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Il danno ambientale: un'analisi storica ed una prospettiva per il futuro
di Cristian Rovito
Categoria: Danno ambientale
Percorsi storici: dalla responsabilità aquiliana all’art. 2043 c.c.. Per iniziare ad argomentare sul danno ambientale occorre brevemente accennare alle origini della parola latina damnum, traducibile in: danno, perdita, scapito, svantaggio.[1] La lex Aquilia è stata la prima legge scritta in materia del risarcimento del danno di proprietà del dominus (padrone, proprietario), definita da Ulpiano “plebiscito”, fatto votare da Aquilio nel 286 a.C., tribuno della plebe. Questa norma, sotto certi aspetti innovativa, determinò il superamento di tutte le leggi precedenti comprese la legge contenute nelle XII Tavole. La lex Aquilia è suddivisa in tre capitoli. Il primo (ex capite primo) riguarda il damnum sulla distruzione di res di importanza economica (schiavi, pecudes); il secondo (ex capite secundo) riguarda l’inadempimento da parte dell’adstipulator (garante di un contratto obbligatorio – stipulatio tra lo stipulator e dal promissor); il terzo (ex capite terzo): riguarda il damnum derivante dalla conseguenza di determinate azioni (occidere, frangere, rumpere)[2]. Di fondamentale interesse era poi l’Aestimatio damni ovvero l’operazione attraverso la quale si procedeva a stimare il danno subito dalla res, caratterizzantesi per una disciplina diversa tra i vari capitoli: – ex capite primo: la stima del danno viene effettuata in base alla distruzione totale della res (schiavi e pecudes), quindi il damnum è sull’intero valore della cosa; il damnum è valutato secondo il quantiid fruit. – ex capite terzo: diminuzione del valore economico della res. Il damnum è valutato secondo il quanti ea res erit. Però la stima del danno non viene fatta solo in base alla perdita economica del valore, ma in base al danno che ne risulta per il padrone della perdita. La stima veniva fatta secondo il prezzo comune e al massimo valore della res nell’ultimo anno o negli ultimi 30 giorni. Da questi concetti derivano i principi sulla responsabilità da illecito civile contemplati dal codice civile attualmente vigente. La disciplina fondamentale è regolata dall’art. 2043 c.c., secondo cui: «Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». Tale articolo disciplina quindi il c.d. illecito extracontrattuale, per distinguerlo dal c.d. illecito contrattuale, che più specificamente si configura come illecito da inadempimento di obbligazione. Infatti, nella formulazione dei giuristi si è appunto soliti indicare tale istituto di responsabilità come “responsabilità aquiliana” dal nome del tribuno romano che la promosse. Benché la rubrica della norma sembra limitarne la portata al solo risarcimento del danno, l’introduzione di tale norma ha nel contempo consentito la previsione nell’ordinamento di una clausola generale sulla responsabilità civile da fatto illecito. Come è nell’essenza delle clausole generali, anche siffatta clausola è prodromica ad abbracciare un’ampia fenomenologia e casualistica fattuale, suscettibile di applicazione nel tempo nell’intento di ricomprendere le nuove ipotesi che la realtà materiale continuamente propone. Quello dell’art. 2043 c.c. è un sistema frutto di una tecnica di normazione elastica, in grado di favorire la delineazione del precetto giuridico sulla scorta dell’evoluzione ordinamentale, inscindibilmente connessa alla realtà e del suo continuo divenire. L’essenza delle clausole generali, da un lato, si estrinseca proprio nel fornire una continua linfa vitale ai testi normativi, dall’altro garantisce una capacità previsionale delle fattispecie che ne hanno determinato la nascita. Siamo dinanzi ad una norma generale ed astratta perché si riferisce ad ogni soggetto che compie un atto illecito, oltreché per consentire di comprendere qualunque fattispecie di illecito. Con tale norma è dunque accolto il principio della atipicità dell’illecito, per riferirsi la norma non già a fattispecie predeterminate, ma a tutte le figure di illecito, quale che sia la morfologia sociale nella quale il singolo illecito possa articolarsi. E’ l’affermazione normativa del tradizionale principio etico, prima che giuridico, che impone ad ogni soggetto di non arrecare danni ad altri (neminem laedere), quale essenziale fattore di convivenza civile e di coesione sociale[3]. Occorre osservare che l’impianto normato dall’art. 2043 c.c. è tutto orientato al fatto dannoso per sanzionare la condotta antigiuridica tenuta. Un’evoluzione della cultura giuridica in materia, sollecitata dalle sopravvenute legislazioni, è invece complessivamente protesa alla valutazione dell’evento dannoso nella prospettiva di riparazione del danno ingiusto inferto, secondo una impostazione che tende a privilegiare la tutela della vittima, piuttosto che indulgere alla punizione dell’autore dell’illecito, atteggiandosi la sanzione dell’autore del danno come mezzo di tutela del soggetto danneggiato[4]. E’ l’espressione del generale principio della pluralità dei criteri di imputazione della responsabilità civile, i quali in qualche modo, già emergono da alcune specifiche previsioni del codice civile; cioè quelle in cui affiorano modellazioni di responsabilità ora nel segno dell’aggravamento, ora addirittura di segno oggettivo (artt. 2047 ss. cc.). Partendo da questi brevi cenni sulla responsabilità aquiliana connessa all’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria, è possibile giungere all’attuale concetto di danno ambientale, analizzandolo anch’esso da varie prospettive d’indagine, ripercorrendo un percorso che negli anni è stato di non facile elaborazione e definizione. La leva giuridica su cui poggia il presente lavoro è la concezione giuridica unitaria del bene ambiente, essendo il punto di convergenza della maggioranza della dottrina e della giurisprudenza. L’aggressione all’ambiente, attuata mediante la lesione di uno qualsiasi degli elementi che concorrono alla sua formazione, ha un rilievo autonomo rispetto a quella concernente i suoi aggregati, così come del tutto indipendente è l’area di incidenza del danno cagionato da tale lesione, il quale presenta connotazioni proprie e distinte rispetto all’alterazione provocata dal fatto illecito inerente a ciascuno dei suoi componenti. In effetti, per la Corte di Cassazione, il danno ambientale «costituisce un surplus rispetto al danno alle singole componenti materiali dell’ambiente. Infatti, l’ambiente in senso giuridico, quale bene unitario, ma anche immateriale (…), rappresenta un insieme che, pur comprendendo vari beni o valori, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà, priva di consistenza materiale, ma espressione di un autonomo valore collettivo, specifico oggetto, come tale, di tutela da parte dell’ordinamento, rispetto ad illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con riguardo a siffatto valore e indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o più della dette singole componenti, secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno patrimoniale, si connota tuttavia per una più ampia accezione di danno svincolata da una concezione aritmetico – contabile».[5] Appare chiaro quindi che se il percorso di definizione giuridica di “ambiente” è stato (e continua ad esserlo), particolarmente tortuoso, impervio e tutt’altro che prossimo ad un risultato definitivo e definitorio stricto sensu, non con meno difficoltà si presenta quello orientato a definire che cosa debba intendersi per “danno ambientale”, quali sono i suoi parametri di definizione; come questi parametri devono essere presi in considerazione ed attuati dal giurista o da qualsiasi soggetto su cui grava il dovere costituzionale di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
Il danno ambientale nei lavori parlamentari. La rilettura degli atti parlamentari e dei resoconti stenografici, sia della Camera dei Deputati, sia del Senato della Repubblica, prodromici all’adozione della Legge 8 luglio 1986 n. 349 recante “Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale”, assume particolare interesse per il valore politico, ed a maggior ragione per la connessa sussunzione alla ratio legis, che il legislatore ha iniziato in quegli anni a riconoscere all’ambiente ed alla sua tutela. Il Presidente della I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati in sede redigente, nella relazione all’assemblea per la deliberazione, sottolineava, esprimendosi sull’opportunità di istituire un “nuovo ministero”, e per rispondere ad una precedente obiezione avente ad oggetto la stessa questione, che dinanzi ad «un caso legislativo e molto molto diverso da tutti gli altri in cui si era arrivati alla creazione di nuovi discateri», solo dall’esame delle «specialissime caratteristiche» era possibile comprendere le solide ragioni per superare l’iniziale scetticismo. Si trattava della «tutela di un bene collettivo ed individuale di primaria, essenziale importanza, per la condizione della sopravvivenza umana e per il suo sviluppo, come l’integrità dell’ambiente, che solo un’ardua conquista culturale ha permesso di identificare rinvenendone i più autentici connotati popolari, dopo una prolungata incubazione elitaria»[6]. Prosegue ancora l’on. Labriola asserendo che il bene della integrità dell’ambiente non doveva considerarsi solo «una componente del grado di benessere e di felicità dei consociati», ma «una condizione di sopravvivenza ed anche presupposto per la effettiva uguaglianza degli individui che, rispetto ad esso, sono ben diversamente garantiti». Anche il degrado dell’ambiente, ovvero la lesione di questo bene, viene preso in considerazione dal relatore, «a causa del ritmo di crescita con saggio geometrico altissimo»; evidenziandone l’accostamento alla «catastrofe», l’irreversibilità nei tempi brevi e persino in quelli medi, per parti crescenti. In quegli anni, sulla scia degli effetti prodotti da una certa mentalità ecologista, si prese coscienza degli effetti del potenziale danno ambientale, che già oltrepassavano «largamente i tempi di oggi e di domani», destinati a proseguire aumentando sempre di più e quindi toccando le generazioni future. Sotto il profilo dell’indirizzo politico – legislativo, veniva evidenziato che erano troppe e troppo gravi le ragioni che esigevano di «riempire il vuoto di responsabilità politica generale e di alta amministrazione che caratterizza negativamente l’ordinamento dei pubblici poteri con riguardo alla integrità dell’ambiente». Un ulteriore aspetto che si ritiene opportuno evidenziare e che il relatore Labriola rimarcò con attenzione, riguardava da un lato, l’estrema complessità, culturale, ideale e filosofica del dibattito politico, le divergenze che persistevano, complicate dalla diversità delle angolazioni scientifiche da cui i valori in gioco erano visti; dall’altro il fatto che, con riferimento alle attribuzioni riconosciute all’istituendo Ministero dell’ambiente di cui all’art. 1 della legge, i pubblici poteri si prefiggevano «la cura delle condizioni ambientali che perseguano, contestualmente, gli interessi fondamentali della comunità e la qualità della vita, e cioè la preservazione di quelle caratteristiche ambientali che consentono il godimento dell’ambiente, l’igiene e la salubrità dei luoghi nei quali il soggetto vive ed agisce. Il bilanciamento dei valori di questi due termini non può realizzarsi nel rispetto di questo principio, con il degrado di uno di essi. Compito dei pubblici poteri è di assicurare tale bilanciamento ed il suo contenuto minimo così indicato».[7] Il danno ambientale era inizialmente contenuto nell’art. 16 del DDL 1203 – 1298A. Tale progetto è stato poi modificato dal Senato che, con la formulazione di cui all’art. 18 del DDL 1203 – 1298B, ha dato al nuovo istituto del danno ambientale un più ampio respiro, seppur con connotazioni diverse. I lavori che seguirono nella Commissione, furono caratterizzati da un dibattito parlamentare piuttosto acceso per quanto concerne l’approvazione dell’art. 18. Dai vari gruppi parlamentari (Sinistra indipendente, Partito Comunista Italiano, MSI – Destra Nazionale) arrivarono diversi emendamenti, tutti puntualmente respinti, fino a giungere all’approvazione definitiva[8] del testo uscito dal Senato della Repubblica, che poi diventerà il testo definitivo. Per mera cronaca parlamentare, appare utile ricordare che tra gli altri emendamenti, quello presentato dagli on. li Barbera e Loda (Partito Comunista Italiano) prevedeva l’istituzione del difensore civico per l’ambiente. Organo a cui spettava il compito di segnalare al Ministro per l’ambiente e ai responsabili delle amministrazioni centrali, regionali e locali le azioni od omissioni che comunque avrebbero potuto arrecare danno all’ambiente. Tali segnalazioni inoltre dovevano essere portate a conoscenza del Parlamento, dei Consigli regionali, provinciali e comunali. Essendo stato questo emendamento, insieme agli altri, ut supra si è visto, non approvati dalla Commissione, tale figura non venne istituita. Particolarmente accese furono le critiche dell’on. Tassi (MSI – DN) che riteneva quella dell’art. 18 la «norma vessata per eccellenza», in quanto, sostenendo e ripetendo la necessità a che le norme si mantenessero sempre nell’astrattezza e nella generalità, e vedendo nella norma in discussione una specificità: «quanto più forte è l’elemento specifico, tanto più ci si allontana dalla validità della norma medesima». Inoltre, essendo il principio generale contenuto nell’art. 2043 c.c. la traduzione del brocardo neminem laedere, sostenne il deputato che sarebbe stato meglio operare un richiamo a questo istituto, poiché, «quando si parla di danno all’ambiente, scendendo nel particolare del deterioramento o della distruzione totale o parziale, si riempie di mine l’opera di chi, nella pratica interpretazione ed attuazione delle disposizioni legislative, dovrà provvedere con sentenza».[9] Infine, nella stessa seduta, l’on. Tassi espresse due critiche al disegno di legge. La prima riguardava la potenziale contraddittorietà tra il comma 3 ed il comma 4, laddove si pretendeva di «inventare il diritto alla denuncia», trattandosi a suo dire di un diritto generale di tutti, siano associazioni o privati, in quanto rientrante nel «diritto di espressione del pensiero del cittadino il potersi rivolgere al giudice penale e pretendere una risposta». La seconda, il riconoscimento del diritto alle sole associazioni ambientaliste e non anche ai cittadini, di intervenire nei giudizi.
La nascita del concetto giuridico di “danno ambientale”. L’ammissibilità di una qualunque tutela risarcitoria in caso di lesione all’ambiente collocabile sulla scia tracciata dall’art. 2043 c.c., anteriormente all’entrata in vigore della Legge 349/86 (prima disciplina ad aver introdotto nell’ordinamento giuridico nazionale una definizione di “danno ambientale”), si presentava come l’argomento di un acceso dibattito tanto in giurisprudenza, quanto in dottrina. Operando un’interpretazione in senso restrittivo della norma la cui ratio legis potesse in qualche modo essere ricondotta al diritto all’integrità ed alla salubrità ambientale, veniva meno la qualificazione dell’ambiente nella forma di diritto soggettivo, trattandosi prevalentemente di un mero interesse diffuso. In questo quadro, dinanzi ad un bene insuscettibile di titolarità esclusiva, ma di interesse collettivo, una legittimazione a richiedere una qualunque tutela risarcitoria, discendente da una lesione o compromissione dell’ambiente, veniva assegnata esclusivamente all’ente esponenziale della collettività interessata. A rendere ancor più complesso l’istituto del riconoscimento di una qualche tutela risarcitoria nei confronti delle singole situazioni giuridiche soggettive eventualmente lese sono stati gli orientamenti della Corte dei Conti, la quale, in alcune celebri pronunce, aveva ricondotto il danno ambientale nell’alveo del danno erariale. Il giudice contabile aveva infatti qualificato l’ambiente come il «complesso dei beni di uso e godimento pubblico, individuandoli attraverso la legislazione che li protegge per garantire la conservazione e la fruizione da parte di tutta la collettività»[10]. Con la pronuncia n. 86 del 1980, ha poi ampliato la definizione di «danno erariale», inteso non più soltanto come diminuzione patrimoniale rilevabile dalle scritture contabili, ma come danno pubblico ossia come danno alla collettività, capace di ricomprendere anche il danno ambientale. Da osservare che, potendo il danno pubblico erariale riguardare solo gli amministratori ed i dipendenti pubblici, emergeva la necessità a che si pervenisse ad una ricostruzione unitaria dell’istituto in grado di comportare la sanzionabilità del danno pubblico ambientale da chiunque fosse cagionato, senza operare alcuna distinzione tra pubblico dipendente o privato cittadino. Aperto rimaneva anche il problema dell’addebito della responsabilità per il pregiudizio riportato da un privato in conseguenza della lesione arrecata all’ambiente. Ed in effetti, l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – Civile, con la sentenza n. 1463 del 9.3.1979, ha riconosciuto per la prima volta la possibilità di far valere il diritto alla salute ed all’ambiente, precisando altresì che il diritto alla salute, tutelato dall’art. 32 Cost. è configurabile anche come diritto all’ambiente salubre, riconosciuto sia al singolo che alla comunità ove egli svolge la sua personalità (Cass. civ. 6 ottobre 1979, n. 5172)[11]. Appare chiaro che con questo orientamento, il giudice di legittimità ha posto le basi per l’acquisizione da parte del diritto all’ambiente di quella soggettività giuridica (rectius: situazione giuridica soggettiva) tale per poter ricevere quella legittimazione necessaria alla configurazione di un «diritto soggettivo all’ambiente» da valutarsi alla stregua di un altrettanto fondamentale diritto, quello della proprietà e della salute. Da qui nasce sia la tutela risarcitoria ai danneggiati, sia soprattutto lo strumento per impedire l’esercizio di attività dannose da parte di terzi, attraverso il riconoscimento di azioni inibitorie (Cass. S.U., 6 ottobre 1979, n. 5179).
Il danno ambientale in ambito comunitario. La Direttiva 2004/35/CE, oggi trasfusa nella Parte VI del D. Lgs 152/’06 e ss. mm. e ii., fornisce una definizione di danno ambientale «estremamente analitica»[12]. Definizione che è stata piuttosto criticata dalla dottrina in quanto, sotto il profilo giuridico, una esplicitazione efficace dovrebbe garantire il contemperamento delle esigenze di certezza del diritto con quelle di un’applicazione sufficientemente “flessibile” della norma. Questo perché è fondamentale assicurare l’efficacia della stessa in relazione al bene protetto anche nelle situazioni meno evidenti, ma egualmente meritevoli di tutela in base alla ratio definita dal legislatore. L’eccessivo tecnicismo con cui la normativa comunitaria irrompe sul panorama giuridico nazionale è oggetto di pregiudizio nelle glosse degli studiosi del diritto, poiché si viene a determinare un’esasperazione della tendenza a definire pedestremente anche i concetti di contenuto più ampio e generale, così venendosi a creare una segmentazione ed un irrigidimento eccessivo di situazioni giuridiche che, a contrariis, per loro natura, non possono essere cristallizzate in un sistema a compartimenti stagni. Un sistema che si viene a creare ogniqualvolta, e accade spesso in ambito europeo, si ricorre ad una tecnica normativa esageratamente zavorrata da una elevata presenza di definizioni e di rimandi ad altre norme di pari contenuto definitorio. La direttiva de qua rappresenta, tra gli altri, un esempio di “appesantimento giuridico – normativo” perché ha ampliato la divergenza tra l’elaborazione di “danno ambientale” nazionale e quella comunitaria[13]. Il «danno alle specie e agli habitat naturali protetti, vale a dire qualsiasi danno che produca significativi effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di tali specie e habitat. L’entità di tali effetti è da valutare in riferimento alle condizioni originarie, tenendo conto dei criteri enunciati nell’allegato I» è incluso nel “danno ambientale” di cui al comma 1 dell’art. 1 della direttiva, unitamente al «danno alle acque, vale a dire qualsiasi danno che incida in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo e/o sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE, ad eccezione degli effetti negativi cui si applica l’articolo 4, paragrafo 7 di tale direttiva». Anche il «danno al terreno, vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana a seguito dell’introduzione diretta o indiretta nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo» costituisce l’ulteriore tassello applicativo della norma in itinere. Appare chiaro che dalla definizione si possa facilmente constatare che l’evento di danno o di pericolo presunto sia riferito non all’ambiente ed alle risorse naturali, ma piuttosto alla tutela della salute umana. La definizione di danno al terreno si contraddirebbe rispetto all’impianto generale della direttiva. Infatti, se la finalità dichiarata è stata quella di istituire una disciplina comune per la prevenzione e riparazione del danno ambientale a costi ragionevoli per la collettività, nascerebbe spontaneo il quesito per il quale il danno da contaminazione del terreno (testualmente: «danno al terreno, vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana») sarebbe collegato ad una risarcibilità condizionata all’esistenza di un pregiudizio per la salute umana. Nella ratio legis della direttiva, indipendentemente dalla lesione causata ad altre componenti ambientali (flora, fauna, fruibilità del sito, etc.) si potrà parlare di “danno al terreno” interamente rimediato nel momento in cui sia stato eliminato il rischio di effetti nocivi per la salute umana; pertanto, la discrasia è evidente al punto che la contaminazione del terreno risarcibile ai sensi della direttiva ha poco a che fare con il danno ambientale stricto sensu, se non forse nella più limitata concezione di “ambiente salubre” quale presupposto per garantire la tutela della salute umana. Il danno ambientale concepito a livello comunitario dalla direttiva de qua è senza dubbio comprensivo di quello arrecato alle specie ed agli habitat protetti, del danno ecologico, chimico e quantitativo arrecato alle acque nonché del danno da contaminazione del terreno che rechi pregiudizio alla salute umana. Si constata comunque una distanza tra le definizioni della direttiva e la generalissima norma di cui all’art. 18 della legge 349/86. Norma oggi abrogata e trasfusa, quanto alla materia, nella parte VI del D. Lgs 152/’06 e ss. mm. e ii., che pur non avendo definito o non definendo l’ambiente, individua un forma di danno ambientale inteso come compromissione dell’ambiente ovvero alterazione, deterioramento o distruzione, cagionata da fatti commissivi od omissivi, dolosi o colposi, violatori di leggi di protezione e di tutela e dei provvedimenti adottati in base ad esse.[14] Rispetto al passato quindi, la concezione di danno introdotta dalla normativa europea è di «tipo materialistico, se non addirittura ingegneristico»[15]. L’elemento caratterizzante della direttiva è un danno consistente nella «alterazione fisico – chimica» di una determinata risorsa naturale, misurabile in termini di effetti negativi sullo stato della stessa. Per ciò che concerne il terreno, l’effetto negativo deve essere parametrato sui rischi per la salute umana. Non è un qualunque deterioramento delle risorse in sé o dei suoi usi collettivi ad essere al centro della disciplina (quali, ad esempio, la fruizione da parte della collettività, la salubrità dell’ambiente, la vocazione turistica, etc., essenzialmente ciò che Maddalena indica con «utilità ambientali»[16]), ma una modifica negativa determinata e misurabile di quei servizi collettivi che l’ambiente può rendere. I criteri di misurazione sono sussunti in indicazioni di carattere prettamente tecnico di cui all’allegato I, in base al quale «gli effetti negativi significativi rispetto alle condizioni originarie dovrebbero essere determinati con dati misurabili». La citata concezione ingegneristica del danno, ed in primis l’effetto negativo misurabile, si accompagna ad un logico corollario identificabile con la frammentarietà che si riscontra in ipotesi distinte di manifestazione, nelle quali è ovvia l’esistenza di presupposti variabili in relazione alla componente ambientale interessate: acque e terreno, specie ed habitat. La direttiva 2004/35/CE, pur presentando delle sfaccettature giuridiche poco sistematiche, è tuttavia chiara nel porre come obiettivi dell’azione comunitaria la riparazione, la prevenzione del danno ambientale. Obiettivi raggiungibili con l’applicazione del moderno principio «chi inquina paga»[17].
Il danno ambientale nel diritto nazionale tra passato e presente. Così come è avvenuto con la Direttiva 2004/35/CE, anche con la legge 8 luglio 1986, n. 349, è stata fornita una definizione giuridica di “ambiente”. E se la protezione delle risorse naturali può dirsi “prassi” di molti ordinamenti giuridici contemporanei, non sempre scontato appare che le risorse naturali vengano considerate come beni giuridici autonomi, come tali oggetto di tutela giuridica in sé e per sé, indipendentemente dal rapporto con i beni tradizionalmente tutelati dall’ordinamento, come, ad esempio, salute e proprietà. A tale esigenza di sistema sembra aver tuttavia risposto la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente e sul danno ambientale del 1986, la quale è stata in grado di assegnare all’ambiente un certo grado di autonomia e sistematicità, configurandolo come bene giuridico autonomo. Tale assegnazione, direttamente connessa alla «tutela in sé e per sé», è avvenuta attraverso gli istituti della responsabilità civile per danno ambientale e dell’azione giurisdizionale amministrativa per l’annullamento dei provvedimento lesivi dell’ambiente[18]. In materia di danno ambientale, la fondamentale disciplina in materia di danno ambientale fino all’entrata in vigore del D. Lgs 152/’06 è stata quella introdotta dall’art. 18 della legge 349/1986. Il primo comma prevedeva che: «qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base alla legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato». Proprio a causa dell’assenza di una definizione giuridica dell’ambiente, non poche sono state le difficoltà incontrate sotto l’aspetto applicativo da tale assunto, presentandosi sempre ardua l’azione interpretativa sulla scorta della quale riuscire a connettere l’azione di risarcimento in caso di danneggiamento. Gli orientamenti giurisprudenziali hanno in un certo qual modo riempito il buco nero creatosi, ora configurando l’ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della società (Corte Cost. Sentenza 22 maggio 1987 n. 210), ora ritenendolo un bene immateriale unitario oltreché un bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme. Non meno importante, creando ancora una «tipizzazione del danno ambientale», limitandone il risarcimento alle sole ipotesi in cui la lesione all’ambiente sia stata inferta in violazione di leggi o di provvedimenti adottati in base alla legge (Cass. civ. sez. III, sentenza 9 aprile 1992, n. 4362; Cass. civ., sez. III, sentenza 3 febbraio 1998, n. 1087). Con l’abrogato art. 18 era stato previsto un sistema di responsabilità per colpa, dovendosi intendere cioè una responsabilità civile per danno ambientale subordinata alla prova della colpa o del dolo dell’autore dell’evento dannoso da parte del danneggiato, nonché anche alla condizione che la condotta lesiva dell’ambiente fosse stata posta in essere contra legem, ossia in violazione delle vigenti disposizioni di legge o provvedimenti adottati in base alla legge[19]. La dimostrazione del nesso causale rappresentava altresì la conditio sine qua non ai fini del risarcimento, dovendosi trattare segnatamente della relazione intercorrente tra l’evento di danno e l’azione del soggetto ritenuto responsabile. Diversi erano di conseguenza i problemi che si riscontravano nella praticità dei fatti, anche perché è tuttora indubbia la particolarità con cui i fenomeni ambientali si manifestano o vengono determinati. Lo Stato e gli altri enti territoriali erano i soggetti ai quali era riconosciuto il diritto/dovere dell’incipit per l’azione risarcitoria, in merito alla quale la giurisprudenza negli anni ne ha ammesso la titolarità anche alle associazioni ambientaliste riconosciute. Ciò posto, la quantificazione del danno faceva poi emergere altri problemi di natura più prettamente tecnico – estimativa mancando il bene – ambiente di un parametro economico – contabile cui fare riferimento. Se in un quadro di “politica general – preventiva” i criteri di quantificazione dovevano consentire di raggiungere la formulazione di un incentivo adeguato per il danneggiante a non tenere più nel futuro determinate condotte lesive per l’ambiente, l’art. 18 assegnò al giudice il compito di determinare ipso iure un valore ambientale, precisando che qualora non fosse possibile una precisa quantificazione, egli doveva procedere sulla base di tre criteri alla quantificazione in via equitativa del danno ambientale. In primis doveva tener presente la gravità della colpa individuale; in secundis il costo necessario per il ripristino ed in tertiis il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali. A ciò si aggiungeva comunque la decretazione da parte del giudice a che, qualora possibile, si procedesse con priorità sul risarcimento monetario al ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile. L’abrogazione dell’art. 18 ha comportato il trasferimento (unitamente ad una completa rivisitazione) della materia del danno ambientale alla Parte VI del D. Lgs 152/’06, il quale ha, tra l’altro, dato attuazione alla Direttiva 2004/35/CE. Occorre osservare tuttavia che solo il comma 5 dell’art. 18 è rimasto tuttora in vigore e riguarda la “facoltà di intervento nei giudizi per danno ambientale e ricorso in sede giurisdizionale amministrativa delle associazioni ambientaliste”. Ai sensi dell’art. 300 del D. Lgs 152/’06 per danno ambientale deve intendersi «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima». Concorre poi l’art. 311, comma 2, non molto dissimile da quello del previgente art. 18 L. 439/’86, il quale recita: «Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato». Tra le due norme, per Cingano[20]esisterebbero delle divergenze, per risolvere le quali bisognerebbe o considerarle come due sotto – insiemi distinti, regolati da norme separate, oppure ricondurle ad un unico concetto di danno. Dottrina maggioritaria[21] opta per la seconda direttrice in quanto tale opzione è maggiormente conciliabile con una nozione di ambiente inteso in senso unitario, non come mera somma delle sue varie componenti, ma come valore che deve essere autonomamente tutelato, in quanto «permette di apprestare una tutela piena dell’ambiente». Quest’approccio analitico è verosimilmente l’unico che dimostri una forte compatibilità con il carattere costituzionale dell’ambiente (in precedenza è stato ampiamente discusso), ragione per cui limitare l’individuazione del danno ambientale ad una definizione frammentata ed incompleta non potrebbe che compromettere l’obiettivo di preservare le risorse naturali, in conformità ai principi generali presi in considerazione. L’ambiente «deve essere tutelato come bene in sé considerato: anche un illecito che incide su beni diversi dell’ambiente, ma che determini conseguenze negative per esso legittima l’intervento statale».[22] Si possono infine individuare due filoni di indagine strettamente connessi alla definizione di danno ambientale: la prima riguarda la classificazione di “danno ambientale come danno – conseguenza (danno provocato) e non come danno – evento (danno patito)”; la seconda la qualificazione della natura del danno come non patrimoniale. Per il primo il danno all’ambiente si identifica con l’insieme degli effetti lesivi ad esso apportati. In questo caso la liquidazione del danno ambientale, anche se effettuato in via equitativa, necessità sempre dell’accertamento di una compromissione concreta all’ambiente. Il risarcimento viene riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il danno ambientale, non essendo sufficiente la sola violazione formale in materia di inquinamento. Il concetto di misurabilità e di significatività assumono particolare rilievo nella definizione di danno perché evitano di considerare l’illecito sotto il mero aspetto formale e di sostenere che la responsabilità possa derivare dalla semplice violazione di norme protettive dell’ambiente. Per il secondo, invece, il danno – conseguenza arrecato all’ambiente non avrebbe natura patrimoniale o più semplicemente, avrebbe, secondo la Corte Costituzionale, una rilevanza patrimoniale indiretta nel senso che la tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una economicità che eviti sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di scambio del bene. Una serie di funzioni permetterebbe una misurazione economica dell’ambiente, con i relativi costi, comprensivi della gestione del bene, essendo il massimo godimento e la maggiore fruizione da parte della collettività i principali obiettivi della “politica gestionale”. Per tale motivo, l’impatto ambientale potrebbe essere ricondotto in termini monetari, non tralasciando di osservare che negli anni ’70 la Corte dei Conti sosteneva per l’appunto la patrimonialità del danno all’ambiente inquadrandola nel danno pubblico erariale. Non potendo prescindere dalla concezione unitaria del bene – ambiente, non può tuttavia non riconoscersi che su tale scia interpretativa, una sua lesione produca un danno non patrimoniale, peraltro ben distinto dal danno patrimoniale derivante dalla lesione dei beni privati e pubblici che lo compongono (Corte di Cassazione, 17 aprile 2008, n. 10118, in Giur. It., 2008, 12, 2708). Il «risarcimento dovrà comprendere non soltanto il pregiudizio nettamente patrimoniale arrecato a beni pubblici o privati, ma anche quello non patrimoniale rappresentato dal vulnus all’ambiente stesso quale bene unitario di natura pubblicistica». Affermando l’unitarietà del danno ambientale anche come danno non patrimoniale, e quindi il suo inquadramento nell’ambito dell’art. 2059 c.c., la Corte di Cassazione ha sentenziato «che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettibile di suddivisione in categorie variamente etichettate, che hanno valore meramente descrittivo, alla stregua dei parametri per la quantificazione del danno all’ambiente». Ne consegue che per il giudice di legittimità, il danno non patrimoniale è risarcibile sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., a condizione che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tolleranza e che il danno non sia futile, che non consista cioè in meri disagi o fastidi o nella lesione di diritti del tutto immaginari.
[1] Damnum,i,n. – danno, perdita, scapito, svantaggio: damna atque dedecora, danni e vergogne; damnum infectum, danno eventuale; damunm facere o contrahere o pati o accipiere o ferre, patire, soffrire un danno; damnum dare, recare danno; lucra damnaque, i profitti e le perdite. Castiglioni, S. Marioti, Vocabolario della lingua latina, Torino, 2013.
[2] Il primo capitolo fa riferimento al damnum derivante dalla perdita totale ed irreversibile delle res materiali come gli schiavi e i pecudes. Infatti, gli schiavi sono uguali agli animali che possono essere raggruppati in gregge (Gregatim habetur) o in pascolo (sono esclusi gli animali feroci e i cani). La pena viene fissata nel risarcimento del danno fissato nel massimo valore che aveva la res nell’ultimo anno. Il secondo capitolo fa riferimento alla figura dell’adstipulator, cioè quell’intermediario di nomina ufficiale, abilitato a richiedere la summa aestimatio al “nexus” (debitore). Questo capitolo disciplina il caso in cui l’adstipulator venga a meno agli obblighi assunti dall’assunzione dell’incarico, come, ad esempio, il caso in cui l’adstipulator vada a riscuotere la summa, ma la perde o scappa con la summa riscossa. Il terzo capitolo fa riferimento al damnum derivante dalla conseguenze di azioni qualificate previste come conseguenza di un comportamento. Si fa riferimento inoltre alle res immateriali come le opere dell’ingegno e le opere letterarie, che sono state distrutte ma possono essere duplicate attraverso le copie. Le azioni previste sono: occidere; urere; rumpere; frangere. Il risarcimento sarà fissato nel massimo valore della cosa negli ultimi 30 giorni.
[3] F. Bocchini, Struttura del fatto illecito, in Insegnamenti di diritto civile, Università Telematica Pegaso, 2013.
[5] Corte Cass. n. 1087/1998; Corte Cost. n. 641/1987 e il parere del Con. St. n. 426/2001, oltre a Corte Cass. n. 5650/1998; Corte Cass. n. 9211/1995 e Corte Cass. n. 436271992; cfr. Tribunale di Napoli civile, sezione VIII, sentenza 3 novembre 2004, n. 11235.
[6] Cfr. la “relazione all’assemblea per la deliberazione a norma dell’articolo 96 del regolamento” del Presidente della I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati su www.parlamento.it.
[8] Il disegno di legge 1203 – 1298B recante “Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale” venne votato a scrutinio segreto: (Presenti: 24; Votanti: 15; Astenuti: 9; Maggioranza: 8; Voti favorevoli: 13; Voti contrari: 2).
[9] Resoconto stenografico della seduta del 26. Giugno 1986 della Commissione Affari Costituzionali, su www.camera.it.
[10] P. Maddalena, Responsabilità amministrativa, danno pubblico e tutela dell’ambiente, in Cons. Stato, 1982, p. 13 e F. Giampietro, Responsabilità civile per danno all’ambiente: iniziative internazionali ed esperienza italiana in Foro it., 1986, p. 494.
[11] Per il giudice di legittimità: «L’art. 32 Cost., oltre che ascrivere alla collettività generale la tutela promozionale della salute dell’uomo, configura il relativo diritto come diritto fondamentale dell’individuo e lo protegge in via primaria, incondizionata e assoluta come modo d’essere della persona umana. Il collegamento dell’art. 32 con l’art. 2 Cost. attribuisce al diritto alla salute un contenuto di socialità e sicurezza, tale che esso si presenta non solo come diritto alla vita e all’incolumità fisica, ma come vero e proprio diritto all’ambiente salubre che neppure la pubblica amministrazione può sacrificare o comprimere, anche se agisca a tutela specifica della salute pubblica. Da tale configurazione deriva che il diritto alla salute nel suo duplice aspetto è tutelabile giurisdizionalmente davanti al giudice ordinario anche contro la pubblica amministrazione le cui attività lesive devono considerarsi poste in essere in difetto di poteri».
[12] L. Prati, Il danno ambientale e la bonifica dei siti inquinati, Milano, 2008.
[13] Critica la direttiva anche F. Giampietro, in Prevenzione e riparazione del danno ambientale: la nuova direttiva 35/2004/CE, in Ambiente, 2004, 10.
[14] L’art. 300 (danno ambientale): – E’ danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima. – Ai sensi della direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato: a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, che recepisce le direttive 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE della Commissione del 6 marzo 1991 ed attua le convenzioni di Parigi del 18 ottobre 1950 e di Berna del 19 settembre 1979, e di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, recante regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonchè della flora e della fauna selvatiche, nonchè alle aree naturali protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394, e successive norme di attuazione; b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE, ad eccezione degli effetti negativi cui si applica l’articolo 4, paragrafo 7, ditale direttiva; c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali; d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell’introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente.
[16] Cfr. P. Maddalena, in Ambiente, bene comune, in Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Torino, 2013.
[17] Nell’analisi che verrà svolta di tale principio, si prenderà come riferimento da un lato la visione per la quale «l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile» e dall’altro «in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale».
[18] S. Maglia, Diritto all’ambientale alla luce del T.U. ambientale e delle novità 2011, Milano, 2011.
[20] V. Cingano, Bonifica e responsabilità per danno all’ambiente nel diritto amministrativo, Padova, 2013.
[21] Cfr. B. Pozzo, Danno ambientale ed imputazione della responsabilità. Esperienze giuridiche a confronto, Milano, 1996, 1.; F- Giampietro, La nozione di ambiente e di illecito ambientale: la quantificazione del danno, in Commento al Testo Unico Ambientale, a cura di F. Giampietro, Roma, 2006, p. 243; A. ROBUSTELLA, La responsabilità per danno all’ambiente tra finanziaria e testo unico ambientale, in Urb. e App., 2006, p. 785; A. Tomassetti, Il danno ambientale, in Resp. Civ. 2007, 109; L .Villani, Responsabilità, danno e assicurazione, tra codice dell’ambiente e dir. 2004/35/CE, in Resp. Civ., 2007, p- 258.
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Il danno ambientale: un'analisi storica ed una prospettiva per il futuro
di Cristian Rovito
Percorsi storici: dalla responsabilità aquiliana all’art. 2043 c.c..
Per iniziare ad argomentare sul danno ambientale occorre brevemente accennare alle origini della parola latina damnum, traducibile in: danno, perdita, scapito, svantaggio.[1]
La lex Aquilia è stata la prima legge scritta in materia del risarcimento del danno di proprietà del dominus (padrone, proprietario), definita da Ulpiano “plebiscito”, fatto votare da Aquilio nel 286 a.C., tribuno della plebe. Questa norma, sotto certi aspetti innovativa, determinò il superamento di tutte le leggi precedenti comprese la legge contenute nelle XII Tavole.
La lex Aquilia è suddivisa in tre capitoli. Il primo (ex capite primo) riguarda il damnum sulla distruzione di res di importanza economica (schiavi, pecudes); il secondo (ex capite secundo) riguarda l’inadempimento da parte dell’adstipulator (garante di un contratto obbligatorio – stipulatio tra lo stipulator e dal promissor); il terzo (ex capite terzo): riguarda il damnum derivante dalla conseguenza di determinate azioni (occidere, frangere, rumpere)[2]. Di fondamentale interesse era poi l’Aestimatio damni ovvero l’operazione attraverso la quale si procedeva a stimare il danno subito dalla res, caratterizzantesi per una disciplina diversa tra i vari capitoli:
– ex capite primo: la stima del danno viene effettuata in base alla distruzione totale della res (schiavi e pecudes), quindi il damnum è sull’intero valore della cosa; il damnum è valutato secondo il quanti id fruit.
– ex capite terzo: diminuzione del valore economico della res. Il damnum è valutato secondo il quanti ea res erit.
Però la stima del danno non viene fatta solo in base alla perdita economica del valore, ma in base al danno che ne risulta per il padrone della perdita. La stima veniva fatta secondo il prezzo comune e al massimo valore della res nell’ultimo anno o negli ultimi 30 giorni.
Da questi concetti derivano i principi sulla responsabilità da illecito civile contemplati dal codice civile attualmente vigente. La disciplina fondamentale è regolata dall’art. 2043 c.c., secondo cui: «Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». Tale articolo disciplina quindi il c.d. illecito extracontrattuale, per distinguerlo dal c.d. illecito contrattuale, che più specificamente si configura come illecito da inadempimento di obbligazione. Infatti, nella formulazione dei giuristi si è appunto soliti indicare tale istituto di responsabilità come “responsabilità aquiliana” dal nome del tribuno romano che la promosse. Benché la rubrica della norma sembra limitarne la portata al solo risarcimento del danno, l’introduzione di tale norma ha nel contempo consentito la previsione nell’ordinamento di una clausola generale sulla responsabilità civile da fatto illecito. Come è nell’essenza delle clausole generali, anche siffatta clausola è prodromica ad abbracciare un’ampia fenomenologia e casualistica
fattuale, suscettibile di applicazione nel tempo nell’intento di ricomprendere le nuove ipotesi che la realtà materiale continuamente propone.
Quello dell’art. 2043 c.c. è un sistema frutto di una tecnica di normazione elastica, in grado di favorire la delineazione del precetto giuridico sulla scorta dell’evoluzione ordinamentale, inscindibilmente connessa alla realtà e del suo continuo divenire. L’essenza delle clausole generali, da un lato, si estrinseca proprio nel fornire una continua linfa vitale ai testi normativi, dall’altro garantisce una capacità previsionale delle fattispecie che ne hanno determinato la nascita. Siamo dinanzi ad una norma generale ed astratta perché si riferisce ad ogni soggetto che compie un atto illecito, oltreché per consentire di comprendere qualunque fattispecie di illecito. Con tale norma è dunque accolto il principio della atipicità dell’illecito, per riferirsi la norma non già a fattispecie predeterminate, ma a tutte le figure di illecito, quale che sia la morfologia sociale nella quale il singolo illecito possa articolarsi. E’ l’affermazione normativa del tradizionale principio etico, prima che giuridico, che impone ad ogni soggetto di non arrecare danni ad altri (neminem laedere), quale essenziale fattore di convivenza civile e di coesione sociale[3].
Occorre osservare che l’impianto normato dall’art. 2043 c.c. è tutto orientato al fatto dannoso per sanzionare la condotta antigiuridica tenuta. Un’evoluzione della cultura giuridica in materia, sollecitata dalle sopravvenute legislazioni, è invece complessivamente protesa alla valutazione dell’evento dannoso nella prospettiva di riparazione del danno ingiusto inferto, secondo una impostazione che tende a privilegiare la tutela della vittima, piuttosto che indulgere alla punizione dell’autore dell’illecito, atteggiandosi la sanzione dell’autore del danno come mezzo di tutela del soggetto danneggiato[4]. E’ l’espressione del generale principio della pluralità dei criteri di imputazione della responsabilità civile, i quali in qualche modo, già emergono da alcune specifiche previsioni del codice civile; cioè quelle in cui affiorano modellazioni di responsabilità ora nel segno dell’aggravamento, ora addirittura di segno oggettivo (artt. 2047 ss. cc.).
Partendo da questi brevi cenni sulla responsabilità aquiliana connessa all’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria, è possibile giungere all’attuale concetto di danno ambientale, analizzandolo anch’esso da varie prospettive d’indagine, ripercorrendo un percorso che negli anni è stato di non facile elaborazione e definizione.
La leva giuridica su cui poggia il presente lavoro è la concezione giuridica unitaria del bene ambiente, essendo il punto di convergenza della maggioranza della dottrina e della giurisprudenza.
L’aggressione all’ambiente, attuata mediante la lesione di uno qualsiasi degli elementi che concorrono alla sua formazione, ha un rilievo autonomo rispetto a quella concernente i suoi aggregati, così come del tutto indipendente è l’area di incidenza del danno cagionato da tale lesione, il quale presenta connotazioni proprie e distinte rispetto all’alterazione provocata dal fatto illecito inerente a ciascuno dei suoi componenti.
In effetti, per la Corte di Cassazione, il danno ambientale «costituisce un surplus rispetto al danno alle singole componenti materiali dell’ambiente. Infatti, l’ambiente in senso giuridico, quale bene unitario, ma anche immateriale (…), rappresenta un insieme che, pur comprendendo vari beni o valori, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà, priva di consistenza materiale, ma espressione di un autonomo valore collettivo, specifico oggetto, come tale, di tutela da parte dell’ordinamento, rispetto ad illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con riguardo a siffatto valore e indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o più della dette singole componenti, secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno patrimoniale, si connota tuttavia per una più ampia accezione di danno svincolata da una concezione aritmetico – contabile».[5]
Appare chiaro quindi che se il percorso di definizione giuridica di “ambiente” è stato (e continua ad esserlo), particolarmente tortuoso, impervio e tutt’altro che prossimo ad un risultato definitivo e definitorio stricto sensu, non con meno difficoltà si presenta quello orientato a definire che cosa debba intendersi per “danno ambientale”, quali sono i suoi parametri di definizione; come questi parametri devono essere presi in considerazione ed attuati dal giurista o da qualsiasi soggetto su cui grava il dovere costituzionale di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
Il danno ambientale nei lavori parlamentari.
La rilettura degli atti parlamentari e dei resoconti stenografici, sia della Camera dei Deputati, sia del Senato della Repubblica, prodromici all’adozione della Legge 8 luglio 1986 n. 349 recante “Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale”, assume particolare interesse per il valore politico, ed a maggior ragione per la connessa sussunzione alla ratio legis, che il legislatore ha iniziato in quegli anni a riconoscere all’ambiente ed alla sua tutela.
Il Presidente della I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati in sede redigente, nella relazione all’assemblea per la deliberazione, sottolineava, esprimendosi sull’opportunità di istituire un “nuovo ministero”, e per rispondere ad una precedente obiezione avente ad oggetto la stessa questione, che dinanzi ad «un caso legislativo e molto molto diverso da tutti gli altri in cui si era arrivati alla creazione di nuovi discateri», solo dall’esame delle «specialissime caratteristiche» era possibile comprendere le solide ragioni per superare l’iniziale scetticismo. Si trattava della «tutela di un bene collettivo ed individuale di primaria, essenziale importanza, per la condizione della sopravvivenza umana e per il suo sviluppo, come l’integrità dell’ambiente, che solo un’ardua conquista culturale ha permesso di identificare rinvenendone i più autentici connotati popolari, dopo una prolungata incubazione elitaria»[6].
Prosegue ancora l’on. Labriola asserendo che il bene della integrità dell’ambiente non doveva considerarsi solo «una componente del grado di benessere e di felicità dei consociati», ma «una condizione di sopravvivenza ed anche presupposto per la effettiva uguaglianza degli individui che, rispetto ad esso, sono ben diversamente garantiti». Anche il degrado dell’ambiente, ovvero la lesione di questo bene, viene preso in considerazione dal relatore, «a causa del ritmo di crescita con saggio geometrico altissimo»; evidenziandone l’accostamento alla «catastrofe», l’irreversibilità nei tempi brevi e persino in quelli medi, per parti crescenti.
In quegli anni, sulla scia degli effetti prodotti da una certa mentalità ecologista, si prese coscienza degli effetti del potenziale danno ambientale, che già oltrepassavano «largamente i tempi di oggi e di domani», destinati a proseguire aumentando sempre di più e quindi toccando le generazioni future. Sotto il profilo dell’indirizzo politico – legislativo, veniva evidenziato che erano troppe e troppo gravi le ragioni che esigevano di «riempire il vuoto di responsabilità politica generale e di alta amministrazione che caratterizza negativamente l’ordinamento dei pubblici poteri con riguardo alla integrità dell’ambiente».
Un ulteriore aspetto che si ritiene opportuno evidenziare e che il relatore Labriola rimarcò con attenzione, riguardava da un lato, l’estrema complessità, culturale, ideale e filosofica del dibattito politico, le divergenze che persistevano, complicate dalla diversità delle angolazioni scientifiche da cui i valori in gioco erano visti; dall’altro il fatto che, con riferimento alle attribuzioni riconosciute all’istituendo Ministero dell’ambiente di cui all’art. 1 della legge, i pubblici poteri si prefiggevano «la cura delle condizioni ambientali che perseguano, contestualmente, gli interessi fondamentali della comunità e la qualità della vita, e cioè la preservazione di quelle caratteristiche ambientali che consentono il godimento dell’ambiente, l’igiene e la salubrità dei luoghi nei quali il soggetto vive ed agisce. Il bilanciamento dei valori di questi due termini non può realizzarsi nel rispetto di questo principio, con il degrado di uno di essi. Compito dei pubblici poteri è di assicurare tale bilanciamento ed il suo contenuto minimo così indicato».[7]
Il danno ambientale era inizialmente contenuto nell’art. 16 del DDL 1203 – 1298A. Tale progetto è stato poi modificato dal Senato che, con la formulazione di cui all’art. 18 del DDL 1203 – 1298B, ha dato al nuovo istituto del danno ambientale un più ampio respiro, seppur con connotazioni diverse.
I lavori che seguirono nella Commissione, furono caratterizzati da un dibattito parlamentare piuttosto acceso per quanto concerne l’approvazione dell’art. 18. Dai vari gruppi parlamentari (Sinistra indipendente, Partito Comunista Italiano, MSI – Destra Nazionale) arrivarono diversi emendamenti, tutti puntualmente respinti, fino a giungere all’approvazione definitiva[8] del testo uscito dal Senato della Repubblica, che poi diventerà il testo definitivo. Per mera cronaca parlamentare, appare utile ricordare che tra gli altri emendamenti, quello presentato dagli on. li Barbera e Loda (Partito Comunista Italiano) prevedeva l’istituzione del difensore civico per l’ambiente. Organo a cui spettava il compito di segnalare al Ministro per l’ambiente e ai responsabili delle amministrazioni centrali, regionali e locali le azioni od omissioni che comunque avrebbero potuto arrecare danno all’ambiente. Tali segnalazioni inoltre dovevano essere portate a conoscenza del Parlamento, dei Consigli regionali, provinciali e comunali. Essendo stato questo emendamento, insieme agli altri, ut supra si è visto, non approvati dalla Commissione, tale figura non venne istituita.
Particolarmente accese furono le critiche dell’on. Tassi (MSI – DN) che riteneva quella dell’art. 18 la «norma vessata per eccellenza», in quanto, sostenendo e ripetendo la necessità a che le norme si mantenessero sempre nell’astrattezza e nella generalità, e vedendo nella norma in discussione una specificità: «quanto più forte è l’elemento specifico, tanto più ci si allontana dalla validità della norma medesima». Inoltre, essendo il principio generale contenuto nell’art. 2043 c.c. la traduzione del brocardo neminem laedere, sostenne il deputato che sarebbe stato meglio operare un richiamo a questo istituto, poiché, «quando si parla di danno all’ambiente, scendendo nel particolare del deterioramento o della distruzione totale o parziale, si riempie di mine l’opera di chi, nella pratica interpretazione ed attuazione delle disposizioni legislative, dovrà provvedere con sentenza».[9]
Infine, nella stessa seduta, l’on. Tassi espresse due critiche al disegno di legge.
La prima riguardava la potenziale contraddittorietà tra il comma 3 ed il comma 4, laddove si pretendeva di «inventare il diritto alla denuncia», trattandosi a suo dire di un diritto generale di tutti, siano associazioni o privati, in quanto rientrante nel «diritto di espressione del pensiero del cittadino il potersi rivolgere al giudice penale e pretendere una risposta».
La seconda, il riconoscimento del diritto alle sole associazioni ambientaliste e non anche ai cittadini, di intervenire nei giudizi.
La nascita del concetto giuridico di “danno ambientale”.
L’ammissibilità di una qualunque tutela risarcitoria in caso di lesione all’ambiente collocabile sulla scia tracciata dall’art. 2043 c.c., anteriormente all’entrata in vigore della Legge 349/86 (prima disciplina ad aver introdotto nell’ordinamento giuridico nazionale una definizione di “danno ambientale”), si presentava come l’argomento di un acceso dibattito tanto in giurisprudenza, quanto in dottrina. Operando un’interpretazione in senso restrittivo della norma la cui ratio legis potesse in qualche modo essere ricondotta al diritto all’integrità ed alla salubrità ambientale, veniva meno la qualificazione dell’ambiente nella forma di diritto soggettivo, trattandosi prevalentemente di un mero interesse diffuso.
In questo quadro, dinanzi ad un bene insuscettibile di titolarità esclusiva, ma di interesse collettivo, una legittimazione a richiedere una qualunque tutela risarcitoria, discendente da una lesione o compromissione dell’ambiente, veniva assegnata esclusivamente all’ente esponenziale della collettività interessata.
A rendere ancor più complesso l’istituto del riconoscimento di una qualche tutela risarcitoria nei confronti delle singole situazioni giuridiche soggettive eventualmente lese sono stati gli orientamenti della Corte dei Conti, la quale, in alcune celebri pronunce, aveva ricondotto il danno ambientale nell’alveo del danno erariale. Il giudice contabile aveva infatti qualificato l’ambiente come il «complesso dei beni di uso e godimento pubblico, individuandoli attraverso la legislazione che li protegge per garantire la conservazione e la fruizione da parte di tutta la collettività»[10]. Con la pronuncia n. 86 del 1980, ha poi ampliato la definizione di «danno erariale», inteso non più soltanto come diminuzione patrimoniale rilevabile dalle scritture contabili, ma come danno pubblico ossia come danno alla collettività, capace di ricomprendere anche il danno ambientale.
Da osservare che, potendo il danno pubblico erariale riguardare solo gli amministratori ed i dipendenti pubblici, emergeva la necessità a che si pervenisse ad una ricostruzione unitaria dell’istituto in grado di comportare la sanzionabilità del danno pubblico ambientale da chiunque fosse cagionato, senza operare alcuna distinzione tra pubblico dipendente o privato cittadino. Aperto rimaneva anche il problema dell’addebito della responsabilità per il pregiudizio riportato da un privato in conseguenza della lesione arrecata all’ambiente. Ed in effetti, l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – Civile, con la sentenza n. 1463 del 9.3.1979, ha riconosciuto per la prima volta la possibilità di far valere il diritto alla salute ed all’ambiente, precisando altresì che il diritto alla salute, tutelato dall’art. 32 Cost. è configurabile anche come diritto all’ambiente salubre, riconosciuto sia al singolo che alla comunità ove egli svolge la sua personalità (Cass. civ. 6 ottobre 1979, n. 5172)[11].
Appare chiaro che con questo orientamento, il giudice di legittimità ha posto le basi per l’acquisizione da parte del diritto all’ambiente di quella soggettività giuridica (rectius: situazione giuridica soggettiva) tale per poter ricevere quella legittimazione necessaria alla configurazione di un «diritto soggettivo all’ambiente» da valutarsi alla stregua di un altrettanto fondamentale diritto, quello della proprietà e della salute.
Da qui nasce sia la tutela risarcitoria ai danneggiati, sia soprattutto lo strumento per impedire l’esercizio di attività dannose da parte di terzi, attraverso il riconoscimento di azioni inibitorie (Cass. S.U., 6 ottobre 1979, n. 5179).
Il danno ambientale in ambito comunitario.
La Direttiva 2004/35/CE, oggi trasfusa nella Parte VI del D. Lgs 152/’06 e ss. mm. e ii., fornisce una definizione di danno ambientale «estremamente analitica»[12].
Definizione che è stata piuttosto criticata dalla dottrina in quanto, sotto il profilo giuridico, una esplicitazione efficace dovrebbe garantire il contemperamento delle esigenze di certezza del diritto con quelle di un’applicazione sufficientemente “flessibile” della norma. Questo perché è fondamentale assicurare l’efficacia della stessa in relazione al bene protetto anche nelle situazioni meno evidenti, ma egualmente meritevoli di tutela in base alla ratio definita dal legislatore. L’eccessivo tecnicismo con cui la normativa comunitaria irrompe sul panorama giuridico nazionale è oggetto di pregiudizio nelle glosse degli studiosi del diritto, poiché si viene a determinare un’esasperazione della tendenza a definire pedestremente anche i concetti di contenuto più ampio e generale, così venendosi a creare una segmentazione ed un irrigidimento eccessivo di situazioni
giuridiche che, a contrariis, per loro natura, non possono essere cristallizzate in un sistema a compartimenti stagni.
Un sistema che si viene a creare ogniqualvolta, e accade spesso in ambito europeo, si ricorre ad una tecnica normativa esageratamente zavorrata da una elevata presenza di definizioni e di rimandi ad altre norme di pari contenuto definitorio. La direttiva de qua rappresenta, tra gli altri, un esempio di “appesantimento giuridico – normativo” perché ha ampliato la divergenza tra l’elaborazione di “danno ambientale” nazionale e quella comunitaria[13].
Il «danno alle specie e agli habitat naturali protetti, vale a dire qualsiasi danno che produca significativi effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di tali specie e habitat. L’entità di tali effetti è da valutare in riferimento alle condizioni originarie, tenendo conto dei criteri enunciati nell’allegato I» è incluso nel “danno ambientale” di cui al comma 1 dell’art. 1 della direttiva, unitamente al «danno alle acque, vale a dire qualsiasi danno che incida in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo e/o sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE, ad eccezione degli effetti negativi cui si applica l’articolo 4, paragrafo 7 di tale direttiva». Anche il «danno al terreno, vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana a seguito dell’introduzione diretta o indiretta nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo» costituisce l’ulteriore tassello applicativo della norma in itinere.
Appare chiaro che dalla definizione si possa facilmente constatare che l’evento di danno o di pericolo presunto sia riferito non all’ambiente ed alle risorse naturali, ma piuttosto alla tutela della salute umana. La definizione di danno al terreno si contraddirebbe rispetto all’impianto generale della direttiva. Infatti, se la finalità dichiarata è stata quella di istituire una disciplina comune per la prevenzione e riparazione del danno ambientale a costi ragionevoli per la collettività, nascerebbe spontaneo il quesito per il quale il danno da contaminazione del terreno (testualmente: «danno al terreno, vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana») sarebbe collegato ad una risarcibilità condizionata all’esistenza di un pregiudizio per la salute umana. Nella ratio legis della direttiva, indipendentemente dalla lesione causata ad altre componenti ambientali (flora, fauna, fruibilità del sito, etc.) si potrà parlare di “danno al terreno” interamente rimediato nel momento in cui sia stato eliminato il rischio di effetti nocivi per la salute umana; pertanto, la discrasia è evidente al punto che la contaminazione del terreno risarcibile ai sensi della direttiva ha poco a che fare con il danno ambientale stricto sensu, se non forse nella più limitata concezione di “ambiente salubre” quale presupposto per garantire la tutela della salute umana.
Il danno ambientale concepito a livello comunitario dalla direttiva de qua è senza dubbio comprensivo di quello arrecato alle specie ed agli habitat protetti, del danno ecologico, chimico e quantitativo arrecato alle acque nonché del danno da contaminazione del terreno che rechi pregiudizio alla salute umana. Si constata comunque una distanza tra le definizioni della direttiva e la generalissima norma di cui all’art. 18 della legge 349/86. Norma oggi abrogata e trasfusa, quanto alla materia, nella parte VI del D. Lgs 152/’06 e ss. mm. e ii., che pur non avendo definito o non definendo l’ambiente, individua un forma di danno ambientale inteso come compromissione dell’ambiente ovvero alterazione, deterioramento o distruzione, cagionata da fatti commissivi od omissivi, dolosi o colposi, violatori di leggi di protezione e di tutela e dei provvedimenti adottati in base ad esse.[14]
Rispetto al passato quindi, la concezione di danno introdotta dalla normativa europea è di «tipo materialistico, se non addirittura ingegneristico»[15].
L’elemento caratterizzante della direttiva è un danno consistente nella «alterazione fisico – chimica» di una determinata risorsa naturale, misurabile in termini di effetti negativi sullo stato della stessa. Per ciò che concerne il terreno, l’effetto negativo deve essere parametrato sui rischi per la salute umana. Non è un qualunque deterioramento delle risorse in sé o dei suoi usi collettivi ad essere al centro della disciplina (quali, ad esempio, la fruizione da parte della collettività, la salubrità dell’ambiente, la vocazione turistica, etc., essenzialmente ciò che Maddalena indica con «utilità ambientali»[16]), ma una modifica negativa determinata e misurabile di quei servizi collettivi che l’ambiente può rendere.
I criteri di misurazione sono sussunti in indicazioni di carattere prettamente tecnico di cui all’allegato I, in base al quale «gli effetti negativi significativi rispetto alle condizioni originarie dovrebbero essere determinati con dati misurabili».
La citata concezione ingegneristica del danno, ed in primis l’effetto negativo misurabile, si accompagna ad un logico corollario identificabile con la frammentarietà che si riscontra in ipotesi distinte di manifestazione, nelle quali è ovvia l’esistenza di presupposti variabili in relazione alla componente ambientale interessate: acque e terreno, specie ed habitat.
La direttiva 2004/35/CE, pur presentando delle sfaccettature giuridiche poco sistematiche, è tuttavia chiara nel porre come obiettivi dell’azione comunitaria la riparazione, la prevenzione del danno ambientale. Obiettivi raggiungibili con l’applicazione del moderno principio «chi inquina paga»[17].
Il danno ambientale nel diritto nazionale tra passato e presente.
Così come è avvenuto con la Direttiva 2004/35/CE, anche con la legge 8 luglio 1986, n. 349, è stata fornita una definizione giuridica di “ambiente”. E se la protezione delle risorse naturali può dirsi “prassi” di molti ordinamenti giuridici contemporanei, non sempre scontato appare che le risorse naturali vengano considerate come beni giuridici autonomi, come tali oggetto di tutela giuridica in sé e per sé, indipendentemente dal rapporto con i beni tradizionalmente tutelati dall’ordinamento, come, ad esempio, salute e proprietà.
A tale esigenza di sistema sembra aver tuttavia risposto la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente e sul danno ambientale del 1986, la quale è stata in grado di assegnare all’ambiente un certo grado di autonomia e sistematicità, configurandolo come bene giuridico autonomo. Tale assegnazione, direttamente connessa alla «tutela in sé e per sé», è avvenuta attraverso gli istituti della responsabilità civile per danno ambientale e dell’azione giurisdizionale amministrativa per l’annullamento dei provvedimento lesivi dell’ambiente[18].
In materia di danno ambientale, la fondamentale disciplina in materia di danno ambientale fino all’entrata in vigore del D. Lgs 152/’06 è stata quella introdotta dall’art. 18 della legge 349/1986.
Il primo comma prevedeva che: «qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base alla legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato».
Proprio a causa dell’assenza di una definizione giuridica dell’ambiente, non poche sono state le difficoltà incontrate sotto l’aspetto applicativo da tale assunto, presentandosi sempre ardua l’azione interpretativa sulla scorta della quale riuscire a connettere l’azione di risarcimento in caso di danneggiamento.
Gli orientamenti giurisprudenziali hanno in un certo qual modo riempito il buco nero creatosi, ora configurando l’ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della società (Corte Cost. Sentenza 22 maggio 1987 n. 210), ora ritenendolo un bene immateriale unitario oltreché un bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme.
Non meno importante, creando ancora una «tipizzazione del danno ambientale», limitandone il risarcimento alle sole ipotesi in cui la lesione all’ambiente sia stata inferta in violazione di leggi o di provvedimenti adottati in base alla legge (Cass. civ. sez. III, sentenza 9 aprile 1992, n. 4362; Cass. civ., sez. III, sentenza 3 febbraio 1998, n. 1087).
Con l’abrogato art. 18 era stato previsto un sistema di responsabilità per colpa, dovendosi intendere cioè una responsabilità civile per danno ambientale subordinata alla prova della colpa o del dolo dell’autore dell’evento dannoso da parte del danneggiato, nonché anche alla condizione che la condotta lesiva dell’ambiente fosse stata posta in essere contra legem, ossia in violazione delle vigenti disposizioni di legge o provvedimenti adottati in base alla legge[19]. La dimostrazione del nesso causale rappresentava altresì la conditio sine qua non ai fini del risarcimento, dovendosi trattare segnatamente della relazione intercorrente tra l’evento di danno e l’azione del soggetto ritenuto responsabile. Diversi erano di conseguenza i problemi che si riscontravano nella praticità dei fatti, anche perché è tuttora indubbia la particolarità con cui i fenomeni ambientali si manifestano o vengono determinati.
Lo Stato e gli altri enti territoriali erano i soggetti ai quali era riconosciuto il diritto/dovere dell’incipit per l’azione risarcitoria, in merito alla quale la giurisprudenza negli anni ne ha ammesso la titolarità anche alle associazioni ambientaliste riconosciute.
Ciò posto, la quantificazione del danno faceva poi emergere altri problemi di natura più prettamente tecnico – estimativa mancando il bene – ambiente di un parametro economico – contabile cui fare riferimento. Se in un quadro di “politica general – preventiva” i criteri di quantificazione dovevano consentire di raggiungere la formulazione di un incentivo adeguato per il danneggiante a non tenere più nel futuro determinate condotte lesive per l’ambiente, l’art. 18 assegnò al giudice il compito di determinare ipso iure un valore ambientale, precisando che qualora non fosse possibile una precisa quantificazione, egli doveva procedere sulla base di tre criteri alla quantificazione in via equitativa del danno ambientale. In primis doveva tener presente la gravità della colpa individuale; in secundis il costo necessario per il ripristino ed in tertiis il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali. A ciò si aggiungeva comunque la decretazione da parte del giudice a che, qualora possibile, si procedesse con priorità sul risarcimento monetario al ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.
L’abrogazione dell’art. 18 ha comportato il trasferimento (unitamente ad una completa rivisitazione) della materia del danno ambientale alla Parte VI del D. Lgs 152/’06, il quale ha, tra l’altro, dato attuazione alla Direttiva 2004/35/CE. Occorre osservare tuttavia che solo il comma 5 dell’art. 18 è rimasto tuttora in vigore e riguarda la “facoltà di intervento nei giudizi per danno ambientale e ricorso in sede giurisdizionale amministrativa delle associazioni ambientaliste”.
Ai sensi dell’art. 300 del D. Lgs 152/’06 per danno ambientale deve intendersi «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima». Concorre poi l’art. 311, comma 2, non molto dissimile da quello del previgente art. 18 L. 439/’86, il quale recita: «Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato».
Tra le due norme, per Cingano[20]esisterebbero delle divergenze, per risolvere le quali bisognerebbe o considerarle come due sotto – insiemi distinti, regolati da norme separate, oppure ricondurle ad un unico concetto di danno. Dottrina maggioritaria[21] opta per la seconda direttrice in quanto tale opzione è maggiormente conciliabile con una nozione di ambiente inteso in senso unitario, non come mera somma delle sue varie componenti, ma come valore che deve essere autonomamente tutelato, in quanto «permette di apprestare una tutela piena dell’ambiente». Quest’approccio analitico è verosimilmente l’unico che dimostri una forte compatibilità con il carattere costituzionale dell’ambiente (in precedenza è stato ampiamente discusso), ragione per cui limitare l’individuazione del danno ambientale ad una definizione frammentata ed incompleta non potrebbe che compromettere l’obiettivo di preservare le risorse naturali, in conformità ai principi generali presi in considerazione. L’ambiente «deve essere tutelato come bene in sé considerato: anche un illecito che incide su beni diversi dell’ambiente, ma che determini conseguenze negative per esso legittima l’intervento statale».[22]
Si possono infine individuare due filoni di indagine strettamente connessi alla definizione di danno ambientale: la prima riguarda la classificazione di “danno ambientale come danno – conseguenza (danno provocato) e non come danno – evento (danno patito)”; la seconda la qualificazione della natura del danno come non patrimoniale.
Per il primo il danno all’ambiente si identifica con l’insieme degli effetti lesivi ad esso apportati. In questo caso la liquidazione del danno ambientale, anche se effettuato in via equitativa, necessità sempre dell’accertamento di una compromissione concreta all’ambiente. Il risarcimento viene riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il danno ambientale, non essendo sufficiente la sola violazione formale in materia di inquinamento.
Il concetto di misurabilità e di significatività assumono particolare rilievo nella definizione di danno perché evitano di considerare l’illecito sotto il mero aspetto formale e di sostenere che la responsabilità possa derivare dalla semplice violazione di norme protettive dell’ambiente. Per il secondo, invece, il danno – conseguenza arrecato all’ambiente non avrebbe natura patrimoniale o più semplicemente, avrebbe, secondo la Corte Costituzionale, una rilevanza patrimoniale indiretta nel senso che la tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una economicità che eviti sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di scambio del bene.
Una serie di funzioni permetterebbe una misurazione economica dell’ambiente, con i relativi costi, comprensivi della gestione del bene, essendo il massimo godimento e la maggiore fruizione da parte della collettività i principali obiettivi della “politica gestionale”. Per tale motivo, l’impatto ambientale potrebbe essere ricondotto in termini monetari, non tralasciando di osservare che negli anni ’70 la Corte dei Conti sosteneva per l’appunto la patrimonialità del danno all’ambiente inquadrandola nel danno pubblico erariale. Non potendo prescindere dalla concezione unitaria del bene – ambiente, non può tuttavia non riconoscersi che su tale scia interpretativa, una sua lesione
produca un danno non patrimoniale, peraltro ben distinto dal danno patrimoniale derivante dalla lesione dei beni privati e pubblici che lo compongono (Corte di Cassazione, 17 aprile 2008, n. 10118, in Giur. It., 2008, 12, 2708).
Il «risarcimento dovrà comprendere non soltanto il pregiudizio nettamente patrimoniale arrecato a beni pubblici o privati, ma anche quello non patrimoniale rappresentato dal vulnus all’ambiente stesso quale bene unitario di natura pubblicistica».
Affermando l’unitarietà del danno ambientale anche come danno non patrimoniale, e quindi il suo inquadramento nell’ambito dell’art. 2059 c.c., la Corte di Cassazione ha sentenziato «che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettibile di suddivisione in categorie variamente etichettate, che hanno valore meramente descrittivo, alla stregua dei parametri per la quantificazione del danno all’ambiente». Ne consegue che per il giudice di legittimità, il danno non patrimoniale è risarcibile sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., a condizione che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tolleranza e che il danno non sia futile, che non consista cioè in meri disagi o fastidi o nella lesione di diritti del tutto immaginari.
[1] Damnum,i,n. – danno, perdita, scapito, svantaggio: damna atque dedecora, danni e vergogne; damnum infectum, danno eventuale; damunm facere o contrahere o pati o accipiere o ferre, patire, soffrire un danno; damnum dare, recare danno; lucra damnaque, i profitti e le perdite.
Castiglioni, S. Marioti, Vocabolario della lingua latina, Torino, 2013.
[2] Il primo capitolo fa riferimento al damnum derivante dalla perdita totale ed irreversibile delle res materiali come gli schiavi e i pecudes. Infatti, gli schiavi sono uguali agli animali che possono essere raggruppati in gregge (Gregatim habetur) o in pascolo (sono esclusi gli animali feroci e i cani). La pena viene fissata nel risarcimento del danno fissato nel massimo valore che aveva la res nell’ultimo anno. Il secondo capitolo fa riferimento alla figura dell’adstipulator, cioè quell’intermediario di nomina ufficiale, abilitato a richiedere la summa aestimatio al “nexus” (debitore). Questo capitolo disciplina il caso in cui l’adstipulator venga a meno agli obblighi assunti dall’assunzione dell’incarico, come, ad esempio, il caso in cui l’adstipulator vada a riscuotere la summa, ma la perde o scappa con la summa riscossa. Il terzo capitolo fa riferimento al damnum derivante dalla conseguenze di azioni qualificate previste come conseguenza di un comportamento. Si fa riferimento inoltre alle res immateriali come le opere dell’ingegno e le opere letterarie, che sono state distrutte ma possono essere duplicate attraverso le copie. Le azioni previste sono: occidere; urere; rumpere; frangere. Il risarcimento sarà fissato nel massimo valore della cosa negli ultimi 30 giorni.
[3] F. Bocchini, Struttura del fatto illecito, in Insegnamenti di diritto civile, Università Telematica Pegaso, 2013.
[4] Ibidem.
[5] Corte Cass. n. 1087/1998; Corte Cost. n. 641/1987 e il parere del Con. St. n. 426/2001, oltre a Corte Cass. n. 5650/1998; Corte Cass. n. 9211/1995 e Corte Cass. n. 436271992; cfr. Tribunale di Napoli civile, sezione VIII, sentenza 3 novembre 2004, n. 11235.
[6] Cfr. la “relazione all’assemblea per la deliberazione a norma dell’articolo 96 del regolamento” del Presidente della I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati su www.parlamento.it.
[7] Ibidem.
[8] Il disegno di legge 1203 – 1298B recante “Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale” venne votato a scrutinio segreto: (Presenti: 24; Votanti: 15; Astenuti: 9; Maggioranza: 8; Voti favorevoli: 13; Voti contrari: 2).
[9] Resoconto stenografico della seduta del 26. Giugno 1986 della Commissione Affari Costituzionali, su www.camera.it.
[10] P. Maddalena, Responsabilità amministrativa, danno pubblico e tutela dell’ambiente, in Cons. Stato, 1982, p. 13 e F. Giampietro, Responsabilità civile per danno all’ambiente: iniziative internazionali ed esperienza italiana in Foro it., 1986, p. 494.
[11] Per il giudice di legittimità: «L’art. 32 Cost., oltre che ascrivere alla collettività generale la tutela promozionale della salute dell’uomo, configura il relativo diritto come diritto fondamentale dell’individuo e lo protegge in via primaria, incondizionata e assoluta come modo d’essere della persona umana. Il collegamento dell’art. 32 con l’art. 2 Cost. attribuisce al diritto alla salute un contenuto di socialità e sicurezza, tale che esso si presenta non solo come diritto alla vita e all’incolumità fisica, ma come vero e proprio diritto all’ambiente salubre che neppure la pubblica amministrazione può sacrificare o comprimere, anche se agisca a tutela specifica della salute pubblica. Da tale configurazione deriva che il diritto alla salute nel suo duplice aspetto è tutelabile giurisdizionalmente davanti al giudice ordinario anche contro la pubblica amministrazione le cui attività lesive devono considerarsi poste in essere in difetto di poteri».
[12] L. Prati, Il danno ambientale e la bonifica dei siti inquinati, Milano, 2008.
[13] Critica la direttiva anche F. Giampietro, in Prevenzione e riparazione del danno ambientale: la nuova direttiva 35/2004/CE, in Ambiente, 2004, 10.
[14] L’art. 300 (danno ambientale):
– E’ danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima.
– Ai sensi della direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato:
a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, che recepisce le direttive 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE della Commissione del 6 marzo 1991 ed attua le convenzioni di Parigi del 18 ottobre 1950 e di Berna del 19 settembre 1979, e di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, recante regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonchè della flora e della fauna selvatiche, nonchè alle aree naturali protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394, e successive norme di attuazione;
b) alle acque interne, mediante azioni che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE, ad eccezione degli effetti negativi cui si applica l’articolo 4, paragrafo 7, ditale direttiva;
c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni suddette, anche se svolte in acque internazionali;
d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell’introduzione nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente.
[15] F. Giampietro, Op. cit., p. 13.
[16] Cfr. P. Maddalena, in Ambiente, bene comune, in Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Torino, 2013.
[17] Nell’analisi che verrà svolta di tale principio, si prenderà come riferimento da un lato la visione per la quale «l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile» e dall’altro «in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale».
[18] S. Maglia, Diritto all’ambientale alla luce del T.U. ambientale e delle novità 2011, Milano, 2011.
[19] Ibidem.
[20] V. Cingano, Bonifica e responsabilità per danno all’ambiente nel diritto amministrativo, Padova, 2013.
[21] Cfr. B. Pozzo, Danno ambientale ed imputazione della responsabilità. Esperienze giuridiche a confronto, Milano, 1996, 1.; F- Giampietro, La nozione di ambiente e di illecito ambientale: la quantificazione del danno, in Commento al Testo Unico Ambientale, a cura di F. Giampietro, Roma, 2006, p. 243; A. ROBUSTELLA, La responsabilità per danno all’ambiente tra finanziaria e testo unico ambientale, in Urb. e App., 2006, p. 785; A. Tomassetti, Il danno ambientale, in Resp. Civ. 2007, 109; L .Villani, Responsabilità, danno e assicurazione, tra codice dell’ambiente e dir. 2004/35/CE, in Resp. Civ., 2007, p- 258.
[22] V. Cingano, Bonifica e responsabilità, cit..
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