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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Rifiuti da DPI Covid-19 in ambito non sanitario. ISPRA e SNPA dimenticano la norma speciale.
di Paolo Pipere
Categoria: Rifiuti
Le associazioni imprenditoriali hanno chiesto al Ministero dell’Ambiente di definire criteri uniformi sull’intero territorio nazionale per la gestione dei rifiuti costituiti da mascherine, guanti e indumenti protettivi utilizzati per prevenire la diffusione dell’epidemia da Coronavirus. In particolare, le organizzazioni di categoria hanno proposto di adottare i criteri già definiti con ordinanze contingibili e urgenti, emanate sulla base dell’articolo 191 del decreto legislativo 152 del 2006[1], dei presidenti delle regioni in Lombardia, Veneto e Emilia Romagna.
L’Ordinanza dell’Emilia Romagna, per esempio, dispone:
«che i rifiuti costituiti da Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) utilizzati all’interno di attività economiche-produttive per la tutela da COVID-19, quali mascherine e guanti, siano assimilati ai rifiuti urbani e conferiti al Gestore del servizio nella frazione di rifiuti indifferenziati, nel rispetto delle indicazioni fornite dall’Istituto Superiore della Sanità con nota del 12/03/2020 (prot. AOO-ISS 0008293)».
Altre Regioni, invece, non hanno adottato una specifica ordinanza per fronteggiare le difficoltà connesse alla gestione dei rifiuti costituiti da mascherine, guanti e indumenti protettivi. Tali rifiuti, infatti, potrebbero essere considerati, sulla base delle evidenze scientifiche richiamate nella pubblicazione dell’Istituto Superiore di Sanità “Indicazioni ad interim per la gestione dei rifiuti urbani in relazione alla trasmissione dell’infezione da virus SARS-CoV-2”, come materiali potenzialmente in grado di veicolare l’infezione. La pubblicazione citata, richiamando gli studi scientifici disponibili al 31 marzo, precisa che:
«si ipotizza che il virus SARS-CoV-2 si disattivi, per analogia con altri virus con envelope, in un intervallo temporale che va da pochi minuti a un massimo di 9 giorni, in dipendenza della matrice/materiale, della concentrazione e delle condizioni microclimatiche. Generalmente altri coronavirus (es. virus SARS e MERS) non sopravvivono su carta in assenza di umidità, ma si ritrovano più a lungo su indumenti monouso (se a concentrazione elevata, per 24 ore), rispetto, ad esempio, al cotone. Ciò tenendo conto che il dato si riferisce alla rilevazione analitica del RNA del virus e non al suo isolamento in forma vitale e quindi alla sua infettività.
Dati più recenti relativi al SARS-CoV-2 confermano la capacità di persistenza del virus su plastica e acciaio inossidabile che, in condizioni sperimentali, è equiparabile a quella del SARS-CoV-1, mostrando anche un decadimento esponenziale del titolo virale nel tempo».
Nelle regioni in cui non è stata emanata una specifica ordinanza le aziende e gli enti condurranno una valutazione sull’effettiva necessità di considerare come potenziali veicoli di trasmissione dell’infezione i DPI usati in ambiti diversi rispetto alle strutture sanitarie, purtroppo senza che la pubblicazione ISPRA-SNPA offra alcun supporto alla decisione, considerando anche quanto è stato definito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di classificazione dei rifiuti[2]:
«il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso».
Evidentemente, come si è anticipato, la caratteristica di pericolo della quale valutare l’eventuale attribuzione al rifiuto è la: “HP 9 – infettivo”. Come precisa la Comunicazione della Commissione [Europea]— Orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti (2018/C 124/01):
«L’allegato III della direttiva quadro sui rifiuti definisce la caratteristica HP 9 «Infettivo» come:
«rifiuto contenente microrganismi vitali o loro tossine che sono cause note, o a ragion veduta ritenuti tali, di malattie nell’uomo o in altri organismi viventi».
La direttiva quadro sui rifiuti spiega inoltre che:
«L’attribuzione della caratteristica di pericolo HP 9 è valutata in base alle norme stabilite nei documenti di riferimento o nella legislazione degli Stati membri».
In Italia la legislazione di riferimento è costituita dal Decreto del Presidente della Repubblica 15 Luglio 2003, N. 254 – Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell’articolo 24 della legge 31 luglio 2002, n. 179.
È decisivo rilevare che l’articolo 15 – Gestione di altri rifiuti speciali – del citato D.P.R. dispone che:
«1. I rifiuti speciali, prodotti al di fuori delle strutture sanitarie, che come rischio risultano analoghi ai rifiuti pericolosi a rischio infettivo, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera d), devono essere gestiti con le stesse modalità dei rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo. Sono esclusi gli assorbenti igienici».
La logica e ineludibile conseguenza di questa prescrizione è l’attribuzione al rifiuto, sempre che si ritenga di considerarlo “a rischio infettivo”, del codice 18 01 03* – rifiuti che devono essere raccolti e smaltiti applicando precauzioni particolari per evitare infezioni.
La pubblicazione ISPRA-SNPA, nel paragrafo dedicato ai “DPI prodotti dalle utenze produttive non assimilate alle utenze domestiche”, afferma che:
«Le utenze produttive, in via generale, non sono assimilabili ai reparti delle strutture sanitarie, anche se non è possibile escludere a priori il rischio di presenza di casi di soggetti positivi non ancora diagnosticati».
Non v’è dubbio che le “utenze produttive”, probabilmente le imprese e gli enti, non siano assimilabili ai reparti delle strutture sanitarie, ma è altrettanto vero che se producono rifiuti che “come rischio risultano analoghi ai rifiuti pericolosi a rischio infettivo” allora la classificazione, compresa l’attribuzione del codice, e le modalità di gestione sono quelle previste dal D.P.R. 254/2003.
La pubblicazione introduce, tra l’altro, una definizione di “utenze del sistema produttivo che non siano assimilate a quelle domestiche” inesistente nella disciplina di settore. Una parte dei rifiuti speciali non pericolosi, più precisamente quelli individuati dallo Stato come potenzialmente assimilabili, può – sulla base di criteri qualitativi e quantitativi definiti dal regolamento del singolo Comune – essere assimilata ai rifiuti urbani. Un’impresa industriale, per esempio, produrrà prevalentemente rifiuti speciali non assimilabili ma anche, negli uffici, rifiuti assimilati agli urbani e perciò sarà al contempo, secondo l’anomala nuova terminologia, sia un’utenza non assimilata a quelle domestiche sia un’utenza assimilata a quelle domestiche.
La nota di ISPRA-SNPA, inoltre, ritiene che: «la classificazione più corretta per i DPI usati e divenuti rifiuti, prodotti da utenze del sistema produttivo che non siano assimilate a quelle domestiche sulla base dei regolamenti comunali di raccolta e gestione dei rifiuti urbani, sia da ricercare nel sub capitolo 1502». Indicazione che, come si è anticipato, è corretta solo se la caratteristica di pericolo potenzialmente attribuibile al rifiuto di DPI non è quella dell’infettività.
Secondo il sistema nazionale per la protezione ambientale, infine, è:
«utile specificare che l’assegnazione del codice EER più opportuno dovrà essere effettuata dal produttore valutando la potenzialità del rischio infettivo associato ai propri rifiuti. Solo ove sia possibile, escludere, con ragionevole certezza, sulla base delle informazioni e delle evidenze disponibili il potenziale rischio infettivo, sarà possibile procedere alla identificazione del rifiuto attraverso il codice EER 15 02 03.
A tal fine alcuni elementi di valutazione finalizzati all’esclusione del potenziale rischio infettivo possono essere rappresentati:
dal monitoraggio dei casi di positività al virus dei lavoratori dell’unità locale dell’impresa negli ultimi 15 giorni;
dall’utilizzo di sistemi di sterilizzazione dei rifiuti;
dalla possibilità di sviluppare, qualora effettivamente applicabili, procedure di quarantena interna dei rifiuti presso il luogo di produzione per un periodo di tempo adeguato da valutare in accordo con l’ISS, al fine di garantire l’effettivo abbattimento della carica virale. Alcuni riferimenti bibliografici sembrano indicare che questa possa essere un’opzione attuabile».
Tralasciando il mancato riferimento alla norma speciale che disciplina la gestione dei rifiuti a rischio infettivo prodotti al di fuori dalle strutture sanitarie, il supporto che la pubblicazione offre al produttore del rifiuto, tenuto ad affrontare il complesso compito di “escludere, con ragionevole certezza, sulla base delle informazioni e delle evidenze disponibili il potenziale rischio infettivo”, è minimo.
L’utilizzo di sistemi di sterilizzazione dei rifiuti in ambiti diversi strutture sanitarie, infatti, si configura come un operazione di trattamento di rifiuti che deve avvenire in impianti specificamente autorizzati.
Anche la possibilità di sviluppare “procedure di quarantena interna dei rifiuti presso il luogo di produzione” sembra essere in aperto e ineliminabile contrasto con le disposizioni del D.P.R. 254/2003.
La norma, infatti, prescrive (con l’articolo 8, comma 3) che:
« a) il deposito temporaneo di rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo deve essere effettuato in condizioni tali da non causare alterazioni che comportino rischi per la salute e può avere una durata massima di cinque giorni dal momento della chiusura del contenitore. Nel rispetto dei requisiti di igiene e sicurezza e sotto la responsabilità del produttore, tale termine è esteso a trenta giorni per quantitativi inferiori a 200 litri».
Considerato che questi limiti non sono stati modificati, a differenza di quelli previsti per il deposito temporaneo dei rifiuti speciali non disciplinati da norme speciali, dalla legge di conversione del decreto “cura Italia”, è senza dubbio opportuno, in un periodo in cui i servizi di gestione dei rifiuti a rischio infettivo sono in difficoltà, intervenire con una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale.
[1] «[…] qualora si verifichino situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell’ambiente, e non si possa altrimenti provvedere, il Presidente della Giunta regionale o il Presidente della provincia ovvero il Sindaco possono emettere, nell’ambito delle rispettive competenze, ordinanze contingibili ed urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, nel rispetto, comunque, delle disposizioni contenute nelle direttive dell’Unione europea, garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell’ambiente»[…].
[2] SENTENZA DELLA CORTE (Decima Sezione) 28 marzo 2019.
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Rifiuti da DPI Covid-19 in ambito non sanitario. ISPRA e SNPA dimenticano la norma speciale.
di Paolo Pipere
Le associazioni imprenditoriali hanno chiesto al Ministero dell’Ambiente di definire criteri uniformi sull’intero territorio nazionale per la gestione dei rifiuti costituiti da mascherine, guanti e indumenti protettivi utilizzati per prevenire la diffusione dell’epidemia da Coronavirus. In particolare, le organizzazioni di categoria hanno proposto di adottare i criteri già definiti con ordinanze contingibili e urgenti, emanate sulla base dell’articolo 191 del decreto legislativo 152 del 2006[1], dei presidenti delle regioni in Lombardia, Veneto e Emilia Romagna.
L’Ordinanza dell’Emilia Romagna, per esempio, dispone:
«che i rifiuti costituiti da Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) utilizzati all’interno di attività economiche-produttive per la tutela da COVID-19, quali mascherine e guanti, siano assimilati ai rifiuti urbani e conferiti al Gestore del servizio nella frazione di rifiuti indifferenziati, nel rispetto delle indicazioni fornite dall’Istituto Superiore della Sanità con nota del 12/03/2020 (prot. AOO-ISS 0008293)».
Altre Regioni, invece, non hanno adottato una specifica ordinanza per fronteggiare le difficoltà connesse alla gestione dei rifiuti costituiti da mascherine, guanti e indumenti protettivi. Tali rifiuti, infatti, potrebbero essere considerati, sulla base delle evidenze scientifiche richiamate nella pubblicazione dell’Istituto Superiore di Sanità “Indicazioni ad interim per la gestione dei rifiuti urbani in relazione alla trasmissione dell’infezione da virus SARS-CoV-2”, come materiali potenzialmente in grado di veicolare l’infezione. La pubblicazione citata, richiamando gli studi scientifici disponibili al 31 marzo, precisa che:
«si ipotizza che il virus SARS-CoV-2 si disattivi, per analogia con altri virus con envelope, in un intervallo temporale che va da pochi minuti a un massimo di 9 giorni, in dipendenza della matrice/materiale, della concentrazione e delle condizioni microclimatiche. Generalmente altri coronavirus (es. virus SARS e MERS) non sopravvivono su carta in assenza di umidità, ma si ritrovano più a lungo su indumenti monouso (se a concentrazione elevata, per 24 ore), rispetto, ad esempio, al cotone. Ciò tenendo conto che il dato si riferisce alla rilevazione analitica del RNA del virus e non al suo isolamento in forma vitale e quindi alla sua infettività.
Dati più recenti relativi al SARS-CoV-2 confermano la capacità di persistenza del virus su plastica e acciaio inossidabile che, in condizioni sperimentali, è equiparabile a quella del SARS-CoV-1, mostrando anche un decadimento esponenziale del titolo virale nel tempo».
Nelle regioni in cui non è stata emanata una specifica ordinanza le aziende e gli enti condurranno una valutazione sull’effettiva necessità di considerare come potenziali veicoli di trasmissione dell’infezione i DPI usati in ambiti diversi rispetto alle strutture sanitarie, purtroppo senza che la pubblicazione ISPRA-SNPA offra alcun supporto alla decisione, considerando anche quanto è stato definito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di classificazione dei rifiuti[2]:
«il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso».
Evidentemente, come si è anticipato, la caratteristica di pericolo della quale valutare l’eventuale attribuzione al rifiuto è la: “HP 9 – infettivo”. Come precisa la Comunicazione della Commissione [Europea]— Orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti (2018/C 124/01):
«L’allegato III della direttiva quadro sui rifiuti definisce la caratteristica HP 9 «Infettivo» come:
«rifiuto contenente microrganismi vitali o loro tossine che sono cause note, o a ragion veduta ritenuti tali, di malattie nell’uomo o in altri organismi viventi».
La direttiva quadro sui rifiuti spiega inoltre che:
«L’attribuzione della caratteristica di pericolo HP 9 è valutata in base alle norme stabilite nei documenti di riferimento o nella legislazione degli Stati membri».
In Italia la legislazione di riferimento è costituita dal Decreto del Presidente della Repubblica 15 Luglio 2003, N. 254 – Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell’articolo 24 della legge 31 luglio 2002, n. 179.
È decisivo rilevare che l’articolo 15 – Gestione di altri rifiuti speciali – del citato D.P.R. dispone che:
«1. I rifiuti speciali, prodotti al di fuori delle strutture sanitarie, che come rischio risultano analoghi ai rifiuti pericolosi a rischio infettivo, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera d), devono essere gestiti con le stesse modalità dei rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo. Sono esclusi gli assorbenti igienici».
La logica e ineludibile conseguenza di questa prescrizione è l’attribuzione al rifiuto, sempre che si ritenga di considerarlo “a rischio infettivo”, del codice 18 01 03* – rifiuti che devono essere raccolti e smaltiti applicando precauzioni particolari per evitare infezioni.
La pubblicazione ISPRA-SNPA, nel paragrafo dedicato ai “DPI prodotti dalle utenze produttive non assimilate alle utenze domestiche”, afferma che:
«Le utenze produttive, in via generale, non sono assimilabili ai reparti delle strutture sanitarie, anche se non è possibile escludere a priori il rischio di presenza di casi di soggetti positivi non ancora diagnosticati».
Non v’è dubbio che le “utenze produttive”, probabilmente le imprese e gli enti, non siano assimilabili ai reparti delle strutture sanitarie, ma è altrettanto vero che se producono rifiuti che “come rischio risultano analoghi ai rifiuti pericolosi a rischio infettivo” allora la classificazione, compresa l’attribuzione del codice, e le modalità di gestione sono quelle previste dal D.P.R. 254/2003.
La pubblicazione introduce, tra l’altro, una definizione di “utenze del sistema produttivo che non siano assimilate a quelle domestiche” inesistente nella disciplina di settore. Una parte dei rifiuti speciali non pericolosi, più precisamente quelli individuati dallo Stato come potenzialmente assimilabili, può – sulla base di criteri qualitativi e quantitativi definiti dal regolamento del singolo Comune – essere assimilata ai rifiuti urbani. Un’impresa industriale, per esempio, produrrà prevalentemente rifiuti speciali non assimilabili ma anche, negli uffici, rifiuti assimilati agli urbani e perciò sarà al contempo, secondo l’anomala nuova terminologia, sia un’utenza non assimilata a quelle domestiche sia un’utenza assimilata a quelle domestiche.
La nota di ISPRA-SNPA, inoltre, ritiene che: «la classificazione più corretta per i DPI usati e divenuti rifiuti, prodotti da utenze del sistema produttivo che non siano assimilate a quelle domestiche sulla base dei regolamenti comunali di raccolta e gestione dei rifiuti urbani, sia da ricercare nel sub capitolo 1502». Indicazione che, come si è anticipato, è corretta solo se la caratteristica di pericolo potenzialmente attribuibile al rifiuto di DPI non è quella dell’infettività.
Secondo il sistema nazionale per la protezione ambientale, infine, è:
«utile specificare che l’assegnazione del codice EER più opportuno dovrà essere effettuata dal produttore valutando la potenzialità del rischio infettivo associato ai propri rifiuti. Solo ove sia possibile, escludere, con ragionevole certezza, sulla base delle informazioni e delle evidenze disponibili il potenziale rischio infettivo, sarà possibile procedere alla identificazione del rifiuto attraverso il codice EER 15 02 03.
A tal fine alcuni elementi di valutazione finalizzati all’esclusione del potenziale rischio infettivo possono essere rappresentati:
Tralasciando il mancato riferimento alla norma speciale che disciplina la gestione dei rifiuti a rischio infettivo prodotti al di fuori dalle strutture sanitarie, il supporto che la pubblicazione offre al produttore del rifiuto, tenuto ad affrontare il complesso compito di “escludere, con ragionevole certezza, sulla base delle informazioni e delle evidenze disponibili il potenziale rischio infettivo”, è minimo.
L’utilizzo di sistemi di sterilizzazione dei rifiuti in ambiti diversi strutture sanitarie, infatti, si configura come un operazione di trattamento di rifiuti che deve avvenire in impianti specificamente autorizzati.
Anche la possibilità di sviluppare “procedure di quarantena interna dei rifiuti presso il luogo di produzione” sembra essere in aperto e ineliminabile contrasto con le disposizioni del D.P.R. 254/2003.
La norma, infatti, prescrive (con l’articolo 8, comma 3) che:
« a) il deposito temporaneo di rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo deve essere effettuato in condizioni tali da non causare alterazioni che comportino rischi per la salute e può avere una durata massima di cinque giorni dal momento della chiusura del contenitore. Nel rispetto dei requisiti di igiene e sicurezza e sotto la responsabilità del produttore, tale termine è esteso a trenta giorni per quantitativi inferiori a 200 litri».
Considerato che questi limiti non sono stati modificati, a differenza di quelli previsti per il deposito temporaneo dei rifiuti speciali non disciplinati da norme speciali, dalla legge di conversione del decreto “cura Italia”, è senza dubbio opportuno, in un periodo in cui i servizi di gestione dei rifiuti a rischio infettivo sono in difficoltà, intervenire con una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale.
[1] «[…] qualora si verifichino situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell’ambiente, e non si possa altrimenti provvedere, il Presidente della Giunta regionale o il Presidente della provincia ovvero il Sindaco possono emettere, nell’ambito delle rispettive competenze, ordinanze contingibili ed urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, nel rispetto, comunque, delle disposizioni contenute nelle direttive dell’Unione europea, garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell’ambiente»[…].
[2] SENTENZA DELLA CORTE (Decima Sezione) 28 marzo 2019.
Piacenza, 20 maggio 2020
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