattamento e, più in generale, per la sua gestione.
Finora, la natura giuridica di rifiuto – assegnata al fresato – si è ripercossa inevitabilmente sulle attività delle imprese produttrici di conglomerati bituminosi, intenzionate ad utilizzarlo, nel proprio ciclo produttivo, unitamente alla materia prima vergine, che hanno visto assoggettare il proprio impianto, prima ancora di realizzarlo e metterlo in esercizio, ad oneri procedimentali assai rilevanti, in termini finanziari, burocratici e temporali, come la sottoposizione, per es.:

  • alla procedura di VIA, per valutare gli impatti ambientali derivanti dallo stabilimento, nonché ad altre procedure autorizzatorie ambientali (ad es. la valutazione di incidenza obbligatoria, qualora l’impianto ricada in area SIC -“Sito di interesse comunitario”);
  • alla richiesta di autorizzazione per svolgere il recupero ordinario, ex art. 208 del D.L.vo 152/2006 o semplificato del fresato, ex art. 214 – 216, D.L.vo 152/2006, con l’osservanza delle previsioni della voce 7.6. del D.M. 5 febbraio 1998;
  • al rispetto delle prescrizioni e precauzioni dettate dalle autorità amministrative per evitare conseguenze connesse dalla gestione di fresato che potrebbe contenere inquinanti provenienti dalla superficie stradale (come ad es. impermeabilizzazioni delle aree di stoccaggio, raccolta delle acque di prima pioggia, con scolmatore, ecc.);
  • alle disposizioni sulla tracciabilità del fresato dal luogo di formazione a quello di trattamento, sino al reimpiego.

 

La scelta della maggior parte delle amministrazioni provinciali di applicare un duplice binario per il fresato[5], è stata poi riesaminata dalla dottrina allo scopo di verificarne la compatibilità con la vigente normativa in tema di sottoprodotti, dalla quale è stato rilevato che tale regime non trova serie giustificazioni tecniche o ambientali ove si rifletta che, in entrambe le ipotesi, il fresato:

  • deriva dal medesimo ciclo produttivo di origine (lavori di pavimentazione stradale);
  • conserva la stessa formazione e composizione chimico-fisica;
  • registra la medesima (eventuale) presenza di contaminanti;
  • viene sottoposto agli stessi trattamenti (selezione, macinazione, ecc.).

A cambiare, in queste ipotesi, risulterebbe soltanto il luogo dove il fresato viene riselezionato e ridotto granulometricamente per costituire una componente della produzione del nuovo conglomerato bituminoso.

 

Nel corso degli anni la querelle non ha accennato ad attenuarsi.

In una fattispecie in cui l’asfalto veniva fresato al fine del rifacimento del manto stradale, il Tar Lombardia, con la Sentenza n. 2182 del 10 agosto 2012 concludeva che, fermo restando la qualifica del fresato d’asfalto come rifiuto, lo stesso materiale potesse essere nondimeno qualificato sottoprodotto ex art. 184 bis, D.L.vo 152/2006, anziché rifiuto se lo stesso fosse inserito in un ciclo produttivo, ossia utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla normale pratica industriale in un impianto che ne preveda l’impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto.

Peraltro, posto che il fresato d’asfalto può essere utilizzato in situ (sul posto) o in un impianto fisso (stabilimento di produzione di nuovo conglomerato bituminoso), il TAR specificava, altresì, che “non appare necessario al Collegio […] che ai fini della qualifica del fresato come sottoprodotto, il riutilizzo debba avvenire, per volontà della norma, nello stesso sito di produzione del rifiuto e sotto la direzione del medesimo imprenditore, posto che il fatto che il materiale fresato rimanga nel luogo di produzione, nelle vicinanze od in altro luogo non costituisce di per sé elemento univoco per qualificarlo come rifiuto dovendo ciò desumersi, invece, dalle modalità del deposito, dalla sua durata o da altre circostanze che evidenzino con certezza una situazione di abbandono (nella quale rientra lo stoccaggio del materiale in attesa di un futuro reimpiego)”.

Questi stessi principi sono stati riconfermati anche dal Consiglio di Stato, che con la Sentenza n. 4151 del 6 agosto 2013 ha nuovamente approfondito le condizioni affinché il fresato d’asfalto possa essere qualificato come sottoprodotto, concludendo che il fresato, pur essendo considerato oggettivamente un rifiuto, nel momento in cui soddisfa le condizioni di cui all’art. 184-bis, può essere considerato – e quindi trattato – come sottoprodotto[6].

Conferma si è avuta con la Sentenza n. 4978 del 6 ottobre 2014, in cui il Consiglio di Stato ribadiva che il fresato d’asfalto integralmente riutilizzato nel corso di un processo di produzione o di utilizzazione senza alcun trattamento diverso dalla normale pratica industriale può essere considerato sottoprodotto, e non rifiuto, ai sensi dell’art. 184-bis, D.L.vo 152/2006.

 

Malgrado tali aperture, tuttavia, nei casi sottoposti a giudizio, non si è mai arrivati all’effettiva qualificazione, in quanto non si sono riusciti a fornire elementi idonei a far ritenere che le condizioni tecniche necessarie per il riuso nel processo produttivo fossero state pienamente soddisfatte.

Ciò non a caso, in quanto, in realtà, basta leggere con un minimo di attenzione le condizioni di cui all’art 184-bis del D.L.vo 152/2006 per escludere questa possibilità.

Infatti l’art. 2, c. 1, lett. b), del Decreto 13 ottobre 2016, n. 264, “Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”, definisce residuo di produzione “ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto”, con ciò confermando che il sottoprodotto deve scaturire da un processo produttivo dalla nozione del quale si deve, quindi, escludere, oltre all’escavazione di terre e rocce[7] (per fare un esempio consono), la fresatura stessa del manto stradale.

 

Del medesimo tenore è la Sentenza della Corte di Cassazione n. 53136 del 22 novembre 2017, con la quale è stato ribadito che “Integra il reato previsto dall’art. 256, comma primo, lett. a), del D.L.vo. 3 aprile 2006, n. 152 il reimpiego di materiale inerte derivante dall’attività di scarifica del manto stradale nel processo produttivo di conglomerato bituminoso, non potendo lo scarificato essere qualificato come sottoprodotto ai sensi dell’art. 184 bis del citato D.L.vo. neppure all’esito della modifica introdotta dall’art. 12 del D.L.vo. 3 dicembre 2010, n. 205”.

 

Va per completezza sottolineato, peraltro, nella recentissima Sentenza n. 24865 del 4 giugno 2018 della Corte di Cassazione il richiamo alle due pronunce del Consiglio di Stato innanzi citate (Sez. IV, 21 maggio 2013, n. 4151 e 6 ottobre 2014, n. 4978 ) per ammettere che, astrattamente, il fresato d’asfalto “può essere trattato alla stregua di un sottoprodotto solo se venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito”.

 

Condizioni che, giova ripeterlo, non sono mai state ritenute sussistenti in nessuna fattispecie concreta, tanto che, finora, il fresato d’asfalto è sempre stato gestito conseguentemente come rifiuto.

 

Ai sensi dell’art. 184 ter, D.L.vo 152/2006, e del comma 2 in particolare, il quale prevede che “i criteri di cui al comma 1 del medesimo articolo – quelli per i quali un rifiuto cessa di essere tale– sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza, di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400”, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18 giugno 2018 il tanto atteso regolamento sulla cessazione della qualifica di rifiuto del fresato d’asfalto: si tratta del Decreto del Ministero dell’Ambiente 28 marzo 2018, n. 69, in vigore dal 3 luglio 2018.

Il provvedimento, costituito da sei articoli e due allegati, stabilisce i criteri specifici in presenza dei quali il conglomerato bituminoso cessa di essere qualificato come rifiuto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 184 ter del D.L.vo 152/2006.

Nell’annosa questione circa la natura di tale materiale, tuttavia, il nuovo decreto si inserisce a gamba tesa, in quanto sembrerebbe, seppur indirettamente, ammettere la sua qualificazione come sottoprodotto. Si veda a tal proposito l’art. 1, c. 2, il quale dispone che “Le disposizioni del presente regolamento non si applicano al conglomerato bituminoso qualificato come sottoprodotto ai sensi e per gli effetti dell’articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”.

La disposizione, evidentemente equivoca, sottointende la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 184 bis del D.L.vo 152/2006 che, tuttavia, mai potranno essere provate in quanto la scarificazione del manto stradale, come si è già avuto modo di sottolineare, non può definirsi certo un processo di produzione da cui, invece, si dovrebbe originare la sostanza o l’oggetto qualificabile come sottoprodotto (art. 184 bis, c. 1, lett. a), D.L.vo 152/2006).

Le definizioni utili ai fini dell’applicazione del regolamento sono contenute nell’art. 2. Tra queste, il conglomerato bituminoso è inteso quale “rifiuto costituito dalla miscela di inerti e leganti bituminosi identificata con il codice EER 17.03.02 proveniente:

1) da operazioni di fresatura a freddo degli strati di pavimentazione realizzate in conglomerato bituminoso;

2) dalla demolizione di pavimentazioni realizzate in conglomerato bituminoso”.

Il conglomerato che ha cessato di essere rifiuto prende, invece, il nome di granulato di conglomerato bituminoso.

 

In particolare, il conglomerato–rifiuto cessa di essere tale, divenendo granulato di conglomerato, quando, ai sensi dell’art. 3:

a) è utilizzabile per gli scopi specifici di cui alla parte a) dell’Allegato 1;

b) risponde agli standard previsti dalle norme UNI EN 13108-8 (serie da 1-7) o UNI EN 13242 in funzione dello scopo specifico previsto;

c) risulta conforme alle specifiche di cui alla parte b) dell’Allegato 1”.

 

L’Allegato 1, Parte a), richiama l’art. 184 ter, comma 1, lettera a), D.L.vo 152/2006, il quale richiede che la sostanza o l’oggetto, per la cessazione della qualifica di rifiuto, sia “comunemente utilizzato per scopi specifici”, si deve trattare, cioè, di prodotti diffusi, generalmente applicati in ambiti noti ed atti a svolgere funzioni conosciute e definite[8].

 

A tal proposito, è proprio il Regolamento a definire quando è comunemente utilizzato il granulato di conglomerato bituminoso con tre casistiche particolari:

  • per le miscele bituminose prodotte con un sistema di miscelazione a caldo nel rispetto della norma UNI EN 13108 (serie da 1-7);
  • per le miscele bituminose prodotte con un sistema di miscelazione a freddo;
  • per la produzione di aggregati per materiali non legati e legati con leganti idraulici per l’impiego nella costruzione di strade, in conformità alla norma armonizzata UNI EN 13242, ad esclusione dei recuperi ambientali”.

 

A seconda dello scopo specifico previsto, poi, il materiale dovrà rispettare gli standard dettati dalle norme UNI EN 13108-8 (la quale specifica i requisiti per la classificazione e la descrizione del conglomerato bituminoso di recupero, con leganti bituminosi, come materiale costituente per miscele bituminose) e UNI EN 13242 (la quale specifica le proprietà di aggregati ottenuti mediante processo naturale o industriale oppure riciclati per materiali non legati e legati con leganti idraulici, per impiego in opere di ingegneria civile e nella costruzione di strade).

 

Ed infine, si dovrà dimostrare la conformità del materiale attuando le verifiche previste dalla parte b) del medesimo Allegato:

  • controlli sui rifiuti in ingresso all’impianto atti a verificare l’assenza di materiale diverso dal conglomerato bituminoso mediante procedura di accettazione dei rifiuti in ingresso tramite il controllo visivo o qualsiasi apparecchiatura non specializzata;
  • test sul campione di granulato di conglomerato bituminoso mediante il prelievo di campioni secondo le metodiche definite dalla norma UNI 10802 con le seguenti specifiche: frequenza campionamento, 1 campione ogni 3000 m³; analisi eseguite da un laboratorio certificato.

Il test è volto ad escludere la presenza di amianto e IPA – Idrocarburi Policiclici Aromatici con riferimento alla Tabella 1, dell’allegato 5 alla parte IV, del D.L.vo 152/2006[9].

 

Dovrà essere condotto anche il test di cessione mediante il prelievo di campioni secondo le metodiche definite dalla norma UNI 10802 con le seguenti specifiche:

  • frequenza campionamento, 1 campione ogni 3000 m³;
  • analisi eseguite da un laboratorio certificato;
  • preparazione del campione ai fini della esecuzione del test di cessione secondo il metodo riportato nell’allegato 3 al decreto del Ministero dell’ambiente 5 febbraio 1998 (appendice A alla norma UNI 10802, secondo la metodica prevista dalla norma UNI EN 12457-2) con riferimento ai parametri e limiti riportati nella tabella b.2.2.

 

Le caratteristiche prestazionali del granulato di conglomerato bituminoso dovranno avere le seguenti specifiche:

  • Presenza di materie estranee à Max 1% in massa;
  • Normativa di riferimento per la classificazione granulometrica: EN 933-1;
  • Normativa di riferimento per la natura degli aggregati: EN 932-3.

 

Ai sensi dell’art. 4 del nuovo regolamento, poi, il produttore, inteso non quale “Produttore del rifiuto” ma come gestore dell’impianto autorizzato per la produzione di granulato di conglomerato bituminoso, è tenuto ad attestare, mediante dichiarazione sostitutiva di atto notorio, il rispetto delle condizioni appena esposte.

La dichiarazione dovrà essere redatta al termine del processo produttivo di ciascun lotto, secondo il modulo di cui all’Allegato 2 al D.M., inviata tramite raccomandata con avviso di ricevimento all’Autorità competente e all’agenzia di protezione ambientale territorialmente competente e conservata, anche in formato elettronico.

Per rendere il più possibile agevole la verifica della sussistenza dei requisiti per la cessazione della qualifica di rifiuto, il produttore è, altresì, tenuto a conservare per cinque anni un campione di granulato di conglomerato bituminoso prelevato al termine del processo produttivo di ciascun lotto, in conformità alla norma UNI 10802:2013.

 

Tali obblighi non riguardano, però, le imprese registrate EMAS e quelle in possesso di certificazione ambientale UNI EN ISO 14001, rilasciata da organismo accreditato ai sensi della normativa vigente.

Tale esenzione, tuttavia, dipende dalla sussistenza di apposita documentazione che dimostri:

  • il rispetto delle condizioni per la cessazione della qualifica di rifiuto di cui all’art. 3;
  • la caratterizzazione secondo quanto previsto nell’allegato 1 parte b);
  • la tracciabilità dei rifiuti in ingresso all’impianto del produttore;
  • le destinazioni del granulato di conglomerato bituminoso prodotto;
  • il rispetto della normativa in materia ambientale e delle eventuali prescrizioni riportate nell’autorizzazione;
  • la revisione ed il miglioramento del sistema di gestione ambientale;
  • la formazione del personale.

Il sistema di gestione ambientale deve essere certificato da un organismo terzo accreditato e, quindi, soggetto a verifiche periodiche di mantenimento e rinnovo della certificazione.

 

L’art. 6, infine, si occupa dell’adeguamento degli impianti in essere alla nuova disciplina prevedendo che “Ai fini dell’adeguamento ai criteri di cui al presente regolamento, il produttore, entro centoventi giorni dall’entrata in vigore dello stesso, presenta all’autorità competente un aggiornamento della comunicazione effettuata ai sensi dell’articolo 216 o un’istanza di aggiornamento dell’autorizzazione ai sensi del Titolo III-bis della Parte II[10] e del Titolo I, Capo IV[11], della Parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”.

L’adeguamento riguarda, quindi, tutte le autorizzazioni già rilasciate, in semplificata ed in ordinaria.

Nelle more, il granulato di conglomerato bituminoso prodotto potrà essere utilizzato se presenta caratteristiche conformi alle condizioni normativamente espresse (art. 3), attestate mediante una dichiarazione di conformità elaborata ai sensi dell’art. 4.

 

A conclusione di queste prime considerazioni sul nuovo decreto che ha finalmente previsto i criteri specifici da rispettare affinché determinate tipologie di conglomerato bituminoso di recupero, derivanti dalla fresatura e dalla frantumazione delle pavimentazioni stradali, cessino di essere qualificate come rifiuto, stupisce, tuttavia, ancora la scarsa chiarezza circa l’ulteriore qualificazione come sottoprodotto. A parere di chi scrive, a prescindere dalla natura che ad esso si voglia fittiziamente attribuire, non è possibile prescindere dalla sua origine che, come innanzi analizzato e ribadito, non può essere fatta coincidere con quel processo produttivo richiesto dalla norma (art. 184 bis) per la qualificazione dello stesso come sottoprodotto.

 

A fronte di tutto quanto premesso, quindi, il fresato d’asfalto va qualificato come rifiuto speciale ai sensi dell’art. 184, c. 3, D.L.vo 152/2006 che, sottoposto a recupero in impianto autorizzato alle condizioni previste dal nuovo D.M. 69/2018, può cessare tale qualifica per riacquistare quella di “prodotto.

 

Piacenza, 27.06.2018

 

Questa è una delle tante tematiche che approfondiremo durante il Corso di TuttoAmbiente: “Rifiuti: novità e criticità – Classificazione, EoW, sottoprodotti, terre e fresato, Albo, Circular Economy“, che si terrà a Piacenza, il 25 luglio 2018.

Info e approfondimenti: formazione@tuttoambiente.it – 0523.315305

 

 

[1] S. RAVAIOLI, Fresato d’asfalto: rifiuto o sottoprodotto? in www.siteb.it

[2] S.MAGLIA, M.BALOSSI, “Fresato d’asfalto: rifiuto o non rifiuto?”, in www.tuttoambiente.it.

[3] Si veda la definizione di “produttore di rifiuti” di cui all’art. 183, comma 1, lett. f), D.L.vo 152/2006 “produttore di rifiuti”: il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)”.

[4] Istituito con la Decisione 2000/532, è stato più volte sottoposto a modifica. Oggi è consultabile nella formulazione vigente resa dalla Decisione della Commissione 2014/955/UE ai sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.

[5] A seconda che sia impiegato nello stesso ciclo di origine (e cioè sul posto, per la produzione in situ del conglomerato) ovvero sia destinato, invece, all’utilizzo per la produzione di conglomerati bituminosi in appositi impianti fissi, posti all’esterno del cantiere, da impiegare allo stesso fine (qualifica di rifiuto, con assoggettamento alle procedure di recupero, ordinario o agevolato).

[6] Cfr. anche C. SCARDACI, Il fresato d’asfalto nella sentenza del Consiglio di Stato 4151/2013, in www.giuristiambientali.it

[7] Si veda il Punto 2.4 del Capitolo 2.

[8]Così S. Maglia – P. Pipere – L. Prati – L. Benedusi, “Gestione Ambientale – manuale operativo”, edizioni Tuttoambiente, 2017, pag. 218 e ss.

[9] Limiti riportati nella tabella b.2.1., Allegato I, del D.M. 69/2018.

[10] Autorizzazione Integrata Ambientale.

[11] Autorizzazioni e iscrizioni.

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