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Il sottoprodotto, il fresato d’asfalto e la “normale pratica”
di Pasquale Giampietro, Alfredo Scialò
Categoria: Rifiuti
1. La vicenda oggetto dell’appello
Con la recente sentenza n. 4151 del 21 maggio – 6 agosto 2013[1], il Consiglio di Stato ha lucidamente (e finalmente) chiarito, in modo univoco, che il fresato d’asfalto, originato dai lavori di manutenzione/ricostruzione della pavimentazione stradale, al pari di qualsiasi altro residuo produttivo, può essere qualificato come “sottoprodotto”[2]in presenza ovviamente delle “condizioni” di cui all’art. 184 bis, comma 1, del D.lgs. 152/2006 e s.m.i. [3] (in prosieguo, anche TUA).
Il principio di diritto, affermato in sentenza, si presenta – per molti profili – di portata rilevante poiché consente, innanzitutto, di superare, con l’autorevolezza dell’alto Consesso amministrativo, le resistenze manifestate, in forma diffusa e reiterata, dalla più parte delle amministrazioni provinciali che, nella presenza di precedenti giurisprudenziali contrari[4], anche dopo l’introduzione della nozione giuridica del “sottoprodotto”[5], hanno continuato ad attribuire a tale materiale la qualifica di “rifiuto,” ex art. 183, comma 1, lett. a) del T.U.A. Indifferenti al fatto che gli operatori di settore mettessero in luce, già da tempo e in modo documentato, come l’impiego del fresato avvenisse secondo un ciclo di riutilizzazione il quale, non comportando trattamenti “diversi dalla normale pratica industriale”, non ricadeva (e non ricade) nelle operazioni di recupero dei rifiuti, ex art. 183, comma 1, lett. t) del T.U. cit.
2. Le prassi provinciali di escludere la qualifica di sottoprodotto al fresato
Nelle prassi amministrative si è operata, da tempo, una distinzione – nel considerare il “fresato stradale”[6] come rifiuto o sottoprodotto – rispetto a due vicende così connotate:
a) il fresato[7] – generato dalla rimozione (tramite fresatura) degli strati superficiali del manto di asfalto, svolta da ditta appaltatrici dei lavori di rifacimento e/o manutenzione delle strade – viene trattato dalla medesima ditta (mediante riselezione e frantumazione) al fine di produrre, utilizzando appositi impianti mobili in situ (cioè all’interno del cantiere), conglomerati bituminosi destinati alla loro immediata riutilizzazione, per gli stessi scopi;
b) Il fresato, prodotto dalla stessa società appaltatrice (come sopra), viene trasferito ad altro soggetto, il c.d. “utilizzatore” il quale produce conglomerati bituminosi, impiegando tale residuo produttivo nel proprio (distinto) ciclo di produzione, e dunque presso il proprio impianto (il fresato sarà miscelato con altra “materia prima primaria”[primary raw material]”). Sicché, in tal caso (che, è quello preso in esame dalla sentenza in commento), il fresato:
1) viene generato dalla società appaltatrice dei lavori di fabbricazione e/o manutenzione stradale; 2) per essere poi consegnato ad imprese terze, che lo utilizzano, nel proprio ciclo produttivo; 3) come uno dei materiali utili (e concorrenti con altre materie) alla produzione di nuovo conglomerato bituminoso.
Le uniche ipotesi in cui sovente è riconosciuta la qualifica di sottoprodotto, risultano quelle di utilizzo in situ del fresato, da parte della stessa ditta appaltatrice delle opere di realizzazione/manutenzione stradale, per la produzione di conglomerati bituminosi, all’interno delle medesime attività da cui sono generati (sub a), con esclusione della ipotesi di cessione a terzi (sub b).
A sostegno dei menzionati approcci restrittivi si adducono, abitualmente, le seguenti ragioni:
1) il fresato è contemplato dal Codice europeo dei rifiuti (CER) che gli attribuisce un determinato numero: il 170302; 2) questo materiale risponderebbe alla nozione di sostanza di cui il detentore si “disfa,” ex lett. a) dell’art. 183 cit., con riferimento tanto al proprietario della strada (da cui è prelevato il fresato), quanto alla società appaltatrice, che, in veste di produttrice/detentrice, lo destinerebbe al “recupero”, consegnandolo a terzi, ex art 183, lett. t); 3) il fresato, in base ad alcuni contratti d’appalto, deve essere smaltito in discarica, salvo che sia recuperato come rifiuto; 4) esso è previsto e disciplinato, come rifiuto, dal DM 5.2.98, sotto la voce 7.6[8] e 7.1 (modificata dal DM 5.4.06).
Dalla qualifica del fresato, come rifiuto, è fatto derivare – ovviamente – un regime giuridico particolarmente oneroso per il suo utilizzatore che sarà sottoposto ad una serie di prescrizioni (dettate dalla parte IV del T.U.A.), per il suo stoccaggio, trasporto, trattamento e, più in generale, per la sua gestione.
La natura giuridica di rifiuto – assegnata al fresato – si ripercuote inevitabilmente sulle attività delle imprese produttrici di conglomerati bituminosi, intenzionate ad utilizzarlo, nel proprio ciclo produttivo, unitamente alla materia prima vergine, che vedono assoggettare il proprio impianto, prima ancora di realizzarlo e metterlo in esercizio, ad oneri procedimentali assai rilevanti, in termini finanziari, burocratici e temporali, come la sottoposizione, per es.:
– alla procedura di VIA, per valutare gli impatti ambientali derivanti dallo stabilimento, nonché ad altre procedure autorizzatorie ambientali (ad es. la valutazione di incidenza obbligatoria, qualora l’impianto ricada in area SIC-“Sito di interesse comunitario”);
– alla richiesta di autorizzazione per svolgere il recupero ordinario, ex art. 208 del T.U.A. o semplificato del fresato, ex art.214-216 del TUA, con l’osservanza delle previsioni della voce 7.6. del D.M. del 1998;
– al rispetto delle prescrizioni e precauzioni dettate dalle autorità amministrative per evitare conseguenze connesse dalla gestione di fresato che potrebbe contenere inquinanti provenienti dalla superficie stradale (come ad es. impermeabilizzazioni delle aree di stoccaggio, raccolta delle acque di prima pioggia, con scolmatore, ecc.);
– alle disposizioni sulla tracciabilità del fresato dal luogo di formazione a quello di trattamento, sino al reimpiego nel rispetto del vigente “sistema integrato per il controllo e la tracciabilità dei rifiuti” (il cd. SISTRI introdotto dall’art. 189, comma 3 bis del T.U.A. e s.m.i.).
Tanto più che tale doppio regime (come sottoprodotto o come rifiuto a seconda della collocazione degli impianti in situ o all’esterno del cantiere, con utilizzazione in loco o aliunde) non sembra trovare serie giustificazioni tecniche o ambientali (al di là di un generico sospetto….. che accompagna la movimentazione del fresato da un luogo all’altro) ove si rifletta che, in entrambe le ipotesi, il fresato:
– deriva dal medesimo ciclo produttivo di origine (lavori di pavimentazione stradale);
– conserva la stessa formazione e composizione chimico-fisica;
– registra la medesima (eventuale) presenza di contaminanti (nei limiti ammessi: v. oltre);
– viene sottoposto agli stessi trattamenti (selezione, macinazione, ecc.)
A cambiare, in queste ipotesi, risulterebbe soltanto il luogo dove il fresato sarà riselezionato e ridotto granulometricamente per costituire una componente della produzione del nuovo conglomerato bituminoso[10].
In definitiva – a fronte di una prassi amministrativa ostile al riutilizzo del fresato da parte di terzi (non in loco), anche a fronte della sopravvenuta disciplina del “sottoprodotto” (che avrebbe dovuto mettere in forse o comunque indurre a rivedere il pre-giudizio consolidato sull’equivalenza definitoria fresato = rifiuto ovvero fresato ceduto a terzi = fresato “disfatto”) – risulta quanto mai utile e convincente (oltre che molto attesa.. dagli operatori) la sentenza n. 4151/2013 del supremo organo di giustizia amministrativa il quale, nel valutare il caso sottoposto alla sua attenzione, previa conferma della decisione del TAR Lombardia, ha riportato il “fresato” nell’ambito del sottoprodotto, argomentando sulla correttezza di tale qualificazione, ovviamente nel concorso di determinate “condizioni”, proprio nell’ipotesi più critica di lavorazione di questo materiale da parte di terzi.
– era da classificare come rifiuto speciale (codice CER 17.0.002), cioè materiale di risulta ricavato dalla demolizione di fondi stradali e, conseguentemente, da definire come residuo recuperabile non utilizzato come tale, nell’impianto di cui si chiedeva l’autorizzazione;
– originava, inoltre, da lavori di manutenzione stradale, e non da un processo di produzione, di cui costituiva parte integrante, pur non essendone lo scopo primario e, pertanto, non aveva le caratteristica del “sottoprodotto”, di cui all’art. 184 bis, del d. lgs. n. 152/2006;
4. Primi rilievi sulla motivazione: il significato del CER
Nel confermare la correttezza della pronuncia di primo grado, il Consiglio di Stato ha avuto modo di esaminare, partitamente, le motivazione provinciali citt. rilevandone la erroneità alla stregua della vigente disciplina sulla gestione dei residui produttivi, con specifico riferimento alla pregiudiziale e decisiva distinzione tra rifiuti e sottoprodotti – ribadendo, in premessa che:
– l’inclusione del fresato: 1) nel catalogo CER e contestualmente 2) tra i rifiuti recuperabili, ex D.M. del 5/2/98, non è di per sé ostativa alla qualificazione di detta sostanza come sottoprodotto. Perché, anche in questa evenienza “… si tratta di verificare, dal punto di vista sostanziale e fattuale, se la fresatura d’asfalto rivesta i requisiti indicati dalla norma di cui all’art. 184 bis per essere considerata sottoprodotto e non rifiuto speciale”. Come dire che – pur in presenza dei presupposti indicati dalla Provincia, possono, nel caso concreto, sussistere tutte le condizioni elencate dall’art. 184-bis cit. perché una determinata sostanza rivesta, fin dall’origine, i requisiti del sottoprodotto che, ovviamente, sono logicamente e giuridicamente incompatibili con la qualifica di rifiuto (come sottolinea la frase di esordio della norma cit. secondo cui “ E’ un sottoprodotto e non un rifiuto, ai sensi dell’art. 183, comma1, lett. a),…. qualsiasi sostanza .. che soddisfa…” ecc.).
La dimostrazione dell’assunto è fornita da quel Collegio, tramite un richiamo essenziale a precedenti giurisprudenziali dei quali val la pena riprodurre i seguenti passaggi:
“… Data la novità della classificazione del sottoprodotto rispetto a quella contenuta nel codice CER, la giurisprudenza amministrativa ha già considerato non vincolante la classificazione recata dal codice CER anteriore alla definizione dei sottoprodotti alla stregua dei criteri sostanziali dell’art. 184 bis giungendo, per alcune sostanze classificate come rifiuto, al riconoscimento come sottoprodotto (quali la pollina, Cons. St. Sez. IV, 28.2.2013, n. 1230). Anche la Cassazione penale (Sez. III, 14.6.2012, n. 28609) giudica essenziale, ai fini della qualificazione di una sostanza come sottoprodotto, la sussistenza contestuale di tutte le condizioni richieste e l’assenza di trasformazione preliminare ai fini del riutilizzo, oltre alla circostanza che il materiale sia destinato con certezza e non come mera eventualità ad un ulteriore utilizzo” (v. capo 13).
E, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale evocato, la decisione conclude nel senso che, per accertare la natura giuridica del fresato:
“… si tratta dunque di verificare, dal punto di vista sostanziale e fattuale, se la fresatura d’asfalto rivesta i requisiti indicati dalla norma di cui all’art. 184-bis per essere considerata sottoprodotto o rifiuto speciale”
Non può che condividersi tale impostazione che appare saldamente ancorata al dettato normativo, così come interpretato dalla giurisprudenza, amministrativa e penale richiamata, secondo la quale, dall’inclusione nel C.E.R. del fresato, non puòtrarsialcuna fondata conclusione in merito alla qualificazione giuridica dello stesso (come rifiuto o sottoprodotto) in assenza di una effettiva volontà di disfarsi (del fresato) da parte del relativo produttore e/o detentore (per giurisprudenza e dottrina pacifiche).
E, del resto, anche nella “Introduzione” all’Allegato D), della Parte Quarta del T.U.A. cit., si legge che:
“… la classificazione di un materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’art. 1, lettera a) della direttiva 75/442 CEE” (definizione oggi trasposta nell’art. 183, comma 1, lett. a), del TUA ) e non se esso è previsto dal CER.
Ad assumere carattere dirimente, ai fini della qualificazione di un dato materiale (nella specie, del fresato stradale) come rifiuto o piuttosto come merce (sottoprodotto), resta quindi la volontà di colui che produce e/o detiene detto materiale. Solo qualora quest’ultimo intenda “disfarsene”, lo stesso si potrà configurare come un rifiuto.
Pertanto, il Collegio ha potuto fondatamente osservare che la qualificazione del fresato, piuttosto che derivare dalla sua inclusione nel C.E.R., dovrà farsi discendere da un’attenta disamina della sua origine, caratteristiche e impiego, finalizzata a verificare:
(1) l’effettiva volontà del produttore/detentore e:
(2) la presenza, in concreto, delle condizioni poste dalla legge, elencate dall’art. 184-bis cit., che servono, appunto ad accertare le modalità dell’effettivo diretto riutilizzo, incompatibile con la “volontà” di disfarsi del residuo produttivo[13].
5. L’inclusione fra i rifiuti recuperabili
Entrando nel merito dei vizi di legittimità della diffida provinciale[14], il Consiglio, richiamandosi, testualmente, e facendo proprio un rilievo del giudice di primo grado, osserva, che seppure “…il fresato d’asfalto viene generalmente classificato come rifiuto in quanto come tale disciplinato dal DM 5.2.1998 e contemplato dal codice europeo dei rifiuti, nondimeno possa essere trattato alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito” (v. capo 11, della sentenza).[15]
Anche questa assai sintetica considerazione appare corretta – in punto di irrilevanza giuridica, ai fini definitori, della inclusione di una tipologia di residuo (come il fresato) nell’ambito del D.M. 5.2.1998 e s.m.i.[16] (alla voce 7.6[17]) – in consonanza con una consolidata giurisprudenza comunitaria (oltre che nazionale) che, da oltre dieci anni, ha chiarito – in linea ad principio – come, alla previsione di specifici metodi di trattamento o di recupero dei rifiuti,“… non consegue necessariamente che qualunque sostanzatrattata con uno di tali metodi debba essere considerata un rifiuto…”.
La Corte europea ha infatti, chiarito, in termini vincolanti, con riferimento alla (corretta) interpretazione del diritto comunitario, che “… il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto. Infatti la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non ha incidenza sulla natura di rifiuto, definita, conformemente all’art. 1 lett. a) della direttiva” (e cioè alla definizione di rifiuto oggi riprodotta nell’art. 183 cit. del TUA). Le stesse attività di trasformazione o di trattamento (come quelle di “recupero” descritte dal D.M. 5.2.1998), osserva la stessa Corte, possono interessare tanto la materia prima che il rifiuto[18]. Come dire che, ai fini della qualificazione in oggetto, occorre dare rilievo alla sussistenza della volontà di disfarsi della sostanza o dell’oggetto e tale volontà non può farsi discendere dalla destinazione ad un tipo di attività astrattamente ricompresa (in sede normativa) tra quelle che possono (anche) perseguire finalità recuperatorie (del rifiuto).
Piuttosto, si dovrà procedere ad un’attenta disamina della singola fattispecie per valutare se ricorrano in concreto gli elementi costituitivi della definizione di rifiuto o piuttosto quelli del sottoprodotto, partendo appunto dalla volontà del produttore/detentore della sostanza (come rileva la decisione, in esame, che invita a prestare attenzione alla circostanza che il fresato . “ ….vengainserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo …..[19]”).
Sotto altro profilo, con riguardo a tale ultimo aspetto, non si può fare a meno di rilevare che l’impostazione e i contenuti del D.M. 5.2.1998, “risentono” di una (in quanto danno attuazione a ) risalente normativa, introdotta dal decreto Ronchi del ’97 (poi abrogato dal T.U.A. del 2006) che non conosceva formalmente e non regolava espressamente la categoria del sottoprodotto e, conseguentemente, le sue condizioni di esistenza (definite, in sede comunitaria, nel 2008)[20].
In conclusione, nell’attuale sistema normativo, laddove la figura del sottoprodotto ha trovato finalmente pieno, formale riconoscimento e una sua specifica disciplina, deve ritenersi, così come osservato in sentenza, che la teorica recuperabilità di un dato residuo, secondo una delle attività elencate dal D.M. cit. tra le attività di recupero – ove il suo detentore intenda disfarsene, recuperandolo – non possa essere ostativa alla qualifica dello stesso come sottoprodotto, nella distinta ipotesi in cui il soggetto interessato voglia utilizzarlo direttamente o indirettamente (trasferendolo a terzi), nel rispetto delle condizioni dell’art. 184-bis, “tal quale” o previo trattamento, se del caso, ricadente nella “normale pratica industriale” (v. oltre), attese le peculiari caratteristiche di alcuni residui produttivi.
Pensare altrimenti significherebbe, fra l’altro, porre un limite sostanziale alla nuova categoria del sottoprodotto ad opera di una fonte regolamentare che disciplina il distinto settore dei rifiuti e che si porrebbe in contrasto con una fonte primaria (art. 184-bis), oltre che successiva e incompatibile con le norme del decreto Ronchi (cui il D.M. del 1998 dava attuazione e nel quale non era formalmente riconosciuta tale categoria giuridica). [21]
6. La verifica delle singole “condizioni” dell’art. 184-bis
Dopo aver confutato i due presupposti logico-giuridici della tesi provinciale, sopra esaminati, i giudici d’appello – accreditando la motivazione del TAR lombardo sulla asserita ricorrenza, nella specie, delle quattro “condizioni” poste dall’art. 184-bis – hanno concluso, in poche battute, ribadendo che il fresato era stato correttamente qualificato come sottoprodotto perché: “… il metodo di verifica utilizzato dal Tar” aveva “tenuto conto delle seguenti circostanze: che 1) il bitume d’asfalto si inserisse nel processo produttivo dell’impianto; 2) che venisse rimosso con la certezza di essere integralmente riutilizzato; 3) che non venisse sottoposto ad un processo di trasformazione; 4) che venisse riutilizzato in tempi ravvicinati (quotidianamente) rispetto al prelievo, 5) senza particolari operazioni di stoccaggio; 6) che non si potesse porre a priori in senso assoluto il problema di doversene disfare, essendo esso sempre riutilizzabile e riutilizzato” (la numerazione dei motivi è nostra e non del testo originale).
A conforto ulteriore delle proprie conclusioni, il Consiglio evoca i noti criteri dell’ordinamento dell’U.E., afferenti il sottoprodotto, desunti dalla giurisprudenza circa: a) il lucro economico connesso al riutilizzo della sostanza; b) la conseguente volontà di non disfarsi di essa; oltre c) alla certezza del riutilizzo, d) “nel corso del processo produttivo”: e) nell’assenza di trasformazioni preliminari. Questo l’ultimo passo della motivazione sul tema della natura del fresato:
(capo 15) . “.. Le conclusioni cui è giunto il Tar sono in linea non solo con la normativa interna, ma anche con la giurisprudenza comunitaria secondo cui, quando oltre che riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, “la sostanza non può essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico prodotto” (CGCE sent. 18 aprile 2002, causa C9/00 Palin Granit)[22] . Secondo la giurisprudenza europea “E’ ammesso, alla luce degli obiettivi della direttiva 75/442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi, ai sensi dell’art. 1, lett. a) della Direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione” (sent. 11 settembre 2003, causa C114/01, Avesta Potarit Chrome). 6.1 Il requisito di provenienza: origine del fresato d’asfalto, parte integrante del processo produttivo
Oltre ai motivi già ricordati, la Provincia di Monza e della Brianza, nel suo appello incidentale, aveva rilevato – a sostegno della qualifica di rifiuto del fresato – che tale materiale non avrebbe rispettato il requisito d’origine dei sottoprodotti, ex art. 184-bis, comma 1, lett. a), in quanto, nel caso, esso non deriverebbe da un processo di produzione, trattandosi di un “.. materiale di risulta ricavato dalla demolizione di fondi stradali” (v. capo 9, della decisione).
In verità tale assunto non è stato oggetto di alcun rilievo da parte del Collegio d’appello, che ha ritenuto di superare implicitamente (con la tecnica dell’assorbimento) la censura, affermando in via generale, come già ricordato, la ricorrenza, nella specie, di tutte le condizioni di legge (ivi compresa, implicitamente, anche quella “dell’origine della sostanza”).
Ma sul punto sarebbe stato invero più utile – per sgombrare definitivamente il campo da erronee interpretazioni dell’art. 184-bis (e quindi da futuri ulteriori tentativi di sottrarre il fresato alla possibilità di accedere al regime dei sottoprodotti) – una puntuale confutazione della tesi provinciale, che, del resto, risultata agevole alla luce delle effettive caratteristiche d’origine del materiale de quo.
La stessa questione, invece, non era sfuggita al TAR Lombardia che, respingendo la tesi provinciale, ha espressamente affermato che l’attività di scarifica, da cui proviene il fresato, va qualificata come “processo produttivo”, in questo univoco e limpido passaggio della sua motivazione (comunque confermato dal giudice d’appello):
(capo 2.3) : “… La gestione come sottoprodotto è invece molto più semplice e le motivazioni per cui il fresato dovrebbe essere considerato un “sottoprodotto” sono: a) che esso è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza (D.Lgs. 152 comma 1 art. 184 bis) ma il suo impiego: lo scopo per cui si fresa l’asfalto è, infatti, il rifacimento del manto stradale e non la produzione del fresato in quanto tale” (e il “rifacimento del manto stradale” rientra, per il TAR, in un “processo di produzione, di cui costituisce parte integrante” la formazione del fresato, come anticipato nella prima proposizione, riportata sopra).
L’argomento addotto dal Collegio di prime cure appare pertinente e conforme alla prassi industriale che si è consolidata nel settore della produzione e reimpiego del fresato. Basta, infatti, considerare che l’attività di costruzione, ricostruzione e/o manutenzione delle strade, da parte delle ditte appaltatrici dei lavori – sia che la si voglia considerare attività di produzione di beni (costruzione delle strade) che di svolgimento di servizi (di manutenzione ordinaria o straordinaria delle stesse), rientra, pur sempre in una attività industriale, ex art. 2195, comma 1, n. 1, del codice civile (che fa riferimento agli “….imprenditori che esercitano un’attività industriale diretta alla produzionedi beni o di servizi”[23]) – e ha come “scopo primario” tale specifica finalità (realizzazione di strade, esecuzione di manti stradali ecc.[24] ).
In conclusione, nell’esecuzione di questa attività di produzione industriale si origina, a seguito delle operazioni di scarifica e/o fresatura delle strade una “sostanza” (appunto il fresato) che non rientra nello “scopo primario” della produzione del bene o del servizio e, nondimeno, deriva necessariamente dal complesso delle operazioni descritte e dunque “costituisce parte integrante del processo di produzione” (così testualmente v., sopra, Tar Lombardia cit.).
Questa prima connotazione (l’essere parte integrante e fase di un processo produttivo articolato) costituisce – come è noto – ricezione, nel diritto interno, di quanto disposto dalla la lett. c) del par. 1, dell’art. 5, della direttiva 98/2008 CE, e, come rilevato, va riferita al momento genetico della formazione del fresato- sottoprodotto.
Risulta, pertanto, fuorviante, in termini tecnici e giuridici, la prospettazione (non solo di alcune province…) secondo cui il fresato sarebbe assimilabile ad un materiale di risulta dalla demolizione di fondi stradali perché la sua formazione va ricondotta – più correttamente – ad una unitaria attività industriale di costruzione, manutenzione, rifacimento ecc. della pavimentazione stradale nel cui ambito si colloca anche – come parte integrante dell’intero e unico processo produttivo – l’attività preliminare ed essenziale di scarifica, con conseguente formazione del residuo- produttivo fresato.
In altri termini, il legislatore (comunitario e nazionale) si è limitato a prescrivere che i sottoprodotti traggano origine “da un processo di produzione”, senza specificare alcunché in merito a quale debba esserel’oggetto dell’attività produttiva.
Ne deriva, sul piano logico e giuridico, che essa potrà consistere tanto nella produzione di beni che nella “produzione di servizi”.
E, del resto, la giurisprudenza della Cassazione, deputata per legge, ad assicurare l’uniforme interpretazione del “diritto oggettivo….” (secondo l’Ordinamento giudiziario), ha già sgombrato ogni dubbio in proposito, affermando testualmente, sul punto, che “… il processo che origina il sottoprodotto non debba essere necessariamente un “processo industriale” (come era testualmente prescritto, invece, dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, comma 1, lett. n), nella formulazione originaria) e possa essere, quindi, anche di produzione di un servizio”[25].
Ma v’è di più: l’attività di manutenzione stradale, laddove occorra sostituire superfici ormai logorate da elevati volumi di traffico, ecc., si “realizza”, in concreto – come già sottolineato – in due operazioni inscindibili: di preventiva rimozione di materiale (che genera il fresato) e di successiva produzione di un nuovo strato di pavimentazione, utilizzando fresato d’asfalto proprio od altrui (del terzo).
Nell’un caso o nell’altro il fresato resta sottoprodotto, fin dall’origine, anche se proviene da ditta terza, in quanto, una volta generato, non viene “disfatto” (anche qualora sia consegnato ad altra ditta) e non necessità di operazioni di recupero, per il suo riutilizzo, da parte del produttore o del terzo (v. oltre, par. 6.3. e 6.3.1.).
In definitiva, la c.d. manutenzione stradale – e cioè il “complesso di operazioni necessarie a conservare la conveniente funzionalità ed efficienza[26]” delle strade – comprende e si realizza nell’unitaria attività “produttiva” (della nuova superficie bituminosa) consistente nella scarifica/fresatura (con rimozione)della precedente pavimentazione e realizzazione della nuova.
In tale approccio, può correttamente affermarsi che il fresato d’asfalto deve essere qualificato come un residuo scaturente non tanto dall’erogazione di un “servizio” (anche se tale origine, come sottolineato, non esclude la nozione di sottoprodotto), ma da un unitario ed articolato processo di produzione (come perspicuamente affermato dal TAR Lombardia cit.). Né vanno confusi sul piano tipologico – delle diverse attività industriale – i compiti tipici ed esclusivi delle imprese di demolizione con quelli diversi e propri delle società che svolgono lavori di costruzione e manutenzione delle strade in cui si inserisce, specificamente, anche l’attività di scarifica,funzionale alla ricostruzione o manutenzione del manto stradale. [27]
Pertanto non è corretto, sul piano tecnico,isolare la singola operazione di fresatura – al di fuori delle più complesse attività di realizzazione delle strade o delle pavimentazioni stradali nel cui ambito essa si pone (e va posta) – per attribuirle poi, sul piano giuridico, la diversa definizione di “attività di demolizione”. Con la finalità specifica (dichiarata o implicita) di qualificare poi i residui che derivano dalla “fresatura” come “rifiuti da demolizione”.
Senza dire, infine, come è stato già rilevato, che l’impresa – la quale compie la scarifica della strada nella ipotesi formulata – intende, prima ancora della sua formazione, utilizzare il fresato per ricavarne un vantaggio cioè per produrre direttamente o indirettamente (tramite terzi) ulteriore conglomerato bituminoso (risparmiando sui costi della “materia prima primaria” sostituita dal fresato). Tale sua volontà è inconciliabile con il “disfarsi”, anche quando il fresato viene ceduto ad altri.
In conclusione, non può dubitarsi che il fresato, diversamente da quanto affermato dal ricorso provinciale, viene generato nel processo produttivo principale (di rifacimento/manutenzione del manto stradale) e di detto processo fa parte integrante e ineludibile (la rimozione del vecchio manto stradale precede, necessariamente, la sua ricostruzione)[28] anche se non ne costituisce lo “scopo primario”.
6.1.1. Il fresato come rifiuto da demolizione: esclusione
Non si condivide, conseguentemente, la lettura prospettata, in via dubitativa, da un’attenta dottrina[29], secondo la quale “…. sarebbe piuttosto da chiedersi se, nell’individuazione del processo di produzione, non si debba invece fare riferimento alla stessa attività che genera il fresato, e quindi all’attività di scarifica del manto stradale che, in quanto attività di disfacimento del manto stradale, costituisce un’attività di demolizione finalizzata non a “produrre” qualcosa, ma a “togliere” qualcosa, circostanza, quest’ultima, che ratione materiae, escluderebbe che si sia in presenza di un processo di produzione ai sensi dell’art. 184bis.. “.
Appare evidente, infatti, per quanto appena esposto, la forzatura logico-giuridica implicita nell’isolare una singola operazione (di scarifica delle strade e rimozione) allo scopo di qualificare il fresato come materiale di demolizione, senza dare alcun senso, e comunque trascurando, la più complessa attività di impresa (in cui la “scarifica” va collocata e si inerisce funzionalmente) che si connota, invece, per la specifica finalità di produrre beni o servizi (fabbricazione/manutenzione delle strade, con formazione del fresato e riutilizzo del medesimo presso il processo produttivo di provenienza o presso terzi).
D’altronde, la stessa dottrina sembra voler abbandonare tale congettura – proprio con riferimento ai rifiuti di demolizione (in cui, si ripete, non rientra il fresato riutilizzato) – quando prospetta una ricostruzione della vicenda, opposta a quella sopra riportata, evocando una specifica fattispecie fatta oggetto di un noto precedente della CGCE, nei seguenti termini:
“ ….. appare comunque necessario ipotizzare un caso in cui il fresato di asfalto non debba essere qualificato come rifiuto. Infatti, già solo in base alla definizione di rifiuto di cui all’art. 183, comma 1, lett. a), Dlgs n. 152/2006, la nozione di rifiuto dovrà intendersi non applicabile qualora un’attività di demolizione sia deliberatamente finalizzata all’ottenimento di materiali ricercati in relazione ai quali il detentore non esplica, in nessuna delle fasi di gestione, un’attività di disfarsi (Cfr. Corte di giustizia C235/ 02 Saetti (2004), punto 45).” [30]
Si è osservato, altresì, che, anche ad ammettere che il processo di produzione sia unitario e vada ricondotto al “… processo di ricostruzione del manto stradale individuando conseguentemente nella strada asfaltata il prodotto principale (di cui il fresato sarebbe il sottoprodotto)”, non si configurerebbe la “contestualità” nella produzione del prodotto principale unitamente al sottoprodotto e, addirittura. il primo (bene primario) sarebbe successivo al secondo [31].
L’argomento, ancorché suggestivo, non convince sul piano giuridico (tanto da essere totalmente trascurato dal TAR Lombardia e dal Consiglio di Stato che pure erano avvertiti che il terzo produttore del conglomerato bituminoso interveniva in un momento successivo (e non contestuale, come si vorrebbe) a quello d formazione del fresato.
Le ragioni del nostro dissenso sono le seguenti:
1) la direttiva comunitaria e nazionale, nel porre le condizioni di esistenza del sottoprodotto, richiede che esso sia “originato da un processo di produzione” e costituisca “parte integrante dello stesso”. Il che significa che per il diritto positivo dell’U.E. non si pone alcun vincolo cronologico o tecnologico – di contestualità nella produzione ovvero di “prima e di poi” nella generazione dell’uno o dell’altro – sempre che sia (come nel caso)a) unitario “il processo di produzione” e ricorra b) il nesso che lega il sottoprodotto alla produzione (“di cui esso è “parte integrante”: nella specie “il processo di ricostruzione del manto stradale”, come ipotizza, in subordine, lo stesso A.);
2) secondo i noti principi interpretativi della norma giuridica e nel rispetto del canone del dato letterale (ex art. 12 Preleggi: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole”), appare doveroso rilevare che nell’art. 184-bis non si rintracciano i presupposti fattuali e costitutivi della contestualità della produzione (del prodotto e del sottoprodotto) né alcun riferimento a un “prima e a un dopo”. Pertanto, negare la qualifica, in oggetto, per circostanze fattuali non espresse (e dunque non imposte)dalla norma (ricacciando il sottoprodotto nella categoria del rifiuto, con conseguenze economiche e giuridiche – anche di rilevanza penale…. ), ci sembra una operazione azzardata;
3) alle stesse conclusioni induce una corretta lettura dell’art 5 della direttiva (oltre che della norma di trasposizione italiana), conforme al criterio interpretativo (espressivo del canone precedente), esposto dal noto brocardo: Ubi lex voluit dixit, ubi noluit, tacuit. Ebbene, come si rilevava, sopra, anche la norma cit. non pretende – nelle sue “condizioni” – alcuna contestualità né vieta una nascita del sottoprodotto prima del prodotto primario, nel caso in cui il residuo de quo origini da una fase anteriore, purché: a) ricompresa nell’ unitario processo produttivo e b) costituente parte integrante di detto processo (come non dubitano i giudici di primo e secondo grado citt.). Se il legislatore nulla dice sulla “contestualità” vuol significare che non l’ha voluta né tanto meno imposta!;
4) ai fini, poi, della sussistenza delle altre condizioni codificate, il fatto che manchi la “contestualità “ (cioè che il fresato sia generato prima del nuovo conglomerato bituminoso) non riveste alcuna incidenza negativa sui presupposti (lett. a/d) dell’art. 184-ter e, in specie, sulla “legalità dell’ulteriore utilizzo” e sugli “impatti complessivi sull’ambente e la salute” (ex lett. d). Sicché, in assenza di una previsione espressa, non si comprende la necessità di aggiungere – in via interpretativa – la prospettata “condizione” (della contestualità) neppure sul piano sostanzialedi protezione della salute pubblica e della materici ambientali. Tant’è che, a parità di processo produttivo del fresato, quando esso viene riutilizzato nello stesso processo produttivo di provenienza, in loco, per produrre altro conglomerato bituminoso, si è frequentemente riconosciuta la qualifica di sottoprodotto, senza alcuna perplessità sul fatto che il fresato “nascesse” prima del nuovo c. b.;
5) è ben vero che la Commissione UE prospetta un “collegamento diretto “ del sottoprodotto “al processo produttivo del prodotto principale”. Ma, una volta riconosciuto tale collegamento diretto (fase di scarifica funzionale, coessenziale oltre che interna al processo tecnologico di produzione di nuovo manto stradale: v. retro), devesi ribadire che né la Commissione né – soprattutto – l’art. 5 della direttiva cit. (e l’art. 184-bis) impongono, come costitutiva della nuova categoria di sottoprodotto, la ulteriore condizione della “contestualità “.
6.1.2. Sulla presunta necessità di “condizioni” aggiuntive
Non sembra, da ultimo, ricevibile la successiva prospettazione secondo cui, se abbiamo ben inteso, il fresato dovrebbe essere sottoposto, per ottenere la qualifica di sottoprodotto, alle seguenti ulteriori condizioni:
“…. Appare dunque ragionevole escludere dal novero dei rifiutiil fresato utilizzato per il rifacimento degli strati di pavimentazione realizzati con miscele bituminose (assenza di catrame), qualora tale riutilizzo del materiale deliberatamente fresato avvenga 1)contestualmente alle operazioni di fresatura e 2)nello stesso sito oggetto delle operazioni stesse che comportano la produzione del predetto fresato 3)senza deposito o stoccaggio) e sempreché il fresato utilizzato sia 4) conforme alle norme ed alle specifiche prestazionali che ne regolamentano l’impiego” [32].
In estrema sintesi, del brano appena riprodotto, si condivide la giusta sottolineatura della idoneità costitutiva della volontà del produttore/detentore a definire un materiale – come sottoprodotto o come rifiuto – in termini di “disfarsi” o meno di esso, secondo la sentenza della CGCE (Saetti) cit. – e i requisiti di cui alla quarta condizione.
Sulla necessità, invece, della ricorrenza delle prime tre condizioni (la cui numerazione è nostra e non del testo) – non possiamo convenire perché, come si rileva di seguito, esse non sono in alcun modo richieste dall’art. 184-bis (se correttamente inteso) anche se postulate, senza alcun approfondimento, dalle due sentenze in esame.
6.2 L’utilizzo certo del fresato; nello stesso processo produttivo di provenienza; nella sua interezza e in loco: insussistenza delle ultime tre “condizioni”
1. Nel momento in cui la lett. b) dell’art. 184-bis dispone che “ è certo che la sostanza o l’oggetto siano utilizzati nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte del produttore o di terzi”, risultano superate (illegittime) – e dunque vietate – in base al dato normativo (e non solo interpretativo), tutte quelle prescrizioni, applicazioni e prassi amministrative che imponevano (e impongono) alle imprese di utilizzare il fresato-sottoprodotto solo 1.all’interno del processo produttivo di provenienza, 2.nello stesso sito di sua produzione, magari, 3.contestualmente alle operazioni di fresatura, e 4. integralmente, al fine di riconoscere a questo residuo produttivo, la qualifica di sottoprodotto (v. retro par. 2).
Tali condizioni, ove mai previste anche in sede di regolamentazione locale, provvedimentale e/o contrattuale si pongono, infatti, in rotta di collisione con l’odierno diritto, interno e comunitario, che – si ribadisce – prevede e consente che il residuo-sottoprodotto sia utilizzato anche in un distinto/diverso (rispetto a quello di provenienza) e successivo (anche in senso cronologico)processo produttivo e, dunque in un eventuale altro luogo (quello del terzo), e non contestualmente (alla sua formazione: tenuto conto del tempo necessario a trasferire il sottoprodotto [per es. il fresato] dal luogo di produzione al luogo del reimpiego) oltre che da produttori diversi (“utilizzazione da parte del ….terzo”[33]).
2. D’altronde, anche il tenore testuale della direttiva comunitaria del 2008 (v. lett. a) comma 1, dell’art. 5), nella sua asciuttezza lessicale, non lascia adito a dubbi: “è certo che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzato”.
E’ di tutta evidenza inferire da tale formulazione, che:
a) non viene specificato (e quindi imposto) chi debba essere l’utilizzatore (e pertanto esso potrà assumere, di volta in volta, del tutto legittimamente, la veste del produttore iniziale del fresato o quella del terzo – utilizzatore (non produttore), come ribadito dalla più recente giurisprudenza;
b) l’avverbio “ulteriormente”, con significato di “fase” tecnologica e cronologica necessariamente successiva di utilizzazione, autorizza l’interprete ad affermare che l’impiego del fresato seguirà, nel tempo, la sua produzione. Soprattutto in considerazione del fatto che, nell’ipotesi in cui il fresato sia destinato al terzo (produttore interno o comunitario…. di conglomerato bituminoso, nell’ambito del mercato unico integrato dell’U.E.), esso dovrà essere movimentato, nel territorio nazionale, nell’U.E. o nei paesi terzi e, dunque, dapprima a) depositato presso il produttore, poi b) trasportato nella sede del destinatario, e nuovamente c) stoccato, presso l’impressa terza, prima di essere lavorato (per produrre nuovo conglomerato), come qualsiasi altro prodotto![34].
Non ha, quindi, alcun supporto – logico, tecnico e giuridico – in mancanza di una prescrizione espressa ad hoc –[35] il presunto obbligo di “immediatezza” o contestualità fra produzione e utilizzo del fresato, come si legge nelle sentenze commentate.
Osserva il Consiglio di Stato, in proposito, che “… deve ritenersi corretto il metodo di verifica utilizzato dal TAR che ha tenuto conto che ……(il fresato) venisse riutilizzato in tempi ravvicinati(quotidianamente rispetto al prelievo), senza particolari operazioni di stoccaggio …” Non solo tale prescrizione potrebbe essere tecnicamente diretta al solo caso del produttore e contestuale utilizzatore del proprio fresato – dato che la pretesa contestualità cronologica non sarebbe nemmeno immaginabileper la ditta terza che riceva da altri (e da altro luogo) detto prodotto….. Ma, anche nell’ipotesi del produttore/utilizzatore del proprio fresato (e non è il caso della sentenza in commento), la legge non prevede affatto tale contestualità/quotidianità rispetto al prelievo.
La direttiva cit. si limite a imporre che “ è certo che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzato” in un momento successivo (il verbo “essere” è coniugato al futuro..), senza aggiungere altri termini limitanti: “immediatamente” o “senza indugio”, ecc. (come avrebbe dovuto fare ove fosse questa la sua specifica volontà).
Parimenti, la norma italiana detta: “E’ certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzata nel corso o di un successivo processo di produzione … o di utilizzazione….”. Sia che il fresato venga impiegato all’interno del processo di produzione di provenienza sia che “sarà utilizzato” da una ditta terza, in altro luogo (v. sopra), non sussiste alcuna prescrizione espressa o implicita che imponga l’immediatezza o, peggio, la ”quotidianità”…(?) fra produzione e utilizzo del fresato.[36] Ciò che rileva giuridicamente è la certezza del riutilizzo; mentre il passare di un tempo eccessivo e/o non tecnicamente giustificato/bile si configura semmai solo come “indizio” o “presunzione” di una (diversa) volontà contraria (di abbandono).
Ci sia permesso un ultimo richiamo:
c) merita porre molta attenzione sulla rilevanza e gravità di introdurre , in via interpretativa (giurisprudenziale o dottrinale), tale obbligo (dell’immediato riutilizzo) come nuova e ulteriore “condizione” da cui far dipendere la qualifica di “sottoprodotto” del fresato, non prevista dalla legge (interna e dell’U.E.).
Ove, infatti, si consolidasse l’opinione sulla necessità di questo requisito, esso diventerebbe non solo decisivo per la disciplina amministrativa del fresato (come sottoprodotto o rifiuto) ma assumerebbe una rilevanza dirimente anche ai fini della repressione penale…. Ed invero, il fresato non immediatamente utilizzato dal produttore o dal terzo – pur rispettando le quattro condizioni dell’art. 184-bis – ricadrebbe, secondo la lettura confutata, …. nel regime dei rifiuti e sarebbe sanzionato penalmente, in barba al principio di tassatività e determinatezza della norma incriminatrice, in quanto rifiuto asseritamente gestito (trasportato, stoccato e utilizzato) senza le prescritte autorizzazioni (si ripete: non dovute per il sottoprodotto)!
La verità sottesa a tale supposta ”condizione” – come desumibile dalla prassi – è un’altra. Sia la P.A. e che gli organi di controllo suppongono… che il fresato (come qualsiasi altra sostanza) – ove venga per lungo tempo depositato, stoccato o raccolto in modo tecnicamente inidoneo – riveli, de facto, una chiara volontà, da parte del produttore o del terzo, di non avere alcuna intenzione di riutilizzarla effettivamente. E che, in questi casi, la qualifica assegnata a detto materiale (dagli operatori interessati) sia strumentalmente adottata per sottrarsi al più oneroso regime dei rifiuti. Insomma, il ritardo nel riutilizzo del fresato ovvero un suo deposito improprio o duraturo viene letto – alcune volte correttamente altre aprioristicamente o per eccesso di prudenza (per es.nel caso della immediatezza/ quotidianità) – come una atteggiamento fraudolento o elusivo della legislazione ambientale.
Diversamente, e in una battuta: ciò che conta appurare è la certezza del riutilizzo, non la sua immediatezza/contestualità (rispetto alla produzione del sottoprodotto). Ovviamente, oltre una certa misura, anche il tempo (come altre circostanze fattuali) può essere considerato come indizio di una volontà incompatibile con il (solo) “dichiarato” riutilizzo.
Era, appunto, questa, a nostro avviso, la “preoccupazione” della provincia di Monza, peraltro censurata dal TAR lombardo, il quale, pur ammettendo il riutilizzo del fresato presso terzi (e dunque in un momento successivo alla sua produzione) ne pretende comunque una disponibilità (deposito) tale da soddisfare “…l’operatività giornaliera e continua dell’impianto”, in questi termini: “3.2…..Così posta la questione, e alla stregua del criterio di distinzione individuato da parte della giurisprudenza, ritiene il Collegio che – poiché, secondo le dichiarazioni del legale rappresentante della società ricorrente, ribadite nella conferenza di servizio, l’impianto di betonaggio e asfalto della ditta Doneda, oggetto di autorizzazione, prevede l’impiego di fresato d’asfalto come sottoprodotto, ossia in quantità tale da poter essere trattato e smaltito all’interno del ciclo produttivo per soddisfare l’operatività giornaliera e continua dell’impianto e non in funzione di centro di stoccaggio a tempo indefinito di tale materiale (ciò che renderebbe l’impianto, a tutti gli effetti, una discarica, e comunque lo renderebbe strumentale a quest’ultima) – il progetto in questione avrebbe dovuto essere approvato senza alcuna condizione, salvo quella relativa al rapporto tra stoccaggio e quantità trattata e reimpiegata nel ciclo produttivo”.
Come si desume da questo passo della motivazione, il deposito del sottoprodotto viene ritenuto legittimo in quanto idoneo a soddisfare le esigenze continue e giornaliere dell’impianto del terzo utilizzatore; mentre, se fosse risultato “un centro di stoccaggio a tempo indefinito”, sarebbe da qualificare discarica.
L’esito del ragionamento, appena riportato, è corretto, in linea di principio (anche se approssimative), in quanto se il fresato fosse stato raccolto in un impianto di stoccaggio a tempo indeterminato, tale circostanza avrebbe rivelato una volontà dell’utilizzatore(la ditta Doneda) incompatibile e contraria alla “.. certezza che la sostanza sarà utilizzata nel corso di un successivo processo di produzione“. Lo stoccaggio “indefinito”, infatti, ovvero un deposito del fresato per un tempo “incerto” e dunque “indeterminato” farebbe venir meno o comunque dimostrerebbe, per fatti concludenti, una volontà di “abbandono” che contraddirebbe le dichiarazioni dell’utilizzatore (e quindi escluderebbe “la certezza” dell’effettivo riutilizzo del sottoprodotto).
Ma, se tali argomenti risultano condivisibili sul piano logico-deduttivo (che dal comportamento dell’utilizzatore procede alla ricostruzione della sua volontà), essi non giustificano affatto un’affermazione rigida o di principio secondo cui non c’è sottoprodotto ove il fresato non venga utilizzato (si presume: una volta messo a diposizione dell’utilizzatore) “immediatamente” o “quotidianamente rispetto al prelievo… senza particolari operazioni di stoccaggio” (come ripete genericamente il giudice d’appello), per quanto detto sopra a proposito dell’immediatezza.
d) La realtà delle prassi industriali conosce delle situazioni intermedie che giustificano dei depositi di fresato (prodotto da terzi) in quantità anche più consistenti “…del fabbisogno giornaliero e continuo” (dell’utilizzatore). Depositi che, in ragioni delle caratteristiche e della funzione svolta – ben oltre i fabbisogni contingenti – non sono in alcun modo qualificabili come “centri di stoccaggio a tempo indefinito” (e non potrebbe essere diversamente, per ragioni connesse alla necessità di non interrompere le lavorazioni, una volta esaurita la quantità necessaria al fabbisogno “quotidiano”…).
In conclusione:
– la volontà del produttore/utilizzatore del residuo-sottoprodotto è condizionata e dimostrata da un utilizzo certo;
– tale certezza va correlata e desunta anche da situazioni relative al regolare deposito (nel caso, di fresato), secondo modalità e in base ad archi temporali tecnologicamente ragionevoli e comunque giustificati (e giustificabili);
– per ragioni di certezza e uniformità di comportamento, i termini del deposito del sottoprodotto potrebbero essere anche predeterminati, settore per settore, da ragionevoli prescrizioni ad hoc. [37]
A conferma delle precedenti conclusioni, si veda l’importante brano della motivazione del TAR cit., dove, una volta respinta la tesi del riutilizzo del fresato nel luogo di produzione, si ritorna sul tema del deposito regolare del fresato rispetto al suo abbandono: ““3.3.) Né appare necessario al Collegio, come ritiene l’amministrazione provinciale, che ai fini della qualifica del fresato come sottoprodotto,il riutilizzo debba avvenire, per volontà della norma, nello stesso sito di produzione del rifiuto e sotto la direzione del medesimo imprenditore, posto che il fatto che il materiale fresato rimanga nel luogo di produzione, nelle vicinanze od in altro luogo non costituisce di per sé elemento univoco per qualificarlo come rifiutodovendo ciò desumersi, invece, dalle modalità del deposito, dalla sua durata o da altre circostanze che evidenzino con certezza una situazione di abbandono (nella quale rientra lo stoccaggio del materiale in attesa di un futuro reimpiego)”. [38]
e) Da ultimo, la norma comunitaria ed interna non specificano – e dunque non impongono – che il fresato-sottoprodotto, per rimanere tale, debba essere integralmente utilizzato (dal produttore o dal terzo). Il che significa che, per le ragioni più diverse (tecnologiche, di mercato, di personale, di viabilità, ecc.), il produttore del fresato può decidere di utilizzarne una parte come sottoprodotto, ed altra parte destinarla allo smaltimento o al recupero, come rifiuto (assoggettandosi ovviamente alla relativa disciplina). Si pensi al caso in cui, per mutate situazioni di mercato o contrattuali, ecc. (sopravvenute e/o imprevedibili), non si riescano a rispettare alcune delle “condizioni” dell’art. 184-bis (per es. si perdano le occasioni di un riutilizzo integrale già programmato e/o concordato, per i motivi accennati). [39]
Né può stupire che lo stessa sostanza (il fresato) possa assumere la doppia qualifica indicata perché, come è noto, ogni prodotto, materia prima o bene si trasforma in rifiuto se il suo detentore se ne disfi, per es. smaltendolo, abbandonandolo, ecc.
f) Sul piano sistematico è appena il caso di aggiungere che la norma non contiene alcuna prescrizione espressa sui mezzi di provarichiesti al fine di tale dimostrazione (sull’utilizzo del fresato) sicché appare corretto affermare che, nella vicenda del sottoprodotto, vige il principio della libertà di prova (che potrà essere, dunque, scritta-documentale, prova storica, prova logico-indiziaria, ecc.) purché si forniscano (alla P.A. e/o in sede giudiziaria) elementi sicuri dai cui desumere l’effettivo riutilizzo [40].
Tornando al caso deciso, secondo i giudici amministrativi la circostanza che l’utilizzo (certo) del fresato avvenisse, non ad opera della stessa ditta che svolgeva gli interventi di fresatura, ma per intervento di altro soggetto gestore dell’impianto (di betonaggio), dove il fresato in precedenza prodotto era destinato al ciclo produttivo di realizzazione di conglomerati bituminosi, non poteva considerarsi preclusiva per la sua qualifica di sottoprodotto.
6.3 L’utilizzo diretto del fresato senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla “normale pratica industriale”
Un ulteriore “indice” (e condizione) per il riconoscimento della qualifica di sottoprodotto del fresato è stato ravvisato, dalla sentenza d’appello, nella circostanza che il residuo della scarifica non era stato fatto oggetto di interventi di trattamento prima di (e per) essere impiegato nel ciclo produttivo del terzo per la produzione del conglomerato bituminoso.
Si legge infatti nella motivazione:
– dapprima, in via generale (nel capo 11), che il fresato può essere considerato “alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione;
– e, successivamente (nel capo 14), con riferimento alla specifica fattispecie in esame, che il fresato non veniva sottoposta “ad un processo di trasformazione”.
Ebbene, in entrambe le affermazioni richiamate (di assoluta preclusione di ogni operazioni di trattamento) si annida la più rilevante “svista” della pronuncia in esame.
Quel Collegio, infatti, sembra non aver tenuto conto dell’attuale parametro dell’utilizzo diretto(del sottoprodotto) – delineato dall’art. 184 bis, comma 1, lett. b del T.U.A. – che non significa né comporta, come risaputo, divieto assoluto di alcun trattamento preventivo del residuo produttivo, prima del suo reimpiego, al fine di guadagnare la definizione di sottoprodotto.
E’ ben vero (così come in passato) che il sottoprodotto deve (e può) essere impiegato – di regola – “direttamente” (il che vuol dire: senza trasformazioni preliminari[41] e non già “direttamente dal produttore”). Ma, a differenza di quanto previsto dalla pre-vigente lett. p), comma 1, dell’art. 183 (abrogato) e, in conformità all’insegnamento della CGCE, sono espressamente consentiti, ex novo, quei trattamenti propri della “normale pratica industriale”.
Il carattere “innovativo” della “condizione” risiede non tanto nell’aver superato/abbandonato la terminologia usata in precedenza per differenziare i trattamenti ammessi e quelli vietati[42]; ma, piuttosto, nell’introdurre, per la prima volta, un concetto tecnico (merceologico) – con rilevante incidenza giuridica (anche ai fini penali) – la c.d. “normale pratica industriale”- quale parametro definitorio e limitativo degli interventi consentiti sul sottoprodotto[43], sia in ragione: 1) del tipo di incidenza di tali operazioni/trasformazioni sul “residuo produttivo”, sia: 2) in funzione del “ruolo” svolto da esso che, di volta in volta, potrà essere “utilizzato”come materia prima o semilavorato o prodotto finito (v. oltre), in sostituzione della materia prima primaria o del semilavorato o del prodotto finito (derivanti dalla materia prima) sia, infine: 3) dello scopo dei trattamenti e della fase in cui si devono realizzare (preventiva al successivo utilizzo: v. par. 6.3.1.).[44]
6.3.1. Soggetti, tempi e finalità della “normale pratica”
Su noti quanto consolidati indirizzi interpretativi della Commissione UE [45] – come nella giurisprudenza comunitaria e nazionale in argomento[46] – prestando altresì attenzione alla dottrina più accorta [47] – si può, in prima battuta, osservare che, con la locuzione “normale pratica industriale”, si faccia generalmente riferimento al complesso di quelle fasi di trattamento e/o lavorazione che, in via ordinaria, o meglio, secondo una prassi tecnico-produttiva consolidata, sono svolte anche sulle materie/sostanze che vengono sostituite dal sottoprodotto.
In particolare, viene diffusamente prospettato che detti trattamenti (consentiti)sarebbero da identificare in tutti quelli (praticati secondo le prassi industriali) che interessano la materia prima, di volta in volta, “rimpiazzata” dal sottoprodotto.
Se il vigente parametro dell’utilizzo “diretto” del sottoprodotto, debba essere così inteso, appare evidente l’imprecisione in cui è incorsa la pronuncia del Consiglio di Stato, in commento, che fa riferimento al divieto assoluto di interventi di trattamento sul fresatoanziché evidenziare che detti trattamenti sono ammessi purché rientrino nella normale pratica industriale.
Peraltro, dalla lettura della motivazione, non pare sfuggire a quel Collegio che, ai sensi dell’art. 184-bis, sono permessi quei trattamenti che risultino conformi alla “n. p. i.” – come si desume dalla citazione di detto articolo, per esteso, nel capo 12 della decisione (anche se poi l’argomento non viene ripreso né approfondito, in ragione verosimilmente del contenuto dei motivi di impugnazione della Provincia cit.). In questa occasione ci sembra sufficiente specificare, allontanandoci criticamente dagli orientamenti ermeneutici prevalenti, i seguenti e riassuntivi profili salienti:
1) Con riferimento ai soggetti abilitati a intervenire sul sottoprodotto, si è ormai concordi nel riconoscere – sulla base di un dato testuale inconfutabile[48] – che sia il produttore/utilizzatore diretto del sottoprodotto che il terzo, esclusivo utilizzatore, possono realizzare operazioni di trattamento sul sottoprodotto, ovviamente in tempi diversi e in luoghi diversi, anche se per finalità comuni (di utilizzazione successiva e ulteriore del residuo-sottoprodotto)[49].
2) In ordine alla fase temporale in cui devono essere collocati i trattamenti, essa va individuata – e ristretta – ad un periodo che decorre dal momento immediatamente successivo alla produzione del sottoprodotto (residuo decadente dal processo di produzione rivolto a perseguire un diverso “scopo primario”) sino al momento (posteriore ma) immediatamente precedente il successivoe distinto ingresso nel processo di utilizzo[50] (“.. nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione”, ex art. 184-bis; v. p. 1).[51]
3) La vera finalità dei trattamenti del sottoprodotto – che, in linea di principio, deve già possedere, fin dal suo nascere, le caratteristiche merceologiche e ambientali del prodotto – consiste pertanto nel prepararlo alla sua nuova utilizzazione, come materia prima, semilavorato o prodotto (o nello stesso o in un diverso processo di produzione, anche del terzo, o di utilizzazione: per es. per produrre energia).
Il trattamento del sottoprodotto presuppone che il residuo abbia, fin dalla sua formazione, tutte le caratteristiche e la destinazione di legge, ex art. 5 (affatto distinte da quelle del rifiuto). Pertanto, la sua finalità, ricadente nella n. p. i,non è quella propria del “recupero del rifiuto” (volto a restituire al rifiuto determinate caratteristiche merceologiche e o ambientali che esso, per definizione, ha perso ovvero al suo “reimpiego” una volta che “i prodotti o le componenti di prodotto siano diventati rifiuti”: v. art. 3, punto 16 della direttiva); ma ha il distinto scopo di facilitare, funzionalizzare, rendere più vantaggioso il suo successivo utilizzo,come materia prima, semilavorato, prodotto finito. Si pensi alla macinazione, frantumazione, essiccazione, riduzione volumetrica, selezione granulometrica, stabilizzazione, ecc. volte al “miglioramento delle sue caratteristiche merceologiche” (già possedute) ovvero “per renderne l’utilizzo maggiormente produttivo” o infine “tecnicamente efficace” (per ripetere le parole del Reg. n. 161/2012, All.3, relativo all’utilizzo delle terre e rocce da scavo, come sottoprodotti). [52]
E, dunque, sia sul piano oggettivo (dei “trattamenti” necessari ed ammessi) che su quello funzionale (scopo degli interventi), le operazioni consentite devono rivestire l’unico obiettivo di rendere possibile e utile, tale impiego ulteriore (da parte dei soggetti indicati a p.1) e non quello di attribuire, per la prima volta, al residuo caratteristiche merceologiche o ambientali di cui esso deve essere già dotato, ex lege. [53]
4) In tal senso si ritengono ammesse, secondo “la normale pratica industriale” – cioè sono riconducibili ad essa – tutti quegli interventi che rendono meglio utilizzabile il sottoprodotto, implementandone o rendendone più efficienti le caratteristiche merceologiche (che esso già possiede) e/o produttive e/o tecniche per il suo impiego.
5) Sotto il profilo esaminato sub. 2/4, il pensiero della Commissione U.E. – ove riletto con attenzione – risulta univoco nel senso indicato sopra (v. Comunicazione del 2007, cit. par. 3.3.2.: “.. dopo la produzione” (fase temporale, sub 2) “ il materiale riutilizzabile può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari, o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo…” futuro (questa è appunto la vera finalità: v. p. 4). La stessa Commissione U.E., nella Guidance del 2012, cit. conferma le modalità, i tempi e le finalità dei trattamenti ammessi (funzionali ad una migliore utilizzazione del sottoprodotto: p. 4), introducendo un significativo parallelismo con la materia prima che, per essere meglio valorizzata, è anch’essa sottoposta a “trattamenti” prima di essere inserita (per la prima volta) nel processo produttivo – in questi termini: “….
D’altra parte, si deve considerare che anche le materie prime primarie solitamente richiedono qualche trattamento (some processing) prima di poter essere utilizzate in processi di produzione” (“On the other hand, it has to be considered that primary raw materials” (analogamente al sottoprodotto)” “usually also requiresome processing before they can be used in production processes “( sulla loro identificazione, v. pp. 7 e 8).
In una battuta, la Commissione U.E. non suggerisce né indica che i “trattamenti” ammessi suisottoprodotti vanno identificati in quelli che si compiono sulla materia prima sostituita dal sottoprodotto, come afferma la sentenza n. 17453/2012 della S.C. cit. (che riconduce nella la n. p. i. gli interventi sulla materia prima rimpiazzata); ma prospetta una analogia (o similitudine) del seguente tenore: come anche la materia prima richiede normalmente qualche trattamento prima di essere usata nel processo produttivo così – e analogamente – il sottoprodotto (può subire dei trattamenti preventivii: il che non vuole dire che i trattamenti, nell’un caso e nell’altro, siano – o debbano essere – identici.
6) Sotto altro profilo detti interventi, ex lett. c) comma 1, dell’art. 184-bis, non devono essere confusi o identificati con i trattamenti propri del processo produttivo in cui viene immesso il residuo produttivo (interventi a vastissimo spettro che non patiscono limiti né sono contemplati dalla lett. c) dell’art. 184-bis, e che incidono pertanto, modificandole, sulle identità delle singole componenti del processo produttivo, compreso il sottoprodotto) già precedentemente trattato o preparato (secondo le operazioni rientranti nella n. p. i. (v. p. 3), in un arco temporaleprecedente, individuato sopra sub n. 2).
In base ai criteri rassegnati – sul trattamento rientrante nella n. p. i. – si può affermare, in base alla prassi e a conoscenze tecniche più diffuse e acquisite, che le operazioni, cui di regola è sottoposto il fresato d’asfalto, secondo la “nomale pratica”, sono compiute dal produttore ovvero, sovente, da ditte terze, in forme preventive al riutilizzo, funzionali ad esso, e, comunque, non “recuperatorie” in quanto non destinate a conferire al fresato caratteristiche merceologiche o ambientali che esso già possiede, dopo la scarifica (v. retro).
Può essere utile ricordare, in proposito, che il fresato, destinato ad impianti di betonaggio, viene sottoposto a semplici interventi di riselezione e riduzione granulometrica prima di essere inserito nel successivo processo produttivo (ove si effettua, fra l’altro, la miscelazione di aggregati lapidei, leganti bituminosi ed eventuali attivanti chimici, con cui viene formato il nuovo prodotto: sempre conglomerato bituminoso). Tali operazioni vengono svolte senza l’aggiunta di additivi o sostanze chimiche, ma solo mediante strumenti (come il frantoio) che lasciano sostanzialmente inalterate le caratteristiche e proprietà originarie del fresato (che vede mutata solo la sua dimensione fisica o taglia (in inglese “size”). In altri termini, le operazioni cui è sottoposto il fresato, prima di essere inserito nel nuovo processo produttivo (dove viene “miscelato”) [54] con altri aggregati, per la produzione di nuovo conglomerato bituminoso, non sono idonee a modificarne la relativa identità chimico-merceologica – anche secondo i precedenti criteri di classificazione – ma individuano interventi che, riducendo la granulometria del fresato, lo rendono più facilmente trasportabile e utilizzabile nell’impasto occorrente al ciclo produttivo di destinazione[55]. Il fresato ( come altri residui produttivi di legno, metallo, plastica, carta, ecc. restano gli stessi nella loro identità, anche se, per le ragioni funzionali ricordate, subiscono delle trasformazioni: per es. fisiche).
6.3. 2. Riscontri giurisprudenziali favorevoli
Peraltro, le descritte operazioni di trattamento, effettuate sul fresato, ancor prima della codificazione formale della nozione di “normale pratica industriale” – come parametro indicativo delle operazioni ammesse sul sottoprodotto – sono state considerate lecite (cioè non ostative alla configurabilità dei residui come sottoprodotti) non solo dalle istituzioni comunitarie [56], sulla scorta delle pronunce della CGCE, ma anche dalla giurisprudenza nazionale.
La Cassazione penale italiana, negli ultimi anni, anche se in base ad indirizzi minoritari, ha fornito specifici esempi di trasformazioni o trattamenti che, di volta in volta, sono stati considerati compatibili con la categoria giuridica del “sottoprodotto”. E ad essi occorre far riferimento per capire sul piano logico-giuridico – in termini di comparazione – se,, nell’ambito degli stessi, possano rientrare anche le operazioni di riselezione e riduzione granulometricacui è soggetto il fresato.
Esemplificando, è utile richiamare la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale, 7 novembre 2008, n. 41839, nella quale – partendo dall’evoluzione normativa dell’art. 183 cit. sino all’eliminazione (ad opera del d.lgs. 4/2008) nella sua ultima versione del concetto di “trasformazioni preliminari” e del riferimento alle operazioni di “cernita” e “selezione” nella definizione di recupero – si è affermato che la cernita e la selezione sono operazioni compatibili con la nozione di sottoprodotto. Tanto è predicabile, ha precisato la Corte, solo qualora dette operazioni non siano finalizzate a rendere successivamente utilizzabili la sostanza o il materiale nelle stesse condizioni di tutela ambientale . Ai fini del presente contributo, merita ricordare, altresì, la pronuncia della Corte di Cassazione, sez. III, penale, 6 novembre 2008, n. 41331 (con riferimento alle le terre e rocce da scavo) la quale ha fatto rientrare, tra le operazioni di trattamento preliminare ammesse, anche interventi di “frantumazione” e cioè operazioni che si spingono sino addirittura a modificare la composizione fisica dei sottoprodotti, senza incidere però sulla loro identità merceologica o di qualità ambientale.
Più di recente, la giurisprudenza amministrativa (TAR Piemonte, 25 settembre 2009, n. 2292) ha anche ammesso che “gli scarti legnosi dell’agricoltura e i residuati della lavorazione esclusivamente meccanica del legno – quali segature, tondelli, cortecce e cippato legnoso” – non sono rifiuti bensì sottoprodotti, con ciò escludendo che interventi simili a quelli menzionati possano essere considerati quali “trasformazioni preliminari”. Nello stesso senso, da ultimo, si sono pronunciate le due decisioni in commento, nonostante le approssimazioni segnalate.
In definitva, alla luce sia dell’attuale parametro dell’utilizzo “diretto” ex art. 184-bis, comma 1, lett. b) del T.U.A., che dei rassegnati precedenti giurisprudenziali (in linea con un orientamento conforme della Corte di Giustizia, recepito dalla stessa Commissione U.E., v. retro), può correttamente ammettersi – così come implicitamente riconosciuto dalla sentenza del TAR Lombardia n. 2182/2012 e dal Consiglio di Stato, in esame – che gli interventi operati sul residuo produttivo, derivante dalla fresatura d’asfalto sia da parte del produttore che dell’utilizzatore, rientrano nella “normale pratica industriale”.
Le conclusioni raggiunte non possono ritenersi scalfite da una importante decisione della S.C. – a cui gli studiosi hanno attribuito rilevante significato (si tratta di Cass. pen., sez. 3. n. 7374 del 24 febbraio 2012, Aloisio) – la quale esamina una fattispecie in cui l’impresa che scarificava il manto stradale utilizzava, essa stessa, il fresato per produrre nuovo conglomerato bituminoso (per il rifacimento delle strade). La Corte conferma la condanna del Tribunale di Termini Imerese, per attività di recupero (del rifiuto/fresato) senza autorizzazione, ravvisando la mancanza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 184-bis. Peraltro, ove si rilegga la motivazione con la dovuta attenzione, essa ci appare tanto scarna quanto inadeguata .[57] Quel Collegio nega la sussistenza del primo requisito (“.. che la sostanza o l’oggetto possa essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (comma 1, lett. c)) sulla considerazione che il fresato ( “richiedeva adeguate operazioni di recupero per poter essere usato per la produzione di ulteriore conglomerato bituminoso vergine e che erano necessarie ulteriori trasformazioni e trattamenti, tramite apposito impianto).
Ovviamente, ci si sarebbe dovuti aspettare che, in adempimento del dovere di motivazione, si specificassero quali fossero, in concreto, queste “trasformazioni e trattamenti” e in che cosa consistesse “l’apposito impianto”. Per due ovvie ragioni (di diritto): perché l’art. 184-bis considera legittimi – e dunque possibili – i “trattamenti non diversi dalla normale pratica industriale” e, pertanto la sentenza, dopo aver individuato a) i trattamenti applicati dal ricorrente, era tenuta, in punto di diritto, b) a spiegare perché essi, non potendo “rientrare nella normale pratica industriale”, dovevano considerarsi illeciti (id est vietati dall’art. 184-bis). [58]
Di più: non poteva sfuggire alla S.C. che, in altre pronunce, era stato ritenuto compatibile – con la nozione di sottoprodotto – l’attività di macinazione, triturazione, essiccazione ecc. (vedi, in proposito anche l’orientamento del Governo italiano con il recente D.M. 161/2012 sul recupero dei materiali da scavo cit.) e che la Commissione U.E. nel 2007 e nel 2012 (v. retro) aveva espressamente consentito sul sottoprodotto, in base alla lettura della giurisprudenza della CGCE e della normativa europea, attività di triturazione, macinazione, ecc.[59] anche con impianti meccanica, in quanto rientranti “nella normale pratica industriale”, ex art. 5 della direttiva 2008/98.[60]Quel Collegio sembra tanto poco sicuro degli argomenti esposti che, propone una subordinata (del tutto superflua ove fosse mancata effettivamente la condizione della non ricorrenza del trattamento rientrante nella n. p. i.), tanto da aggiungere, in chiusura: “… In ogni caso, anche qualora questo ulteriore trattamento non fosse diverso dalla normale pratica industriale, ritiene il Collegio che non sussiste comunque il requisito di cui alla lett. a), perché non si tratta di sostanza o di oggetto originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrale”.
Anche questa ultima proposizione esprime una asserzione (apodittica) non un motivazione (argomentata). Si è già sottolineato, retro (v. par.6.1.) – in senso opposto – che il fresato deriva da un processo di produzione industriale di beni o servizi, ex art. 2195, comma 1, n. 1, codice civile (fabbricazione di manti stradali o di manutenzione delle strade), in cui si inserisce, come operazione preliminare, la scarifica, la quale costituisce parte integrante del processo produttivo, anche se non ne rappresenta lo scopo primario (v., retro, par. 6.1.).
6.3.3. L’utilizzo legale del fresato, ex art. 184 bis, comma 1, lett. c)
L’ultimo requisito elencato dall’art. 184-bis, alla lett. d), prescrive che l’utilizzo del residuo produttivo sia “legale” e cioè avvenga:
(i) nel rispetto dei requisiti riguardanti i prodotti – ottenuti con l’utilizzo anche del sottoprodotto – e relativi alla protezione della salute e dell’ambiente, nonché:
(ii) in assenza di impatti complessivi negativi per l’ambiente e la salute umana
Anche di tali requisiti non troviamo alcun esplicito riferimento nelle due decisioni citt. Ma tale apparente omissione si giustifica perché sul punto “non è stata sollevata alcuna contestazione dalla difesa provinciale che, in entrambi i gradi, si è soffermata specificamente sui distinti motivi ricordati (inclusione del fresato nel D.M. 5/2/98 e nel CER; impossibilità di qualificarlo come residuo di un ciclo produttivo, ecc.). Può essere comunque utile evidenziare, per completezza dell’analisi, che, nella prassi corrente, in tutte le ipotesi in cui il fresato sia impiegato per la produzione di conglomerati bituminosi, il requisito della legalità del suo utilizzo si presenta come una “condizione” espressamente contemplata in normative tecniche di settore che tengono conto:
(a) dell’utilizzo specifico cui è destinato il fresato;
(b) della sua composizione chimico-fisica;
(c) delle sue caratteristiche e qualità, come si evincedalla normativa UNI EN 13108- 8 (per il “granulato conglomerato bituminoso” per la produzione di C. B. a caldo) la quale include il fresato fra i materiali che compongono (con altre sostanze) una specifica tipologia di C. B.; e UNI EN 13242, per uso nel settore dell’ingegneria civile – costruzione delle strade.[61]
In conclusione:
a) tale modalità di impiego risulta pienamente ammissibile, ai sensi dell’art. 184-bis, il quale si limita ad imporre che il sottoprodotto venga utilizzato “direttamente” in un dato ciclo di produzione, senza subire operazioni di trattamento diverse dalla “normale pratica industriale” prima del suo impiego (in tal senso si è visto come il trattamento di riduzione e selezione granulometrica, rientrano nella n. p. i.; v. par. 5.3.1);
b) né esiste alcun divieto – per il terzo utilizzatore – di usare il sottoprodotto come (“sostanza”) componente di una miscela (formata da altre sostanze, qualificabili “materie prime vergini” [in inglese: primary raw material] o, a loro volta, “sottoprodotti”) . L’art. 184-bis non contempla alcun divieto per l‘utilizzatore, di “combinare”, nel proprio ciclo produttivo, il sottoprodotto con altre sostanze al fine di produrre la tipologia di merce che intende ed è abilitata a realizzare, in quanto, si ripete (v. retro par.6.3.1.) i limiti ai trattamenti del residuo-sottoprodotto sono posti con riguardo alla fase di preparazione all’utilizzo (da parte del terzo o del produttore ovvero dell’intermediario) e non ai trattamenti del nuovo processo produttivo (di utilizzo). In tal senso la giurisprudenza, interna e comunitaria, ha avuto modo di chiarire la piena liceità dell’impiego di un sottoprodotto nel processo produttivo di destinazione, anche qualora tale impiego avvenga in miscelazione con altre sostanze/materie prime“[62];
c) l’operazione di miscelazione del fresatocon altre sostanze/materie prime non configura giuridicamente “un intervento di trattamento” (vietato) del sottoprodotto (sul presupposto che essa modificherebbe le originarie qualità ambientali e merceologiche del residuo-produttivo). Ciò perche detta operazione (di miscelazione) non precede ma segue l’utilizzo del sottoprodotto e costituisce – essa stessa – una fase essenziale del nuovo ciclo produttivo cui il residuo-sottoprodotto è destinato (per il quale non si applica la lett. c) dell’art. 184-bs). Nella specie, proprio la combinazione del fresato con atre sostanze (gli aggregati e i leganti), consente di dare origine, nel processo produttivo di destinazione,ad una specifica tipologia di “prodotto finito”;[63]
d) sotto tale ultimo profilo, sub c), l’inclusione (per miscelazione) del fresato stradale tra le “materie” occorrenti per la produzione di conglomerato bituminoso risulta espressamente prevista dalla citata norma UNI EN 13108-8, ecc., che individua, fra l’altro, le specifiche merceologiche (anche in termini di composizione chimico-fisica) che il conglomerato bituminoso deve rispettare per essere esitato sul mercato.[64]
e) quanto alla verifica della assenza di “impatti complessivi negativi” derivanti dall’impiego del fresato nel processo produttivo del conglomerato, va segnalato che quest’ultima condizione sarà accertata: (1) sia comparando gli impatti derivanti da un ciclo produttivo, che non prevede l’impiego del fresato stradale per la produzione di C. B. con gli impatti di un ciclo nel quale questi ultimi siano presenti; (2) sia confrontando gli impatti connessi all’utilizzo del conglomerato “finito”, composto anche da fresato, con quelli derivanti dal conglomerato privo di tale residuo produttivo.
In relazione alla prima indagine, si è rilevato, nelle imprese che rispettano le norme UNI EN citt. che l’impiego del fresato non era (ed è) in grado di determinare alcun peggioramento degli impatti ambientali (e sulla salute umana) derivanti dal processo di produzione aziendale seguito in assenza di detto residuo, tenuto conto che il fresato viene avviato al ciclo di produzione,come componente del C.B., solo qualora sia privo di sostanze estranee rispetto a quelle indicate dalla norma UNI EN 13108-08. Le modalità gestionali e di impiego del fresato, sono quindi tali da non richiedere l’attivazione di specifici impianti (diversi rispetto a quelli occorrenti per la produzione di C. B. senza fresato) in grado di produrre emissioni inquinanti. Basti segnalare che la riduzione granulometrica avviene a mezzo di strumentazione meccanica (il frantoio) e lo stoccaggio del sottoprodotto avviene su superfici impermeabili tali da non poter rilasciare eventuali inquinanti nei suoli.
In definitiva, l’impiego di fresato non “peggiora”, sotto alcun profilo, l’impatto ambientale prodotto dal singolo stabilimento. In ordine, invece, agli impatti derivanti dai conglomerati composti da fresato, va rammentato, una volta di più, che i conglomerati così realizzati presentano le stesse caratteristiche prestazionali del conglomerato prodotto in assenza di tale residui, e ciò è comprovato dalla citata Norma UNI EN 13108-08 che non opera alcuna distinzione di impiego per tale conglomerato rispetto a quello composto di sole materie vergini.
7. Conclusioni
Si intende chiudere la presente nota, esaminando altre due questioni da ultimo sollevate da un attento Autore in questi termini: preso atto che l’individuazione del sottoprodotto va effettuata caso per caso ed è soggetta alle incertezze connesse agli accertamenti degli enti di controllo non sarebbe più conveniente considerare il fresato come rifiutoe seguire la procedura della “cessazione della qualifica di rifiuto” ex art. 184-ter piuttosto che ricercare, con le difficoltà rilevate, la qualifica di sottoprodotto?[65] Tanto più che, osserva lo stesso A. la giurisprudenza è orientata nel senso della qualifica del fresato come rifiuto[66] sicché, “… allo scopo di superare l’attuale situazione di incertezza giuridica, che va a discapito degli operatori e degli enti di controllo, è da chiedersi se non sia auspicabile che il ministero dell’Ambiente individui le condizioni alle quali il conglomerato bituminoso di recupero cessi di essere un rifiuto speciale, ai sensi dell’art. 184ter.”
Gli interrogativi posti non sono di poco momento ma, prima di prendere posizione sulla proposta finale, occorre esaminarli partitamente.
1) Il rilievo secondo cui la classificazione di una sostanza come sottoprodotto è sempre soggetta ad una valutazione caso per caso, non sembra decisivo. Ogni classificazione di un residuo, scarto, ecc. come rifiuto o non rifiuto, come rifiuto speciale o pericoloso, come materia prima secondaria, ai sensi dell’art. 184-ter (a seguito dei previsti trattamenti di recupero) o ancora rifiuto (per omesso o non regolare trattamento adottato), è comunque e sempre oggetto di valutazione, caso per caso, e di controllo delle autorità competenti;
2) che “le incertezze” di queste ultime autorità si possano verificare, a fronte della qualifica di sottoprodotto, è un dato certo ma è altrettanto sicuro che esse si sono verificate (e si verificano) anche in sede di accertamento della esatta osservanza delle condizioni poste dai (complessi) decreti ministeriali adottati (e adottandi) in applicazione del comma 2, dell’art. 184-ter (EoW);
3) non sembra rispettoso dell’attuale sistema, insistere nel definire le norme sul sottoprodotto “di natura eccezionale e derogatoria” perché, come rilevato dalla dottrina più attenta, esse si pongono come norme primarie e di pari grado (o equivalenti) rispetto alle disposizioni sulla gestione dei rifiuti, nel rispetto dei criteri di precauzione, prevenzione, sostenibilità e di gerarchia dei rifiuti, ex art. 178 e 179 TUA, senza alcuna incidenza – né inversione – sull’onere della prova (la polizia giudiziaria e la pubblica accusa dovranno, rispettivamente, ricercare e indicare le fonti di prova da porre a fondamento della condotta di gestione di rifiuti, ex artt. 55 e 50 del codice di rito penale, e al produttore/detentore graverà l’onere di provare il contrario: la sussistenza dei presupposti dell’art. 184-bis). In definitiva, ove il P. M. contestasse una ipotesi di illecita gestione di rifiuti, rimarrebbe, comunque, a suo carico, provare la natura di rifiuto dei residui produttivi oggetto del reato contesto. E’ da escludere, cioè, che detta prova si risolva semplicemente con un argomento, a contrario, desunto dalla (accertata) incapacità dell’imputato di provare la natura di sottoprodotto della sostanza trattata (sulla scorta della c.d. inversione dell’onere della prova). [67]
4) “la maggiore certezza del diritto” si potrà ottenere, con gli stessi risultati positivi, non necessariamente invocando i provvedimenti di cui al comma 2 dell’art. 184-ter (decreti ministeriali in assenza dei “criteri comunitari”) ma, semmai i decreti del comma 2, dell’art. 184-bis sul sottoprodotto (come avvenuto, per es., per i materiali da scavo), con una rilevante differenza. Mentre i residui produttivi – che rivestono le caratteristiche del sottoprodotto e sono utilizzati nel rispetto delle quattro condizioni previste dal primo comma di quest’ultima norma – vanno qualificati e gestiti come prodotti (e non come rifiuti), anche in assenza dei regolamenti ministeriali (e per tutto il tempo in cui non siano ancora adottati), senza sobbarcarsi agli oneri amministrativi, burocratici e finanziari previsti per i rifiuti (v. retro, par. 2) – con il rischio di sanzioni penali in caso d inosservanza; non altrettanto può dirsi per la cessazione della qualifica del rifiuto che richiede, come è noto, l’adozione, per ciascuna tipologia di rifiuti, del decreto ministeriale. In definitiva non c’è una equivalenza o un possibile parallelismo fra le due disposizioni (sul sottoprodotto e la materia prima secondaria/E.O.W) in quanto l’art. 184-bis ha una immediata efficacia nell’ordinamento interno, sin dalla sua adozione nel 2010; mentre la norma successiva non è applicabile in assenza dei decreti attuativi;
5) senza contare che, accanto all’art. 184-ter, e al necessario regolamento attuativo (di cui al comma 2, dell’articolo), per poter svolgere le attività di recupero (EoW) sarà necessario sottoporsi ad una autorizzazione e alle sue specifiche prescrizioni (sempre penalmente sanzionate) con ulteriori aggravi burocratici (v. retro par. 2) – che risulta difficile immaginare in termini di maggiore tempestività – anche se essi vengono rappresentati e suggeriti in nome di più sicure “certezze” [68] . Con l’ulteriore specificazione che più che “prassi comune”, una volta che sia stato adottato dal Governo il regolamento attuativo di cui all’art. 184-ter, si rende ancor più necessario, ricorrere al regime autorizzatorio vuoi per assentire i trattamenti di recupero, ex art. 208 T.U.A. vuoi per individuare, nello specifico, le prescrizioni del regolamento da rispettare;
6) è ben vero che alcune decisioni della S.C. di Cassazione si sono espresse nel senso della natura di rifiuto (e non di sottoprodotto) del fresato d’asfalto ma, anche sotto questo profilo, occorre, innanzi tutto rilevare, che:
– molte di esse sono state redatte sulla base di una normativa diversa, anteriore e più severa rispetto alle nuove e più favorevoli condizioni di cui all’art. 184-bis;
– altre sono frutto di equivoci e quindi inattendibili nel merito, con riferimento agli argomenti addotti [69]; talune, invece, risultano di segno opposto. Si ricorda, in proposito, Cass. pen. sez. III, 10.03.2005, n. 9503 [70] e, per importanti affermazioni di principio, Cass. pen , sez. III, 16 dicembre 2003 – 29.10.2004, ric. Martinengo (senza dire del TAR Lombardia e del Consiglio di Stato in commento). [71]
In conclusione, si è pienamente d’accordo, nel richiedere più certezza nella definizione del fresato come sottoprodotto. E si condivide l’utilità di un regolamento governativo, che ci fornisca prescrizioni sicure. Ma perché invocare i decreti del comma 2, dell’art. 184-ter, che indicano la “cessazione della qualifica del fresato- rifiuto”, eludendo, in tal modo, tutti i problemi rassegnati sul fresato-sottoprodotto (a mio avviso sostanzialmente risolvibili) piuttosto che sollecitare, allo stesso fine (di acquisire certezze), i decreti ministeriali che fissino “.. i criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti”, ai sensi del comma 2, dell’art. 184-bis (tenuto altresì conto della vigente normativa tecnica citata retro)?
E, al fine di immettere sul mercato, in tempi ravvicinati, i 12 milioni di tonnellate di fresato – prodotte annualmente in Italia – e riutilizzate in percentuale minima (circa il 20%), proprio in base alla disciplina del recupero dei rifiuti…. – a fronte degli utilizzi assai più elevati degli altri Paesi europei [72] – perché non far ricorso all’art. 184-bis, del TUA, oggi vigente e immediatamente efficace, sin dalla sua introduzione, in attesa (quanto lunga….?) dei futuri decreti ministeriali di attuazione (considerando che l’artt. 184 ter, EoW, non è del pari efficace, senza i regolamenti del suo comma 2[73])?
Perché non puntare su una giurisprudenza di legittimità e di merito che siano più attente alle problematiche del sottoprodotto, nella prospettiva esaminata, e più sensibili agli indirizzi comunitari, per attingere a quelle “certezze” che invano pretendiamo da un legislatore sempre più tardivo e improvvisato o da una Amministrazione centrale che, nella normativa secondaria, ha mostrato spesso di non conoscere la materia che regolava e/o i confini della propria competenza (ovvero… il self-control)? [74].
29.01.2014
* A. Scialò ha curato la prima parte del lavoro (parr. 1-6); P. Giampietro la seconda (parr. 6.1 -7), con revisione e integrazioni dell’intera nota.
[1] Reperibile in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] Per una disamina delle modalità di origine, composizione e impiego del c.d. “fresato d’asfalto”, nonché dei risvolti giuridici connessi alla sua qualifica come “sottoprodotto”, sia consentito di rinviare a P. Giampietro“Il fresato d’asfalto come “sottoprodotto”. Profili giuridici e tecnici” in www.lexambiente.it., 19.10.2011 e in www.tuttoambiente.it, 18.10.2011. Per un primo denso commento alla decisione del Consiglio di Stato cit. vedi: D. Röttgen – M.V. Vecchio: “Fresato d’asfalto: sottoprodotto o rifiuto?” In Rifiuti – Diritto e pratica amministrativa, Il Sole 24 Ore, ottobre 2013, pp. 36 e ss. e, da ultimo, lo stesso D. Roettgen, “Fresato d’asfalto – Sottoprodotto o rifiuto?, in “Ambiente&Sviluppo, n.12/2012, pag. 993 e ss. (corredato da un indice bibliografico completo a nt. 2).
[3] L’art. 184-bis, comma 1, cit., introdotto dall’art. 12, del d.lgs. n. 205 del 2010 detta:
1. È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.
[4] Fatta salva la sentenza del T.A.R. Lombardia n. 2182/2012 (confermata dal Consiglio di Stato, con la pronuncia, in commento), la giurisprudenza penale e amministrativa, riferendosi alla normativa antecedente, ha affermato, in prevalenza: a) la riconducibilità del fresato nella categoria del rifiuto recuperabile; b) eccezionalmente, nel novero delle terre e rocce da scavo, al fine di sottrarlo al regime dei rifiuti (cfr. l’isolata: Cass. pen. Sez. III, 11 febbraio 2003, n. 13314; in senso contrario, v.: Cass. pen. sez. III, 15 maggio 2007, n. 23788); c) ovvero la sua qualificabilità come “materia prima secondaria” (cfr. T.A.R. L’Aquila Abruzzo, sez. I, 08 giugno 2013, n. 549). Per altri precedenti giurisprudenziali, più recenti, v. oltre par. 6.3.2.
[5] Per un primo contributo, v. P. Giampietro “Quando un residuo produttivo va qualificato “sottoprodotto” (e non “rifiuto”) secondo l’art. 5, della direttiva 2008/98/CE (Per una corretta attuazione della disciplina comunitaria)”, pubblicato in www.lexambiente.it., in data 08.11.2010. Sulla elaborazione della direttiva rifiuti, n.2008/98/CE, da parte del Consiglio, Parlamento e Commissione U.E, si veda David Röttgen, Capitolo II (“La nozione di rifiuto e di sottoprodotto”), pagg. 25-77, in “Commento alla direttiva 2008/CE sui rifiuti”, a cura di F. Giampietro, IPSOA, Milano, 2009. Sul “sottoprodotto” nella prima formulazione del T.U. ambientale n. 152/2006, cfr. L. Ramacci, La nuova disciplina dei rifiuti”, Celt–La Tribuna, 2006, pagg. 44 e ss. In tema, da ultimo, per una rassegna critica delle sentenze più recenti e degli orientamenti dottrinari, cfr. di P. Giampietro: ”I trattamenti del sottoprodotto e la normale pratica industriale”, cit., in www.lexambiente.it), 15.5.2013 e in AmbienteDiritto.it 30.5.2013.
[6] Il fresato stradale è costituito dallo stesso “conglomerato bituminoso”, prelevato, mediante fresatura, dagli strati di rivestimento stradale. Esso assume la struttura di un aggregato, con una sua curva granulometrica generalmente caratterizzata da un’elevata percentuale di fini, e contiene bitume invecchiato (dall’uso del manto stradale da cui proviene). Ai fini di una definizione tecnica del “conglomerato bituminoso” (fondata sulla normativa di settore e sulla terminologia della norma UNI 13108-1) – propedeutica ad una più rigorosa classificazione giuridica – si riportano di seguito le seguenti nozioni.
Conglomerato bituminoso: miscela di aggregati e leganti bituminosi; conglomerato bituminoso di recupero (come “sottoprodotto”): conglomerato bituminoso ottenuto mediante fresatura degli strati di rivestimento stradale, frantumazione delle lastre provenienti da squarci di pavimentazioni asfaltiche, blocchi provenienti da lastre asfaltiche; conglomerato bituminoso proveniente da scarti di produzione e sovra-produzione (rif. UNI 13108- 1 e 8).
La composizione del conglomerato bituminoso: il c. b. è un conglomerato artificiale costituito da una miscela di:
inerti (materiali rocciosi di diversa granulometria quali filler, sabbia e pietrisco)
legante di tipo bituminoso
conglomerato bituminoso di recupero come sottoprodotto (fresato) .
Nel confezionamento di conglomerati bituminosi vengono impiegati inerti, di origine naturale, industriale, o di riutilizzo di sabbie, ghiaie e pietrischi, ecc.provenienti dalla estrazione e frantumazione nelle cave alluvionali, dalla frantumazione delle rocce; da processi industriali o da materiali da demolizione, aventi granulometria variabile. I materiali molto fini che hanno il compito di riempire gli spazi lasciati liberi dagli aggregati più grossi vengono chiamati filler o additivi minerali. Come il cemento, nei conglomerati cementizi, così i leganti bituminosi hanno la funzione di legare gli inerti fra di loro nei conglomerati bituminosi.
[7] Costituito dallo stesso “conglomerato bituminoso” con cui è realizzato l’asfalto (miscela di aggregati e leganti bituminosi).V. nota precedente.
[8] In proposito, v. oltre. par. 5 sul “recupero” del fresato.
[9] A seconda che sia impiegato nello stesso ciclo di origine (e cioè sul posto, per la produzione in situ del conglomerato) ovvero sia destinato, invece, all’utilizzo per la produzione di conglomerati bituminosi in appositi impianti fissi, posti all’esterno del cantiere, da impiegare allo stesso fine (qualifica di rifiuto, con assoggettamento alle procedure di recupero, ordinario o agevolato).
[10] Sulla formazione di nuovo conglomerato con il fresato v. retro, par.2.
[11]Il T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, n. 02182/2012, depositata il 10 agosto 2012, in www.giustizia-amministrativa.it aveva annullato la nota provinciale del 27 gennaio 2011, nella parte in cui diffidava formalmente il Comune di Arcore a non procedere all’autorizzazione dell’impianto (svolgente attività di fresa di asfalto in contrasto con il Piano provinciale di gestione dei rifiuti che ne escludeva la localizzazione).
[12] In particolare, il T.A.R. Lombardia cit., dopo un’attenta disamina della specifica fattispecie di origine e di impiego del fresato, aveva concluso che ricorrevano, nel caso esaminato, tutte le condizioni dettate dal primo comma dell’art. 184-bis del T.U.A. per qualificare tale residuo produttivo come “sottoprodotto”.
[13] Così motivando, il Consiglio di Stato ha definitivamente mandato in soffitta quelle prassi provinciali richiamate all’inizio, che opponevano – alla qualifica di sottoprodotto del fresato – le cennate e superate obiezioni: – di essere previsto con apposito numero nel Catalogo europeo dei rifiuti e – di risultare presente, come residuo produttivo, nell’elenco delle attività di recupero di cui all’ALLEGATO 1, Suballegato 1, di un D.M. 5.2.1998.
[15] Sul punto il Tribunale di primo grado cit. si era espresso in termini sostanzialmente identici, ma meglio argomentati, del seguente tenore:“ …. Ebbene, alla luce di detta analisi, il Collegio ritiene che se il fresato “ai fini dello smaltimento è soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei rifiuti (nella specie non pericolosi) – lo stesso materiale possa essere nondimeno qualificato sottoprodotto anziché rifiuto se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla normale pratica industriale (di fatto vengono effettuate solo operazioni di cernita e di selezione, che non possono essere, tuttavia, considerate operazioni di trasformazione preliminare cfr. Cass. Pen., n. 41839 del 7/11/2008) in un impianto che ne preveda l’impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto”. In senso contrario, v. Cass. pen. sez. 3, n. 17453/2012, che ricomprende le operazioni di “separazione e cernita, fra quelle di recupero vietate. Per una critica serrata della decisione (e dei precedenti conformi) cfr. P. Giampietro, “I trattamenti dei sottoprodotti e la normale pratica industriale” in www.lexambiente.it., 15.05.2013 cit., parr. 2 e 3.
Prosegue poi quello stesso TAR che: “… 3.1. L’impianto che utilizza il fresato come “sottoprodotto” non deve quindi, perché il materiale conservi la natura di sottoprodotto, stoccare quantitativi d’esso che eccedono rispetto al fabbisogno del proprio ciclo produttivo, perché la giacenza del materiale in attesa di un futuro reimpiego (nella stessa sede o altrove) integra la fase dello stoccaggio e pone il problema della permanenza del rifiuto, che invece va esclusa per quella limitata provvista di materiale che rientra quantitativamente nel normale processo di lavorazione dell’impianto (cfr. Cass. n. 35235 del 12.09.2008)”.
A nostro avviso, i parr. 3 e 3.1. della motivazione di primo grado contengono due rilevanti imprecisioni: la prima, di principio e l’altra, di inesatta valutazione della realtà industriale. Quanto alla prima, il TAR esordisce con una affermazione che non può essere condivisa secondo il’attuale assetto normativo (secondo cui: “ .. fermo restando che la qualifica del fresato d’asfalto rimane quella di rifiuto – e pertanto ai fini dello smaltimento esso è soggetto a tutte le norme .. per la categoria dei rifiuti… – lo stesso materiale possa essere nondimeno qualificato sottoprodotto .. se lè inserito in un ciclo produttivo …ecc.”; seguono le note condizioni di legge).
Sul piano logico e di sistema – infatti – un residuo produttivo può essere qualificato rifiuto o, alternativamente, sottoprodotto, sin dall’origine, a seconda che, in quest’ultimo caso, ricorra la volontà del produttore di “non disfarsi” di esso, unitamente alle altre condizioni di legge. Da tali premesse giuridiche, si deve dire, diversamente, che il residuo, può, fin dall’origine, rivestire l’una o l’altra qualifica (e il principio di prevenzione sollecita e promuove la scelta del produttore in favore del sottoprodotto, ove possibile). Sicché, come è erroneo affermare che il sottoprodotto “nasce dal rifiuto”; così risulta improprio premettere che “… fermo restando che la qualifica del fresato d’asfalto rimane quella di rifiuto… (?).” (sullo specifico tema, si rimanda a P. Giampietro, I trattamenti del sottoprodotto cit., passim e a pag. 6, note 12 e 13 ).
In ordine alla seconda affermazione, non appare giustificato dalla norma la supposta imposizione di un deposito di sottoprodotto (per es. di fresato) in una “… limitata provvista di materiale che rientra quantitativamente nel normale processo di lavorazione dell’impianto..…”.A parte la difficoltà tecnica di individuare le esatte quantità che corrispondano ai normali consumi di fresato (riferiti al semestre, al mese, magari alle necessità quotidiane….?) e alla circostanza che i flussi di utilizzo del fresato per la produzione del conglomerato, possono variare per ragioni economiche, tecniche e di mercato, oltre che per fatti accidentali; non si vede perché qualsiasi superamento, anche temporaneo, di tale durata media (di deposito: ma quale?) “.. integri la fase di stoccaggio”, anche nel caso in cui la comprovata volontà dell’impresa di stoccare quantitativi maggiori trovi valide giustificazioni tecniche edeconomiche (di impiego del fresato, per es. attesa la espansione della produzione, ovvero a motivo di nuovi clienti, ecc.) tenuto altresì conto delle condizioni ambientali (in ipotesi ottimali) in cui è compiuto il deposito del sottoprodotto.
Né si comprende infine il rilevo, riferito a questa ipotesi (di superamento del criterio quantitativo/temporale), sulla “… permanenza del rifiuto”, come se il fresato, in caso di eccesso delle quantità depositate, “permanesse” nella sua qualifica originaria di rifiuto. Il che non è perché il sottoprodotto – che nasce come tale (cioè di prodotto: ricorrendone le condizioni) – ove perda tale qualifica (per volontà del produttore e/o per la perdita anche di una sola condizione) diviene rifiuto (per la prima volta) non “permane” o resta rifiuto (come sembra supporre il TAR, secondo le espressioni usate).
[16] Costituente il testo normativo di riferimento per le cosiddette procedure “semplificate” di recupero, eseguibili cioè in assenza di autorizzazione, ex art. 208 del TUA, a seguito di una “semplice” comunicazione di inizio attività.
[17] L’’All. 1, Suballegato 1, del D.M. 5.2.1998 e s.m.i., al punto 7.6.1., indica tra i rifiuti recuperabili, in deroga alle ordinarie procedure autorizzatorie, anche quelli provenienti da”attività di scarifica del manto stradale mediante fresatura a freddo…” e tra le attività di recupero, cui detti rifiuti possono essere destinati include, al p. 7.6.3, lett. a), la “produzione conglomerato bituminoso “vergine” a caldo e a freddo[R5]”.
[18] Cfr. la c.d. sentenza ARCO, 15.6.2000, nei procedimenti riuniti C-418-97 e C-419-97, e la successiva, nota pronuncia Niselli, del 2004..
[19] Nella espressione riportata si enfatizza, appunto, la volontà del produttore del fresato che non vuole smaltirlo o recuperarlo ma utilizzarlo tal quale o con trattamenti rientranti nella normale pratica industriale. Tale rilevanza della volontà è stata giustamente esaltata da D. Röttgen e M. V. Vecchio, a commento della sentenza in oggetto, in Fresato d’asfalto:sottoprodotto o rifiuto?, cit. in Rifiuti – Diritto e pratica amministrativa, Il Sole 24 Ore, ottobre 2013, pag. 36 e ss. cit., i quali osservano, come possibile la ipotesi interpretativa, che: “ Appare dunque ragionevole escludere dal novero dei rifiuti il fresato utilizzato per il rifacimento degli strati di pavimentazione realizzati con miscele bituminose (assenza di catrame!), qualora tale riutilizzo del materiale deliberatamente fresato avvenga contestualmente alle operazioni di fresatura e nello stesso sito oggetto delle operazioni stesse che comportano la produzione del predetto fresato (ossia senza deposito o stoccaggio) e sempreché il fresato utilizzato sia conforme alle norme ed alle specifiche prestazionali che ne regolamentano l’impiego. In tal caso non è da escludersi che esista, infatti, un processo di scarifica primariamente finalizzato proprio all’ottenimento di quello specifico materiale, pertanto oggetto di un’attività di riutilizzo, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. r) che, per definitionem, non ha per oggetto un rifiuto. In tale caso potrebbe sussistere una volontà di produzione, antitetica a qualsiasi volontà di disfarsi, costitutiva della nozione di rifiuto.”
Gli stessi AA., proprio in ragione della volontà di colui che ha fresato il manto stradale per ottenere un prodotto (da utilizzare per produrre conglomerati bituminosi), ipotizzano, in via subordinata, – secondo principi comunitari messi in luce dalla Commissione UE, sin dalla Comunicazione del 2007 CE – che il fresato sia un vero e proprio “prodotto”. Si veda, infatti, la loro conclusione: “… Non trattandosi in tal caso di un residuo di produzione, bensì di un autentico prodottodeliberatamente ottenuto quale scopo primario dell’attività, in base alla sistematica imposta dall’art. 184bis, non occorrerebbe procedere a verificare la sussistenza delle condizioni poste dalla stessa norma…”.
l tema è stato ripreso ed ampliato da Roettgen, Il Fresato d’asfalto, in Ambinete&Sviluppo cit. il quale, formula una affermazione di principio in questi termini, alquanto categorici, anche se usuali: “…Sul piano giuridico, la presenza di una operazione qualificata formalmente come operazione di recupero, esclude ontologicamente che tale operazione possa essere considerata come trattamento di normale pratica industriale… “. Se ci si riferisce alle operazioni indicate dal D.M. 5.2.1998, l’osservazione non può essere accolta. Quel decreto si riferisce, infatti, ai rifiuti e non alle attività di trattamento dei sottoprodotti e fu redatto quando la nuova categoria giuridica non era stata ancora formalmente riconosciuta (tanto da contemplare delle sostanze o materialioggi qualificati sottoprodotti: v, per es., la voce 11.7 sulle fecce e vinacce; e la voce 7.31 sulle terre e rocce; nonché tutte quelle tipologie di residui che sono utilizzabili senza alcun trattamento recuperatorio e pertanto destinati a rientrare nella categoria dei sottoprodotti. Ed, infine, perché il sottoprodotto, che può assumere il ruolo della materia prima, del semilavorato o del prodotto finito, è suscettibile di ricevere i trattamenti più diversi anche di modificazione della sua identità fisica (come quando viene macinato, triturato ecc. (v. oltre). Senza dire poi che, da più di un decennio, la giurisprudenza della CGCE ha inequivocabilmente chiarito – facendo riferimento ai trattamenti dei rifiuti descritti dagli all. II A e II B alla direttiva rifiuti 91/156, all’epoca vigente – che essi non sono indicativi della natura di rifiuto della sostanza trattata e che anche una materia prima può subire trattamenti analoghi a quelli praticati sul rifiuto (cfr. le note sentenze: Arco e Niselli, citt., punti 36 e 37 della motivazione di quest’ultima).
[20] Vale la pena ricordare che, con il D.M. 05.02.1998, il Governo individuò non solo determinate tipologie di rifiuti che potevano essere reimpiegati con il compimento di determinate operazioni di recupero chimico-fisiche (che incidevano sulle caratteristiche merceologiche e ambientali del materiale); ma anche “riclassificò” come rifiuti recuperabili, tipologie di materiali già definiti “materiali quotati” presso le Camere di Commercio che continuano ad essere esclusi dal campo di applicazione del decreto legge n. 438/1994” (vedi il Decreto Ministeriale 4 settembre 1994 sul “Riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo”) i quali non rientravano nella definizione di rifiuto e che non necessitavano, per il loro riutilizzo, di alcun trattamento di recupero, tanto da venir reimpiegati “tal quali” e cioè con “utilizzo diretto”!
Ebbene dette tipologie di residui sono state inserite nel D.M. 5.2.1998, ALLEGATO 1, Suballegato 1 (come per es. carta, cartone, prodotti di carta; rifiuti di vetro; rifiuti di metalli, ecc.) ma, in realtà, come “materiali quotati in borse merci, listini e mercuriali – ove utilizzabili tal qualio con trattamenti rientranti nella normale pratica industriale – essi possono essere riportati, qualora ricorrano tutte le previste condizioni (v. oltre), nella nuova categoria dei sottoprodotti (come il fresato stradale).
Si ha una conferma testuale oltre che logica di tale finale conclusione considerando che – sia per i materiali quotati in borsa (di cui si predicava il “riutilizzo diretto”: v. la voce 1.1.3, lett. a) del D.M. 5.2.1998 sul “riutilizzo diretto della carta nell’industria cartaria”), sia per il fresato – il decreto del 1998, con riferimento alle “Attività di recupero” (voce 7.6.3.), non era in grado di indicare i trattamenti cui dovevano essere sottoposti, limitandosi a specificare (quanto al fresato) che esso sarà recuperato per “la produzione di conglomerato bituminoso a caldo. “
In definitiva, il D.M. 5.2.1998, in questi casi, invece di individuare specifiche operazioni di recupero, per specifiche tipologie di rifiuti, ha scelto di elencare singole attività o addirittura interi settori produttivi (come quelli dei materiali quotati in borsa merci, listini, mercuriali) per il quali non si rendevano necessari trattamenti di recupero ma erano possibili riutilizzi diretti del materiale “tal quale” (circostanza che, come è noto, caratterizza oggi il residuo-sottoprodotto”).
[21] Il che non è consentito, nel rispetto del principio ordinamentale della gerarchia delle fonti di diritto, di cui agli artt. 1 e 3 delle Preleggi al codice civile.
[22] Su l’importanza di tale decisione, v. P. Giampietro, Quando un residuo produttivo si qualifica sottoprodotto… cit. par. 6, pag. 10 la quale pretendeva – fra l’altro – come specifica “condizione” (non più richiesta) che il sottoprodotto fosse riutilizzato “nel corso del processo di produzione” (di provenienza).
[23] Si intende dire che l’attività di “produzione”, anche per il nostro codice civile, ricomprende sia la produzione di beni che quella di servizi (da cui può quindi derivare la sostanza che ha i requisiti del sottoprodotto e non del rifiuto).
[24] Come rilevato dal TAR lombardo, cit. nel testo che fa riferimento “… al processo produttivo di rifacimento del manto stradale …e non la produzione del fresato in quanto tale…”.
[25] Cfr. Cassazione penale sez. III, 30 settembre 2008, n. 41839, che ha affermato la qualificabilità come “sottoprodotto” per i residui (consistenti in “slops” – miscele contenenti idrocarburi) originati da attività di manutenzione di petroliere e navi cisterna. In tal senso, si veda la più attenta dottrina: P. Fimiani, Relazione nell’incontro di studi, organizzato dal Consiglio Superiore di Magistratura, sul tema: I crimini ambientali: rifiuti, paesaggio e violazioni urbanistiche, tenutosi a Roma il 25/27 marzo 2009, pag. 5, rintracciabile in molti siti web e dello stesso Autore l’ottimo volume: “Il diritto penale dell’ambiente, Giuffrè, 2011, pag. 150 (in cui si afferma che il sottoprodotto può derivare anche dalla “produzione di servizi” sulla scorta della specificazione della Cassazione penale cit.).
[26] Questa è la definizione di “manutenzione” che si legge nel Devoto Oli – Vocabolario della lingua italiana – 2008, Le Monnier, pag. 1619.
[27] Per dettagli tecnici, v. P. Giampietro, Il fresato d’asfalto, cit. par. 2, pag. 7.
[28] Del resto, nella fattispecie decisa, accade quanto si verifica anche in relazione ad altri residui produttivi. Si pensi alla distillazione del greggio per produrre benzine (scopo primario) e contestuale produzione di sottoprodotti, come gli oli, venduti come combustibili a terzi e utilizzati, in altri processi produttivi ed in altro luogo cioè, appunto, sottoprodotti che vengono “… commercializzati, a condizioni economiche vantaggiose, oggetto di una operazione commerciale, corrispondente a “specifiche” (tecniche) poste dall’acquirente” (In tal senso, cfr. CGCE 24 giugno 2008, causa-C188/07, con richiami alle più significative pronunce anteriori della stessa Corte).
[29] V, D, Roettgen e M. V. Vecchio, op. cit. pag. 37.
[30] Per le stesse ragioni non può aderirsi all’ulteriore e successivo approfondimento dello stesso D. Roettgen, “Fresato d’asfalto – Sottoprodotto o rifiuto?, in “Ambiente&Sviluppo, n.12/2013, pag. 993, secondo cui il fresato deriverebbe, “nella quasi totalità dei casi” da una attività di demolizione e pertanto dovrebbe rivestire la qualifica di rifiuto speciale, altrimenti “contrasterebbe con l’art. 184, comma 3, lett. b) del TUA. Si è già osservato che l’attività di scarifica non può configurarsi come attività di demolizione in quanto si inserisce in un processo produttivo più complesso rivolto a produrre (fabbricare) manto stradale (nuovo). Ove ricondotta in questo processo – e non isolata o vista in modo parcellizzato – l’azione di scarifica si presenta come una delle fasi ineludibili dell’intero processo tecnologico, e dunque parte integrante del processo produttivo. Il fresato, infatti, viene utilizzato come sottoprodotto-materia prima nella produzione di nuova conglomerato bituminoso (unitamente alle materie prime vergini ricordate) e, come tutti i sottoprodotti, sostituisce la materia prima primaria (v. retro), facendo risparmiare al produttore di c. b. i relativi costi. Ecco perché, come osserva il TAR cit., il fresato costituisce “… materiale peraltro assai ricercato e quindi intrinsecamente dotato di un apprezzabile valore economico..” tanto da essere “.. qualificato sottoprodotto anziché rifiuto se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento … in un impianto che preveda l’impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto” (destinato alla produzione del conglomerato bituminoso: v. retro, nota 15).
Se poi, sul piano sintattico, non si riscontrano difficoltà insormontabili nel riferire l’inciso dell’art. 184, comma 3, lett. b) – “ fermo restando quanto disposto dall’art. 184-bis” – oltre che ai rifiuti da attività di scavo,anche a quelli da demolizione; resta assodato, in linea tecnica e di diritto, che, potenzialmente, tutti i residui produttivi definibili e classificabili – oggi – come rifiuti, ex art. 183 e 184, possano essere qualificati, ricorrendo la volontà del loro produttore/detentore e le condizioni di legge, “sottoprodotti”, sin dall’origine, come nel caso del fresato (o come nella ipotesi fatta dallo stesso A. relativa proprio al “residuo da demolizione”, richiamata nel testo: v. la nota sentenza Saetti del 2004. Una conferma testuale delle qualifiche plurime e alternative che lo stesso residuo può assumere, a seconda delle circostanze, soggettive e oggettive, è offerta dal “suolo escavato non contaminato”, come si deduce dalla lettura dell’art. 185, comma 5, cui si rimanda, che può assumere, per il legislatore, a seconda dei casi, la qualifica di rifiuto, sottoprodotto o materia prima secondaria.
Include il fresato tra i materiali di demolizone, Cass. pen., sez. 3, 15 maggio 207, n. 23788, sulla base dei seguenti argomenti: a) per il fatto che l’art. 184, comma 3, lett. b) non è diverso dall’art. 7, comma 3, let. b) del decreto Ronchi del 1997; b) secondo l’art. 184, comma 3, lett. b), TUA continuano ad essere escluse dalla dsciplia dei rifiuti solo le “terrre e rocce”, a certe condizioni; in cui non rietra il fresato; c) per le terre la disciplina di esonero, ex art. 186, risulta eccezonale e non estensibile, in via analogica, ex art. 14, preleggi; d) non sarebbero applicabili le disposizioni sui residui catramosi e bituminosi, in quanto “… essi erano riutlizzati dopo aver subito trattamenti preliminari”.
Nessuna delle articolate motivazioni può reggere, per se stessa e nell’insieme, soprattutto, alla luce della noramtiva sopravvenuta (ex art. 184-bis, a partire dal 2010). Si è già detto, in questo paragrfo, della specificità del fresato rispetto ai rifiuti da attività di demolizione e costruzione, fermo restando, in linea di sistema, che quasiasi resiuo produttivo – che rivesta le cartterisitche soggettive ed oggettive introdotte, ex novo, dall’art. 184-bis – può essere qualificato sottoprodotto, sin dall’origine, anche se non rientra nelle “terre e rocce” di cui all’art. 186 (oggi abrogato) e seppure siaclassificato come “rifiuto” dall’art. 184, con un suo numero di codice CER, ed una sua individuazione espressa, per es., nella noramtiva regolamentare sul recupero dei rifiuti (v. per es. il D.m. 5.2.1998). In definitiva, la pronuncia della S.C., oltre a registrare, delle “debolezze” nella sua impostazione di diritto, risulta superata dalla normativa successiva, fermandosi ad una identità testuale di due disposizioni (art. 184 e art. 7 del Ronchi) che perde di senso con l’introduzione dell’art, 184-bis. Il quale virtualmente si estende, come è noto, a tutti i residui produttivi e ne consente uno “specifico trattamento” purché non diverso dalla n. p. i. (anche pertanto l’ostacolo opposto ai “…trattamenti preliminari dei residui catramosi e bituminosi” , oggi non è sufficiente per escludere il sottoprodotto ove non si aggiunga che essi superano o non rientrano nella n. p. i.). Nelo stesso senso (di esclusione), v. Cass. pen. n. 16695/2004. In senso contrario (favorevole al sottoprodotto), cfr. Cass. pen- n. 13314/2003. Si pripete, comunqe, che dette pronunce non possono essere invocate come “precedenti” significativi e “spendibili”, nel nuovo qudro legislativo (comunitario, dal 2008 e interno), perché ad esse sfugge completamente, per ragioni di tempo, la problematica nuova connessa alla riforma del 2010.
[32] Il periodo è tratto da D. Roettgen e M.V. Vecchio, citt.
[33] Su tali specifiche e rilevanti questioni, si rinvia, per approfondimenti, a P. Giampietro,Quando un residuo produttivo si qualifica “sottoprodotto” cit. par. 4 e seguenti.
[34] V. il 22° “considerando” della Direttiva 2008/98 che rileva: “Poiché i sottoprodotti rientrano nella categoria dei prodotti,le esportazioni di sottoprodotti dovrebbero conformarsi ai requisiti della legislazione comunitaria pertinente…”. E dunque prevedere modalità di raccolta, deposito, trasporto, consegna a terzi, ecc.
[35] Che, peraltro, sarebbe inapplicabile ove il fresato-sottoprodotto fosse conferito ad altre ditte per la produzione di nuovo conglomerato bituminoso, come consentito dall’art. 184-bis, cioè commercializzato.
[36] Lo stesso P. Fimiani, La tutela penale cit. pag. 153, correttamente sottolinea: “ Va infine precisato che il riutilizzo va, comunque, inteso in senso oggettivo, e non temporale, con la conseguenza che lo stesso può essere anche differito nel tempo, purché sia certo”. Così anche P. Giampietro “Quando un residuo produttivo cit. 8.11. 2010, in lexambiente.it
[37] Nella pronuncia del TAR lombardo cit. si specifica in punto di termine di deposito e di tempi di reimpiego del fresato: “… E tutto ciò non senza chiarire peraltro, con riguardo all’art. 184 bis D.Lgs. 152/2006, che non si tratta di una certezza genericamente riferita “al normale reimpiego” del fresato d’asfalto, quanto di un dato che va dichiarato e indicato nell’autorizzazione e, in quanto tale, imposto come condizione di corretta gestione dell’impianto”. Questa soluzione può essere utile (termine fissato dall’autorità amministrativa) ma non è prevista né imposta dalla legge (che parla di “certezza del riutilizzo”, senza imporre un temine fisso e rigido la cui inosservanza trasformerebbe il sottoprodotto in rifiuto, come ipotizza la sentenza d primo gra do cit.).
[38] Merita certamente consenso la motivazione relativa alla volontà dell’utilizzatoredesunta dallo stato di abbandono del residuo produttivo (volontà incompatibile con il riutilizzo certo del residuo produttivo). Risulta, da ultimo, del tutto forzata, come osservato, l’affermazione di principio – rivolta alla fattispecie decisa (ove si legga come deposito di una quantità massima di fresato che verrebbe “consumato quotidianamente per la produzione di nuovo asfalto”) – qualora si faccia assurgere la “quotidianità” (dello svuotamento del deposito) come tempo adeguato (e massimo) per il deposito del “sottoprodotto” (per le ragioni esposte nel testo).
[39] In tema, cfr. P. Fimiani, in La tutela penale dell’ambiente 2011 cit. pag. 150/153 per il quale il sottoprodotto può essere “commercializzato” nel momento in cui è previsto che sia ceduto a ditte terze) e può essere utilizzato dl suo produttore o terzo non necessariamente nella sua integralità, come nella precedente normativa: “ Rispetto alla versione del 2008, .. quella del 2010 non prevede più il requisito della natura integrale del riutilizzo. L’eliminazione appare coerente con il sistema… nulla esclude che il produttore decisa di disfarsi in parte del sottoprodotto che, a quel punto, diventa un rifiuto”.
[40] In proposito, va aggiunto che la mancata previsione, nell’art. 184-bis, di strumenti probatori da utilizzare tassativamente, per dimostrare la ricorrenza di utilizzo certo del sottoprodotto, è frutto di una tendenza normativa manifestatasi prima della Dir. 2008/98/CE e del D.lgs. 205/2010. Ed infatti, già a seguito delle modifiche apportate all’art. 183, dal secondo correttivo del TUA , il d.lgs. 4/2008, era stata ampliata la discrezionalità riconosciuta agli operatori economici, in merito alle modalità con cui provare la certezza dell’utilizzo. Quest’ultimo decreto, nel riformulare l’articolo 183, non ha riprodotto la previgente prescrizione (di cui alla lett. n., penultimo periodo) che prevedeva l’obbligo di attestare la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo …” tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo”. La scelta definitiva è stata, quindi, quella di non limitare gli strumenti probatori vincolando l’operatore all’utilizzo esclusivo di dette autocertificazioni. La possibilità di provare, con ogni mezzo idoneo, la certezza dell’utilizzo è stata riconosciuta anche in giurisprudenza: si veda, in tal senso, Corte di Cassazione, Sezione 3 pen. , del 10 luglio 2008, n. 35235, con la quale, nel cassare con rinvio una ordinanza del Tribunale di Terni che aveva escluso la qualificabilità come sottoprodotti di taluni scarti della lavorazione di pavimenti di linoleum, ha affermato che “. il giudice del rinvio dovrà riesaminare la fattispecie tenendo conto dei principi prima esposti ed in particolare, ai fini della valutazione della prova del riutilizzo, non potendo più tenere conto dalla mancata adozione dell’autocertificazione, dovrà esaminare la documentazione prodotta dall’indagato a favore della propria tesi…” (in www.ambientediritto.it).
[41] Tale formulazione va oggi declinata con l’attuale parametro della “normale pratica industriale”, su cui v. oltre.
[42] Cioè “trattamenti minimi o minimali” – che non modificano l’identità merceologica e le caratteristiche ambientali della sostanza – rispetto a quelli che operavano tale effetto, descritti come trattamenti sostanziali o preliminari o recuperatori: distinzione oscura e fomite di mai sopite contestazioni: per approfondimenti, v. P. Giampietro, “I trattamenti dei sottoprodotti, cit. par. 4, pag. 30 e ss. (con indicazioni della giurisprudenza e della dottrina, favorevole o contraria alle tesi dell’autore).
[43]Da parte sia del produttore che dell’utilizzatore o dell’intermediario. La lett. c) del comma 1, dell’art. 184-bis (come l’art. 5 della direttiva cit.) non specifica chi sia il soggetto autorizzato a effettuare detti trattamenti limitandosi a richiedere che essi rientrino nella n. p. i. Ne deriva che ogni interpretazione limitativa risulterebbe in contrasto con il diritto positivo oltre che smentita dalla stessa Commissione U.E. nella recente Guidance del 2012, come nella Comunicazione del 2007 cit., la quale ultima, in punto di trattamenti, adotta parole chiare ed univoche: “ …. La catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile…. Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del (1) fabbricante, altre presso (2) l’utilizzatore successivo, altre ancore sono effettuate (3) da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione, non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto” . Evidenzia, giustamente, la rilevanza penale del criterio della n. p. i., P. Fimiani, Tutela penale dell’ambiente, 2011, cit.
[44] Sul tema dei trattamenti ammessi o vietati, si richiama la nota e recente sentenza di Cass. pen. sez. 3, n. 17453/2012 cit., commentata criticamente da P. Giampietro,I trattamenti del sottoprodotto cit., in www.lexambiente.it, con citazione degli AA. favorevoli e contrari. Già a partire dall’anno 2000, la CGCE, nella già citata sentenza ARCO, aveva, operato una chiara distinzione fra i trattamenti o operazioni “di recupero completo” – che trasformano il rifiuto in “materia prima secondaria” o merce (cioè che determinano “la cessazione della qualifica del rifiuto”, ex art. 6 della direttiva 2008) – e i “trattamenti preliminari” (o minimali) che interessano sia i rifiuti sia i “sottoprodotti”, chiarendo che: a) i primi (trattamenti recuperatori), incidono sull’identità del rifiuto, in quanto comportano, per effetto della loro esecuzione, che il rifiuto “acquisti le stesse caratteristiche e proprietà di una materia prima” (che ovviamente esso non possedeva in precedenza); b) i secondi (trattamenti minimali), invece, non rivestono tale efficacia modificativa poiché non trasformano la sostanza del residuo produttivo o la sua identità (il residuo pertanto non perde i suoi requisiti merceologici e di qualità ambientale che già possedeva, prima del trattamento). Questa distinzione, come accennato nel testo, perde sostanzialmente di significato (tecnico e giuridico) con riferimento ai sottoprodotti, sia perché formalmente superata dal nuovo parametro della “normale pratica industriale” sia in quanto oggi il trattamento riguarda una sostanza che, fin dall’origine, deve rivestire le caratteristiche del sottoprodotto (v. oltre.
[45]Si fa qui riferimento:
(a) alla “Comunicazione della Commissione UE del 21.2.2007, appena sopra cit., nella quale, ancor prima della codificazione del sottoprodotto, venivano fornite una serie di esemplificazioni dei trattamenti ammessi sui sottoprodotti nel noto passo, a p. 3.3.2.“… dopo la produzione, esso può̀ essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può̀ dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo..”;
(b) alle conferme successive contenute linee guida della Commissione U.E. del giugno 2012 (“Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste”), la quale – nell’interrogarsi nuovamente su cosa debba intendersi per residuo ”utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla “normale pratica industriale” – osserva che, come per la materia prima primaria, anche per il sottoprodotto si rendono necessari usualmente dei trattamenti, prima che possa essere impiegato nel processo produttivo. Questo il passo delle “Guidance” di maggiore interesse ai nostri fini:
“ D’altra parte, si deve considerare che anche le materie prime primarie solitamente richiedono qualche trattamento (processing) prima di poter essere utilizzate in processi di produzione” (“On the other hand, it has to be considered that primary raw materials” (analogamente al sottoprodotto)” “usually also require some processing before they can be used in production processes” .
In tema, v. L. Prati,La nuova definizione del sottoprodotto ed il trattamento secondo “la normale pratica industriale” in Lexambiente.it, pubblicato il 15.2.2011: “… Da un lato infatti la “normale pratica industriale” non può essere eccessivamente circoscritta, pena la sostanziale abrogazione dell’art. 184-bis, primo comma. Dall’altro lato però essa non può neppure abbracciare qualsiasi operazione comunemente inserita in un ciclo produttivo, altrimenti si finirebbe per trasformare anche ogni operazione di recupero di rifiuti tra quelle elencate ai punti da R1 ad R13 dell’Allegato II alla Direttiva in un trattamento preliminare all’utilizzo di sottoprodotto. Nonostante l’inevitabile permanere di aree grigie, dovrebbe potersi affermare che certamente rientrano nella “normale pratica industriale tutte quelle attività industriali che possono essere indifferentemente condotte con un sottoprodotto piuttosto che con una materia prima, un intermedio od un prodotto senza che ciò comporti aggravi sotto il profilo dell’impatto ambientale”. In tema, cfr. G. Gavagnin“La «normale pratica industriale?» nell’interpretazione della Cassazione: chiarezza non ancora fatta”, in Riv. giur. ambiente 2012, 6, 746.
[46] Al pari della Commissione UE, anche la giurisprudenza della Cassazione penale, soprattutto con la sentenza 17453/2012, sotto altri profili assai criticabile, ha finito con l’affermare, in linea di principio, che“…. (è) conforme alla pratica industriale quella serie di operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire, escludendosi di conseguenza, tutti quegli interventi manipolativi del residuo che siano diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”. Ma da tale principio la S.C. non trae le dovute conseguenze, ripristinando, incoerentemente, il binomio trasformazioni sostanziali o radicali (vietate) e trasformazioni minime, ammesse (tale non sarebbe, nel caso deciso dalla Corte, la “separazione”).
[47] Cfr. gli AA. cit. retro nonché, da ultimo, L. Prati, “Rifiuti, sottoprodotto e normale pratica industriale: necessità di una interpretazione che tenga conto della finalità della norma”, in www.lexambiente.it.
[48] La lett. c) dell’art. 5 della direttiva non indica il soggetto che può effettuare il trattamento in via esclusiva (se il produttore o il terzo); e altrettanto dicasi per l’omologa lettera dell’art. 184-bis: quindi risulta esclusa ogni limitazione oggettiva. .
[49] La Commissione UE nel 2007 e nel 2012 citt. fa riferimento anche alla figura del “mediatore” che si colloca come interfaccia fra produttore e terzo utilizzatore a condizione che, anche per quest’ultimo, “… tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione”. Si superano, pertanto, le tesi che restringono la nozione di sottoprodotto al riutilizzo in situ della residuo produttivo e solo da parte del suo produttore, visto che tali trattamenti, in tutto o parte, possono essere svolti anche dal terzo o dal mediatore sempre che il residuo sia “… parte integrante” del processo produttivo” (in modo intrinseco e costante e non saltuario o accidentale.
I trattamenti della n. p. i. possono essere eseguiti da più persone ed essere diversi (e non “… uno solo che deve appunto corrispondere alla n.p.i.”: così V. Paone,Sottoprodotti: una parola chiara…. cit. pag. 913, il quale si fonda sulla formula normativa “.. utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica…”. A nostro avviso questo passo va letto nel senso che alla “normale pratica industriale” non può essere aggiunto un ulteriore e diverso trattamento ma non nel significato che la n. p. i. comporti ed imponga un unico trattamento, potendo invece richiedere più trattamenti diversi come nel fresato: si veda, a riprova, per es. il D.M. 161/2012, sui materiali da scavo, ove si specifica, nell’Allegato 1, che: “Costituiscono un trattamento di normale pratica industriale” (al singolare: n. d. scriventi) “ quelle operazioni, anche condotte non singolarmente” (al plurale: n. d. s.) “alle quali può essere sottoposto il materiale da scavo, finalizzate al miglioramento delle sue caratteristiche merceologiche per renderne l’utilizzo maggiormente produttivo e tecnicamente efficace “).
[50] Fermo restando che, in questo spazio temporale, i trattamenti rientranti nella n. p.i. possono essere compiuti anche dal produttore e non solo dall’utilizzatore successivo (così, invece, V. Paone, op. cit. a pag 915, sulla considerazione che (è) “…. escluso che il trattamento consista in una trasformazione del residuo slegata al suo effettivo e concreto utilizzo nel nuovo processo produttivo… l’attività ammessa sul sottoprodotto dovrà necessariamente essere effettuata dall’utilizzatore medesimo” ). Non solo tale limite soggettivo non è accreditato dal diritto positivo, come rilevato sopra; ma non si vede perché il produttore del sottoprodotto, dopo la formazione di quest’ultimo (o anche prima, intervenendo sul processo produttivo, salvo in questo caso a considerare il residuo, un vero e proprio prodotto e non un sottoprodotto, come ha ritenuto la Commissione UE, sin dal 2007), non possa trattarlo, secondo la n.p.i., al fine di esitarlo più facilmente e con maggior profitto sul mercato (degli utilizzatori).
[51] Ci sembra valorizzare questa fase – cronologica e funzionale – del trattamento (prima dell’utilizzo) L. Prati, in “Sottoprodotto e nomale pratica industriale cit., 2013, nei passaggi in cui esclude il compito “recuperatorio” del trattamento ed esalta lo scopo del riutilizzo: “… La lettura minimalistica si traduce in una abrogazione, in via interpretativa, della possibilità ora concessa di effettuare un trattamento preliminare o preventivo sul residuo, prima del suo utilizzo, mantenendone tuttavia la natura del sottoprodotto”.
[52] D’altronde lo stesso V. Paone, nel prosieguo della sua densa nota ( “Sottoprodotto: una parola chiara cit., pag. 914) finisce con l’ammettere che: “ .. Invero, come si è già detto, non è fattibile (?) un’interpretazione per cui il trattamento cui fa cenno la norma sui sottoprodotti, coincida con il trattamento citato dalla direttiva con riguardo ai rifiuti…”.
[53] In proposito, L. Prati,Rifiuti, sottoprodotti e normale pratica cit., osserva che, secondo un principio teleologico, da affiancare a quello letterale e sistematico, “.. nei casi dubbi, dovrebbe ritenersi rientrare, nella normale pratica industriale, ogni operazione effettuata sulla sostanza o sull’oggetto, preventivamente al suo utilizzo, che, nel settore industriale di riferimento, viene condotta anche su materie prime, intermedi o prodotti, senza che derivi un maggiore rischio in termini di impatto ambientale per il fatto che venga impiegato un sottoprodotto”. Si conferma, pertanto, che i trattamenti, del produttore o del terzo utilizzatore, seguono la produzione del residuo ma precedono il nuovo processo di utilizzazione (i cui trattamenti non vanno confusi con quelli di preparazione al riutilizzo). Con riferimento ai trattamenti del fresato, compiuti da terzi, al di fuori dal luogo di produzione, v. D. Roettgen, in Fresato d’asfalto: sottoprodotto…ecc.?, in Rifiuti, cit., pag. 38, il quale, in premessa, osserva che: “… Per quanto concerne la condizione di cui alla lettera c) dell’articolo citato, premesso che il trattamento del fresato d’asfalto può avvenire, oltre che in situ, in appositi impianti…. Tutti gli impianti di trattamento del conglomerato bituminoso sotto forma del fresato d’asfalto sono a oggi autorizzati ai sensi della disciplina in materia di rifiuti, in quanto ritenuti svolgere un’operazione di recupero. La presenza di un’operazione qualificata formalmente come operazione di recupero esclude ontologicamente che essa possa essere considerata come trattamento di normale pratica industriale (inter alia Comunicazione 59/2007 della Commissione europea).
Mi permetto di rilevare che la prassi provinciale più diffusa, allo stato, non costituisce, di per sé, un argomento dirimente per avallare la tesi dell’obbligo di autorizzazione del recupero del fresato, ove svolto presso terzi, sia perché, in molti casi, non si è tenuto conto, per ragioni di tempo, della nuova normativa sul sottoprodotto sia in quanto, la più recente giurisprudenza (come la sentenza del Tar Lombardia e la conferma del Consiglio di Stato, oltre ai motivi esposti nel testo), possono fare fortemente dubitare della fondatezza di quella prassi.
Quanto alla incompatibilità “ontologica” fra attività di recupero e trattamenti della n.p.i., occorrerebbe, sul piano metodologico, prima individuare quali sono i trattamenti della “normale pratica” e poi verificare se essi, in alcuni casi, possono coincidere o meno con quelli previsti dalla normativa sul recupero dei rifiuti (ammesso che sia corretta tale comparazione: sul punto rimando alle considerazioni del testo). Fermo restando che, secondo l’insegnamento consolidato della CGCE e della Commissione UE non si deve assegnare eccessivo peso al fatto che alcuni trattamenti sul sottoprodotto possono coincidere con quelli di recupero previsti dalla normativa sui rifiuti, in quanto, come ribadito nella Guidance del 2012, tali trattamenti possono riguardare anche un prodotto (e quindi logicamente un sottoprodotto) secondo quanto già chiarito dalle note sentenze Arco del 2010 e Niselli (11 novembre 2004 causa C- 457/02 ) cit.
[54] Anche la miscelazione successiva dell’utilizzatore/produttore risulta consentita, in quanto, come ripetuto, non riguarda il trattamento preventivo della n. p. i. ma le lavorazioni del nuovo processo produttivo, non regolata dalla lett. c) dell’art. 184-bis.
[55] In conclusione, trattasi di operazioni (di riselezione e riduzione granulometrica) che non possono in alcun modo essere ricondotte a quegli “ulteriori trattamenti diversi dalla normale pratica industriale”, vietati dall’art. 184-bis, lett. c), per le ragioni tecniche e giuridiche esposte.
[56] La Commissione U.E. nella Comunicazione del 2007 cit., fornisce specifici esempi di “non rifiuti” da considerare “sottoprodotti” o materie prime con riferimento:
– alle “scorie di altoforno” (“Le scorie di altoforno possono essere utilizzate direttamente al termine del processo di produzione, senza doverle sottoporre ad alcuna trasformazione che non sia parte integrante del processo di produzione in corso (ad esempio, la frantumazione, per ridurle alle dimensioni richieste. Nella versione inglese: “ without further processing (“operazioni di recupero”) that is not an integral part of this production process such as crushing (“frantumazione”) to get the appropriate particle size”). “ Si può quindi ritenere che la definizione di rifiuto non si applica a questo materiale”;
– ai sottoprodotti dell’industria agroalimentare “utilizzati massicciamente, come materie prime, per produrre mangimi direttamente dagli agricoltori” o da terzi “ fabbricanti di alimenti composti per animali”.
Dette materie prime derivano da numerosi processi di produzione: dello zucchero, amido, malto ecc. , “sono prodotti deliberatamente nell’ambito di processi di produzione adattati a tal fine” ovvero “soddisfano tutti i criteri cumulativi definiti dalla Corte”, fra cui “non necessitano di trasformazioni preliminari”;
– ai “sottoprodotti della combustione: “gli impianti di desolforazione di fumi eliminano lo zolfo dai fumi generati dall’impiego di combustibili fossili solforosi nelle centrali elettriche, per (ridurre) l’inquinamento dell’aria e le piogge acide. Il materiale che ne deriva, gesso da impianti di desolforazione di fumi (FGD), trova le stesse applicazioni del gesso naturale e in particolare viene utilizzato nella produzione di pannelli”.
Con riferimento poi alle “materie prime”, merita porre in evidenza il pensiero della Commissione sulla:
– carta da macero, date certe condizioni (per quanto attiene al settore industriale della carta, cartoni e pasta per carta);
– “ trucioli, cascami, segatura di legno non trattato.
Si osserva, in proposito, che tali scarti:
“… sono prodotti nelle segherie o nell’ambito di operazioni secondarie, come la fabbricazione di mobili o pallet e il confezionamento, contemporaneamente al prodotto principale, ovvero il legno lavorato. Questi elementi sono poi impiegati come materie prime per la produzione di pannelli in legno, come quelli in truciolato, o nella fabbricazione della carta. Il loro utilizzo è certo, rientra nel processo di produzione” (nel senso allargato di cui ai parr. 3.3.2 e 3.3.3, cioè “da parte degli utilizzatori successivi e dalle aziende intermedie…”) e non necessita di trasformazione previa, se non quella necessaria a ridurre tali materiali alle dimensioni richieste per poterli integrare nel prodotto finale” (trattamenti minimali che non costituiscono, per la stessa Commissione, “operazioni di recupero completo”, secondo la vecchia terminologia).
[57] Questo è l’intero testo della parte motiva: “… Il Collegio ritiene che sia infondato anche il secondo motivo perché nella specie il materiale raccolto non è qualificabile come sottoprodotto, neppure alla stregua della nuova definizione dei sottoprodotti data dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 184 bis, inserito dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, art. 12. La nuova disposizione, invero, richiede perché si tratti di sottoprodotto, tra l’altro, da un lato, che la sostanza o l’oggetto possa essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (comma 1, lett. c), e, da un altro lato, che la sostanza o l’oggetto sia originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non sia la produzione di tale sostanza od oggetto (comma 1, lett. a). Nella specie, la sentenza impugnata ha accertato che il riutilizzo dello scarificato del manto stradale richiedeva adeguate operazioni di recupero per poter essere usato per la produzione di ulteriore conglomerato bituminoso vergine e che erano necessarie ulteriori trasformazioni e trattamenti, tramite apposito impianto. In ogni caso, anche qualora questo ulteriore trattamento non fosse diverso dalla normale pratica industriale, ritiene il Collegio che non sussiste comunque il requisito di cui alla lett. a), perché non si tratta di sostanza o di oggetto originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrale”.
[58] In proposito, non si è tenuto in alcun conto che la Commissione U.E., nella Comunicazione del 2007 cit., ragiona assai diversamente ritenendo per es. che alcune sostanze (per es. alcuni tipi di scorie) sono sottoprodotti, in quanto “.. utilizzate direttamente, al termine del processo di produzione, senza doverle sottoporre ad alcuna trasformazione che non sia parte integrante del processo di produzione in corso” come “ la frantumazione, per ridurle alle dimensioni richieste” dall’utilizzatore (Nella versione inglese: “ without further processing (“operazioni di recupero”) ….. such as crushing (“frantumazione”) to get the appropriate particle size….”. Con la specificazione espressa che “.. Si può quindi ritenere che la definizione di rifiuto non si applica a questo materiale” (p. 1 dell’Allegato I pag. 16 dello stampato).
[59] In orine alla distinzione temporale e funzionale di dette fasi, si consideri il seguente brano della Comunicazione del 2007: ( par. 3.3.2.): “.. dopo la produzione esso” (sottoprodotto) “ può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità…”.
[60] Nelle Guidance cit. del 2012, la stessa Commissione UE specifica che il trattamento può essere meccanico e quindi anche tramite un impianto (meccanico): “… On the other hand, a treatment which is normal pratica industriale, ad esempio la modifica della dimensione o forma da trattamento meccanico, non industrial practice, e.g. at modification of size or shape, by mechanical treatment, does not impedire il residuo di produzione sia considerata come un sottoprodotto. prevent the production residue from being regarded as a by-product”. Per quanto riguarda i residui di produzione, la CGUE trovato nel Niselli
[61] Il fresato, con le caratteristiche previste dalle prescrizioni tecniche cit., è destinato, come ricordato, alla miscelazione con aggregati lapidei, leganti bituminosi ed eventuali attivanti chimici funzionali, nel ciclo produttivo dei conglomerati bituminosi, come componente necessaria per la formazione del prodotto finito (cioè il nuovo C. B. ). Sottolineano opportunamente tale profilo – relativo alle specifiche tecniche del fresato da riutilizzare, D. Roettgen – M. V. Vecchio, nella rivista Rifiuti, cit. pag. 38: “.. Specifiche tecniche per il granulato conglomerato bituminoso: Uni En 13108, per il granulato conglomerato bituminoso per confezionamento Cb a caldo Uni En 13242, Cold Mix Recycling (Cmr), per il granulato conglomerato bituminoso per uso ingegneria civile costruzione strade”. Ritorna sull’argomento, . D. Roettgen, in Rifiuti d’asfalto. Sottoprodotto o rifiuto?, in Ambiente &Sviluppo n. 12/2013, cit.
Merita aggiungere, peraltro, che non mi si possa ipotizzare un rapporto giuridico direttodi assoggettamento del residuo produttivo alle “norme UNI relative o del BREF o di altri manuale di settore”, nel senso che quelle prescrizioni si impongano, in modo vincolante, sulle caratteristiche del fresato. Le norme UNI e le altre “normative simili” costituiscono, infatti, disposizioni di tipo “volontaristico” prive, di per sé, di una efficacia obbligatoria e cogente, ex lege, salvo che siano richiamate o recepite da leggi o da regolamenti o da provvedimenti amministrativi (v., ex multis,TAR Lazio, Roma, Sez. ii, 14 ottobre 2010, n. 32824 secondo cui “… i documenti BREF sono elaborati in sede UE al fine di suggerire agli Stati membri ed agli operatori del settore l’individuazione delle BAT (migliori tecniche disponibili) e le condizioni di applicabilità alle singole vicende. In tal caso, le regole scaturenti dai BREF e, in particolare, i livelli d’emissione là posti non esprimono né valori massimi inderogabili, né tampoco valori limite d’emissione per i singoli inquinanti, servendo piuttosto ad indicare (seri) modelli di riferimento, applicati sulla scorta delle linee-guida, per migliorare allo stato dell’arte le prestazioni ambientali. Dal canto loro, dette linee-guida vanno non eseguite tout court, ma applicate in modo calibrato al tipo ed alle particolarità dell’impianto e del sito in cui si colloca, negli ovvi limiti non solo delle conoscenze tecniche, ma soprattutto della loro sostenibile realizzabilità tecnica ed economica nel singolo contesto, al fine d’ottenere il miglioramento sperato in termini di valori d’emissione”.
Queste prescrizioni, dunque, possono assumere rilevanza giuridica prescrittiva solo qualora siano recepite da altre fonti normative – direttamente efficaci e cogenti a carico del soggetto destinatario (per es. il titolare dell’impresa che gestisce il sottoprodotto) – ovvero da provvedimenti amministrativi (gli atti autorizzatori all’esercizio di attività industriali: per es. l’ AIA). Solo a queste condizioni, qualora non vengano rispettate le specifiche tecniche o i trattamenti dettati delle norme UNI, ecc. – a cui si rinvia in sede autorizzatoria – il residuo produttivo non sarà qualificato dall’Autorità amministrativa come sottoprodotto. Ma, in tal caso, detta qualifica potrà essere negata, con conseguenze anche di tipo penale, non perché i trattamenti cui è sottoposto il residuo siano difformi dalle “norme UNI… Bref o dei manuali di settore” ma in quanto l’utilizzo del sottoprodotto risulterebbe contrario ad una prescrizione di autorizzazione e quindi non “legale”, in violazione della lett. d) dell’art. 184-bis cit. (Il che significa che quel residuo, oggetto del medesimo tipo di “trattamento”, qualora impiegato in un altro processo produttivo assentito da una autorizzazione che non richiami le stesse norme UNI, ben potrebbe legittimamente configurarsi come sottoprodotto, in presenza delle altre condizioni di legge).
[62] Cfr. Cass. Sez. III del 16.12.2003 (Ud. 29/10/2003 – 16/12/2003, n. 47904, nella fattispecie è stata affermata la piena legittimità dell’impiego dei “sottoprodotti” consistenti in trucioli di plastica in miscelazione con altra materia prima ai fini della produzione di “tubi in plastica”.
[63] Distingue nettamente le due fasi produttive, quella di formazione del sottoprodotto (nel caso di scarifica del manto stradale vecchio) e l’altra, distinta, di lavorazione (tramite miscelazione, in un distinto e succssivo processo produttivo di utilizzazione che, ripsetto al primo, si preesnta come un “posterius”), la Cassazionecitata a nota precedndete che,sul punto, osserva:“… Ed a tale ultimo proposito le obiezioni del ricorrente P.M., traenti spunto dalla circostanza che l’impiego produttivo dei macinati richieda la “miscelazione” con materia prima vergine… non colgono nel segno, atteso che tale commistione e’ un posteriusrispetto al procedimento in considerazione, non implica alcun trattamento modificativo comporta solo l’unione, nella fase produttiva de qua, di sostanze del tutto omogenee sotto ogni profilo fisico-chimico” .
In definitiva, una volta che sia stato generato, da un processo produttivo che ha un diverso “scopo primario” – ed esso possa essere “utilizzato direttamente”, con o senza i trattamenti della n. p. i. – il sottoprodotto acquista la qualifica di merce o prodotto che gli consente di ricevere, nel nuovo processo produttivo, a) qualsivoglia impiego: a) da solo o come componente, con altre materie prime, di una miscelazione; b) e qualsiasi trattamento (anche quello che gli farà perdere la sua identità per realizzare un nuovo prodotto, affatto diverso). La miscelazione, sub a) non va confusa con quella che fa perdere l’identità al residuo-rifiuto, essendo il sottoprodotto (sostanza od oggetto) già fuoriuscito dall’area di pertinenza (della gestione) dei rifiuti, prima e al momento del suo utilizzo.
[64] Ed infatti la norma UNI cit. definisce una specifica tipologia di conglomerato (il conglomerato bituminoso di recupero) nei termini seguenti :
“conglomerato bituminoso recuperato mediante fresatura degli strati di rivestimento stradale, frantumazione delle lastre provenienti da squarci di pavimentazioni asfaltiche, blocchi provenienti da lastre asfaltiche, e conglomerato bituminoso proveniente da scarti di produzione e sovra-produzione”.
Il fresato, dal tenore letterale di tale norma “volontaristica”, rientra quindi a pieno titolo tra le componenti di una specifica tipologia di conglomerato, vale a dire quello “di recupero”; la locuzione definitoria di tale “prodotto” va però bene intesa: il termine recupero – che troviamo nel testo delle prescrizioni UNI – non viene usato secondo il lessico della normativa sui rifiuti, ma impiegato come sinonimo di ottenuto/realizzato ”…. dalla fresatura degli strati di rivestimento stradale…ecc.” per contrapporlo a quello ottenuto/realizzato con materie prime.
Sotto altro profilo, non può condividersi la tesi secondo cui le caratteristiche del sottoprodottonon potranno che corrispondere a quelle definite dalle norme Uni per la materia prima utilizzata nel processo produttivo. Tale affermazione di principio, sprovvista di alcun supporto di diritto positivo, finirebbe con il comportare la sostanziale sterilizzazione o inapplicazione dell’art. 184-bis. D’altronde, anche da un punto di vista tecnico-merceologico e logico, non si vede come possa pretendersi tale “corrispondenza di caratteristiche” fra uno scarto di produzione qual è il sottoprodotto – che conserva comunque le tracce (indesiderate) delle sostanze impiegate nel processo produttivo, tanto da poter essere trattato secondo la n. p. i. – e una materia prima primaria (che, per definizione, non risulta interessata da alcuna precedente manipolazione). In definitiva, i sottoprodotti costituiscono pur sempre dei residui produttivi che, per la loro origine, rivestono caratteristiche diverse (il più delle volte inferiori e/o peggiori) rispetto a quelle delle materie prime “vergini”, tali da richiedere, sovente, appositi trattamenti, nella fase preparatoria, “non diversi dalla n.p.i.” prima di essere introdotte nel nuovo processo di utilizzo, in cui subiranno, senza alcun limite, ulteriori lavorazioni, unitamente ad latro materiale, per la fabbricazione del prodotto finito (v. retro) Insiste sulla necessità di tener distinte le norme tecniche sul “prodotto finito” da quelle relative alla “materia prima secondaria”; e le norme tecniche poste per quest’ultima (m.p.s. ottenuta dalle attività di recupero dei rifiuti) da quelle che possono riguardare il sottoprodotto A. Pierobon, in Studio Pierobon, Ancora sui sottoprodotti: una sintesi (terza parte). A mio avviso gran parte degli equivoci che l’A. evidenzia (e intende superare) nel suo scritto verrebbero semplificati, se non superati del tutto, ove si distinguessero: 1) i due processi produttivi: quello in cui si forma il sottoprodotto e il secondo in cui quest’ultimo viene utilizzato e 2) non si identificassero, come suggerisce la Cassazione, i trattamenti della prima fase con quelli della seconda (afferenti il processo di utilizzo). Come ripetuto nel testo, l’area dei “trattamenti” da individuare (come n. p. i. ) si riferisce all’attività del produttore o agli interventi del terzo, prima del riutilizzo, (con i limiti funzionali ad una migliore utilizzazione di un materiale che ha già le caratteristiche del prodotto). I trattamenti del processo produttivo sub 2), sono del tutto liberi e possono trasformare radicalmente l’identità del sottoprodotto sino a trasformarlo in un prodotto del tutto diverso (come quando esso viene utilizzato come materia prima o semilavorato). In questo senso, cfr. A. Muratori,Sottoprodotto: La Suprema Corte in difesa del sistema tolemaico?, in Ambiente&Sviluppo, n. 7/2012 , pag. 605 e ss. (v. npta 15, pag. 609).
[65] Così D. Roettgen , Fresato d’asfalto, in Ambiente&Sviluppo, 2013 cit. che si domanda: “I Giudici confermano comunque che la classificazione di un oggetto o di una sostanza come sottoprodotto è sempre soggetta a una valutazione ‘caso per caso’… Considerato che l’accertamento della effettiva sussistenza delle condizioni stabilite dall’art. 184bis sarà comunque demandato, a impianto realizzato e con tutte le incertezze che ne derivano, alle competenti autorità di controllo, è da chiedersi se gli operatori coinvolti non giungano a una maggiore certezza del diritto optando per la strada della classificazione come rifiuto e della exit strategy non per via del meccanismo del sottoprodotto, bensì del c.d. endofwaste (EoW cessazione della qualifica di rifiuto). Com’è noto, il concetto dell’endofwaste è da tenere ben distinto dalla nozione di sottoprodotto. Nel caso del sottoprodotto, si pone la questione se questo sia divenuto un rifiuto. Nel caso dell’endofwaste, al contrario, è indubbio che la sostanza o l’oggetto abbia rivestito in precedenza la qualifica di rifiuto; il punto di domanda riguarda piuttosto se questo abbia o meno cessato di essere un rifiuto”.
[66] Aggiunge detto A. che: “ … La classificazione del fresato d’asfalto come rifiuto (cfr. anche il punto 7.6 dell’Allegato 1, Suballegato 1, al Dm 5 febbraio 1998) si porrebbe in linea con la qualifica avvenuta ad opera della stessa Cassazione (Cass. pen., n. 39568 del 28 ottobre 2005) che richiamando una propria precedente pronuncia (Cass., sez. III, n. 16695 dell’11 febbraio 2004 – aprile 2004), ha confermato che “il fresato di asfalto proveniente dal disfacimento del manto stradale costituisce rifiuto” (idem Cass. pen., n. 7374 del 24 febbraio 2012, che ha escluso la natura di sottoprodotto dello scarificato del manto stradale, anche alla luce della nuova definizione dei sottoprodotti di cui all’art. 184bis, Dlgs n.152/2006)”.
[67] Tale conclusione ho condiviso con un attento interprete della normativa in esame (e collega), M. Petronzi, il quale ha osservato che, in un’ottica difensiva, a fronte della contestazione di una condotta che presupponga la qualificazione, come rifiuto, del residuo utilizzato, sarà ovviamente tutto interesse dell’imputato dimostrare la ricorrenza delle condizioni descritte dall’art. 184 bis.
Soprattutto della condizione sulla certezza di utilizzo la cui prova difficilmente può prescindere dal contributo del soggetto coinvolto. Per questo motivo la questione sull’onere della prova, così intesa, può essere ridimensionata per il suo scarso rilievo pratico-processuale.
[68] Così D. Roettgen, op. cit., che aggiunge: “ Ciò, anche in considerazione del fatto che, a differenza di quanto avviene nel caso del sottoprodotto, costituisce prassi comune rendere l’end of waste oggetto di una pedissequa regolamentazione di dettaglio in una autorizzazione fornendo, di conseguenza, all’individuo un grado maggiore di certezza di diritto rispetto a quello che caratterizza la materia dei sottoprodotti…”.
[69] V. P. Giampietro, I trattamenti del sottoprodotto, cit, parr. 2 e 3 dove sono commentate, criticamente, le seguenti sentenze della S.C.: 13 aprile 2011, n. 16727, Spinello; 25 maggio 2011, n. 34753, Mosso; 6 dicembre 2011, n. 45023, Negrini – Cucchella; 18 gennaio – 22 febbraio 2012, Fiorenza; 10 maggio 2012, n. 17453, Busé, con citazione della dottrina e dei precedenti giurisprudenziali.
[70] Proprio in tema di fresato, la quale così argomenta: “Risulta pacificamente in atti, invero, che il materiale de quoveniva utilizzato – per preparare il conglomerato bituminoso, prodotto in quel luogo dalla menzionata ditta nelle condizioni in cui è stato trovato, senza cioè subire alcun trattamento; seppure certamente ricavato dalla triturazione di manti stradali rimossi, è dato per scontato e non è contestato neanche nella prospettazione accusatoria, infatti, che la triturazione di questi avvenisse altrove. Dunque nel piazzale della ditta CO.E.ST. era accumulato materiale che di sicuro veniva interamente utilizzato, sebbene con l’aggiunta di altri (inerti, bitume, acqua), nel “normale ciclo produttivo” del conglomerato bituminoso, del quale – quindi – il detentore non solo non si era disfatto, ma si guardava bene dal farlo, rappresentando comunque un valore economico, pur se probabilmente modesto, per la sua attività…”.
[71] La sentenza – commentata da P. Giampietro, Il fresato d’asfalto come sottoprodotto, in lexambiente.it 19.10.2011, pagg. 38/39 – prevede come ammissibile il trattamento di macinazione (di materiale plastico) e la successiva miscelazione di detto materiale, preventivamente macinato, nel nuovo processo di utilizzazione in questi termini: : “ Ed a tale ultimo proposito le obiezioni del ricorrente P.M., traenti spunto dalla circostanza che l’impiego produttivo dei macinati richieda la “miscelazione” con materia prima “vergine…, non colgono nel segno, atteso che tale commistione e’ un posterius rispetto al procedimento in considerazione, non implica alcun trattamento modificativo comporta solo l’unione, nella fase produttiva de qua, di sostanze del tutto omogenee sotto ogni profilo fisico-chimico” .
[72] V. P. Giampietro, “Il fresato d’asfalto come sottoprodotto, cit. , par. 7.5., pag. 32, in lexambiente.it 19.10.2011, con tabelle sulle produzioni europee di fresato e sulle percentuali di riutilizzo sulla base dei dati forniti da EAPA, 2009, (European Asphalt Pavement Association). Per aggiornamenti, D. Roettgen,Il fresato d’asfalto – Sottoprodotto o rifiuto, cit.
[73] E quindi, in sua perdurante assenza, il mercato resterebbe, allo stato, comunque paralizzato.
[74] Basti pensare alla nuova tipologia di reati relativi alla gestione dei rifiuti ….(!?) che il Governo ha introdotto, nelle nuove prescrizioni sui materiali da scavo, di cui a D.M. 161/2012, in barba alla riserva di legge in materia penale. In proposito v. P. Giampietro, Il nuovo statuto delle terre e rocce, in lexambiente, 2012, cit.
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Il sottoprodotto, il fresato d’asfalto e la “normale pratica”
di Pasquale Giampietro, Alfredo Scialò
1. La vicenda oggetto dell’appello
Con la recente sentenza n. 4151 del 21 maggio – 6 agosto 2013[1], il Consiglio di Stato ha lucidamente (e finalmente) chiarito, in modo univoco, che il fresato d’asfalto, originato dai lavori di manutenzione/ricostruzione della pavimentazione stradale, al pari di qualsiasi altro residuo produttivo, può essere qualificato come “sottoprodotto”[2] in presenza ovviamente delle “condizioni” di cui all’art. 184 bis, comma 1, del D.lgs. 152/2006 e s.m.i. [3] (in prosieguo, anche TUA).
Il principio di diritto, affermato in sentenza, si presenta – per molti profili – di portata rilevante poiché consente, innanzitutto, di superare, con l’autorevolezza dell’alto Consesso amministrativo, le resistenze manifestate, in forma diffusa e reiterata, dalla più parte delle amministrazioni provinciali che, nella presenza di precedenti giurisprudenziali contrari[4], anche dopo l’introduzione della nozione giuridica del “sottoprodotto”[5], hanno continuato ad attribuire a tale materiale la qualifica di “rifiuto,” ex art. 183, comma 1, lett. a) del T.U.A. Indifferenti al fatto che gli operatori di settore mettessero in luce, già da tempo e in modo documentato, come l’impiego del fresato avvenisse secondo un ciclo di riutilizzazione il quale, non comportando trattamenti “diversi dalla normale pratica industriale”, non ricadeva (e non ricade) nelle operazioni di recupero dei rifiuti, ex art. 183, comma 1, lett. t) del T.U. cit.
2. Le prassi provinciali di escludere la qualifica di sottoprodotto al fresato
Nelle prassi amministrative si è operata, da tempo, una distinzione – nel considerare il “fresato stradale”[6] come rifiuto o sottoprodotto – rispetto a due vicende così connotate:
a) il fresato[7] – generato dalla rimozione (tramite fresatura) degli strati superficiali del manto di asfalto, svolta da ditta appaltatrici dei lavori di rifacimento e/o manutenzione delle strade – viene trattato dalla medesima ditta (mediante riselezione e frantumazione) al fine di produrre, utilizzando appositi impianti mobili in situ (cioè all’interno del cantiere), conglomerati bituminosi destinati alla loro immediata riutilizzazione, per gli stessi scopi;
b) Il fresato, prodotto dalla stessa società appaltatrice (come sopra), viene trasferito ad altro soggetto, il c.d. “utilizzatore” il quale produce conglomerati bituminosi, impiegando tale residuo produttivo nel proprio (distinto) ciclo di produzione, e dunque presso il proprio impianto (il fresato sarà miscelato con altra “materia prima primaria”[primary raw material]”). Sicché, in tal caso (che, è quello preso in esame dalla sentenza in commento), il fresato:
1) viene generato dalla società appaltatrice dei lavori di fabbricazione e/o manutenzione stradale; 2) per essere poi consegnato ad imprese terze, che lo utilizzano, nel proprio ciclo produttivo; 3) come uno dei materiali utili (e concorrenti con altre materie) alla produzione di nuovo conglomerato bituminoso.
Le uniche ipotesi in cui sovente è riconosciuta la qualifica di sottoprodotto, risultano quelle di utilizzo in situ del fresato, da parte della stessa ditta appaltatrice delle opere di realizzazione/manutenzione stradale, per la produzione di conglomerati bituminosi, all’interno delle medesime attività da cui sono generati (sub a), con esclusione della ipotesi di cessione a terzi (sub b).
A sostegno dei menzionati approcci restrittivi si adducono, abitualmente, le seguenti ragioni:
1) il fresato è contemplato dal Codice europeo dei rifiuti (CER) che gli attribuisce un determinato numero: il 170302;
2) questo materiale risponderebbe alla nozione di sostanza di cui il detentore si “disfa,” ex lett. a) dell’art. 183 cit., con riferimento tanto al proprietario della strada (da cui è prelevato il fresato), quanto alla società appaltatrice, che, in veste di produttrice/detentrice, lo destinerebbe al “recupero”, consegnandolo a terzi, ex art 183, lett. t);
3) il fresato, in base ad alcuni contratti d’appalto, deve essere smaltito in discarica, salvo che sia recuperato come rifiuto;
4) esso è previsto e disciplinato, come rifiuto, dal DM 5.2.98, sotto la voce 7.6[8] e 7.1 (modificata dal DM 5.4.06).
Dalla qualifica del fresato, come rifiuto, è fatto derivare – ovviamente – un regime giuridico particolarmente oneroso per il suo utilizzatore che sarà sottoposto ad una serie di prescrizioni (dettate dalla parte IV del T.U.A.), per il suo stoccaggio, trasporto, trattamento e, più in generale, per la sua gestione.
La natura giuridica di rifiuto – assegnata al fresato – si ripercuote inevitabilmente sulle attività delle imprese produttrici di conglomerati bituminosi, intenzionate ad utilizzarlo, nel proprio ciclo produttivo, unitamente alla materia prima vergine, che vedono assoggettare il proprio impianto, prima ancora di realizzarlo e metterlo in esercizio, ad oneri procedimentali assai rilevanti, in termini finanziari, burocratici e temporali, come la sottoposizione, per es.:
– alla procedura di VIA, per valutare gli impatti ambientali derivanti dallo stabilimento, nonché ad altre procedure autorizzatorie ambientali (ad es. la valutazione di incidenza obbligatoria, qualora l’impianto ricada in area SIC-“Sito di interesse comunitario”);
– alla richiesta di autorizzazione per svolgere il recupero ordinario, ex art. 208 del T.U.A. o semplificato del fresato, ex art.214-216 del TUA, con l’osservanza delle previsioni della voce 7.6. del D.M. del 1998;
– al rispetto delle prescrizioni e precauzioni dettate dalle autorità amministrative per evitare conseguenze connesse dalla gestione di fresato che potrebbe contenere inquinanti provenienti dalla superficie stradale (come ad es. impermeabilizzazioni delle aree di stoccaggio, raccolta delle acque di prima pioggia, con scolmatore, ecc.);
– alle disposizioni sulla tracciabilità del fresato dal luogo di formazione a quello di trattamento, sino al reimpiego nel rispetto del vigente “sistema integrato per il controllo e la tracciabilità dei rifiuti” (il cd. SISTRI introdotto dall’art. 189, comma 3 bis del T.U.A. e s.m.i.).
In sostanza, appare evidente che la scelta della più parte delle amministrazioni provinciali di applicare un duplice binario per il fresato, [9] va riesaminata allo scopo di verificarne la compatibilità con la vigente normativa in tema di sottoprodotti, come accertato dal TAR Lombardia, con la sentenza n. 2182/2012, avallata dal Consiglio di Stato, con la pronuncia in esame.
Tanto più che tale doppio regime (come sottoprodotto o come rifiuto a seconda della collocazione degli impianti in situ o all’esterno del cantiere, con utilizzazione in loco o aliunde) non sembra trovare serie giustificazioni tecniche o ambientali (al di là di un generico sospetto….. che accompagna la movimentazione del fresato da un luogo all’altro) ove si rifletta che, in entrambe le ipotesi, il fresato:
– deriva dal medesimo ciclo produttivo di origine (lavori di pavimentazione stradale);
– conserva la stessa formazione e composizione chimico-fisica;
– registra la medesima (eventuale) presenza di contaminanti (nei limiti ammessi: v. oltre);
– viene sottoposto agli stessi trattamenti (selezione, macinazione, ecc.)
A cambiare, in queste ipotesi, risulterebbe soltanto il luogo dove il fresato sarà riselezionato e ridotto granulometricamente per costituire una componente della produzione del nuovo conglomerato bituminoso[10].
In definitiva – a fronte di una prassi amministrativa ostile al riutilizzo del fresato da parte di terzi (non in loco), anche a fronte della sopravvenuta disciplina del “sottoprodotto” (che avrebbe dovuto mettere in forse o comunque indurre a rivedere il pre-giudizio consolidato sull’equivalenza definitoria fresato = rifiuto ovvero fresato ceduto a terzi = fresato “disfatto”) – risulta quanto mai utile e convincente (oltre che molto attesa.. dagli operatori) la sentenza n. 4151/2013 del supremo organo di giustizia amministrativa il quale, nel valutare il caso sottoposto alla sua attenzione, previa conferma della decisione del TAR Lombardia, ha riportato il “fresato” nell’ambito del sottoprodotto, argomentando sulla correttezza di tale qualificazione, ovviamente nel concorso di determinate “condizioni”, proprio nell’ipotesi più critica di lavorazione di questo materiale da parte di terzi.
3. Gli argomenti addotti dall’appellante
Nel corso del processo amministrativo, la Provincia di Monza e della Brianza – nel censurare la sentenza del T.A.R. Lombardia (la n. 2182/2012[11]) – aveva rilevato fra l’altro, con il suo appello incidentale, che il fresato:
– era da classificare come rifiuto speciale (codice CER 17.0.002), cioè materiale di risulta ricavato dalla demolizione di fondi stradali e, conseguentemente, da definire come residuo recuperabile non utilizzato come tale, nell’impianto di cui si chiedeva l’autorizzazione;
– originava, inoltre, da lavori di manutenzione stradale, e non da un processo di produzione, di cui costituiva parte integrante, pur non essendone lo scopo primario e, pertanto, non aveva le caratteristica del “sottoprodotto”, di cui all’art. 184 bis, del d. lgs. n. 152/2006;
– veniva poi ceduto dalla ditta appaltatrice dei lavori di manutenzione ad un impianto di betonaggio che lo impiegava nel suo ciclo produttivo di conglomerati bituminosi[12] (e non nel luogo in cui era generato, a seguito della dalla fresatura della strada).
4. Primi rilievi sulla motivazione: il significato del CER
Nel confermare la correttezza della pronuncia di primo grado, il Consiglio di Stato ha avuto modo di esaminare, partitamente, le motivazione provinciali citt. rilevandone la erroneità alla stregua della vigente disciplina sulla gestione dei residui produttivi, con specifico riferimento alla pregiudiziale e decisiva distinzione tra rifiuti e sottoprodotti – ribadendo, in premessa che:
– l’inclusione del fresato: 1) nel catalogo CER e contestualmente 2) tra i rifiuti recuperabili, ex D.M. del 5/2/98, non è di per sé ostativa alla qualificazione di detta sostanza come sottoprodotto. Perché, anche in questa evenienza “… si tratta di verificare, dal punto di vista sostanziale e fattuale, se la fresatura d’asfalto rivesta i requisiti indicati dalla norma di cui all’art. 184 bis per essere considerata sottoprodotto e non rifiuto speciale”. Come dire che – pur in presenza dei presupposti indicati dalla Provincia, possono, nel caso concreto, sussistere tutte le condizioni elencate dall’art. 184-bis cit. perché una determinata sostanza rivesta, fin dall’origine, i requisiti del sottoprodotto che, ovviamente, sono logicamente e giuridicamente incompatibili con la qualifica di rifiuto (come sottolinea la frase di esordio della norma cit. secondo cui “ E’ un sottoprodotto e non un rifiuto, ai sensi dell’art. 183, comma1, lett. a),…. qualsiasi sostanza .. che soddisfa…” ecc.).
La dimostrazione dell’assunto è fornita da quel Collegio, tramite un richiamo essenziale a precedenti giurisprudenziali dei quali val la pena riprodurre i seguenti passaggi:
“… Data la novità della classificazione del sottoprodotto rispetto a quella contenuta nel codice CER, la giurisprudenza amministrativa ha già considerato non vincolante la classificazione recata dal codice CER anteriore alla definizione dei sottoprodotti alla stregua dei criteri sostanziali dell’art. 184 bis giungendo, per alcune sostanze classificate come rifiuto, al riconoscimento come sottoprodotto (quali la pollina, Cons. St. Sez. IV, 28.2.2013, n. 1230). Anche la Cassazione penale (Sez. III, 14.6.2012, n. 28609) giudica essenziale, ai fini della qualificazione di una sostanza come sottoprodotto, la sussistenza contestuale di tutte le condizioni richieste e l’assenza di trasformazione preliminare ai fini del riutilizzo, oltre alla circostanza che il materiale sia destinato con certezza e non come mera eventualità ad un ulteriore utilizzo” (v. capo 13).
E, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale evocato, la decisione conclude nel senso che, per accertare la natura giuridica del fresato:
“… si tratta dunque di verificare, dal punto di vista sostanziale e fattuale, se la fresatura d’asfalto rivesta i requisiti indicati dalla norma di cui all’art. 184-bis per essere considerata sottoprodotto o rifiuto speciale”
Non può che condividersi tale impostazione che appare saldamente ancorata al dettato normativo, così come interpretato dalla giurisprudenza, amministrativa e penale richiamata, secondo la quale, dall’inclusione nel C.E.R. del fresato, non può trarsi alcuna fondata conclusione in merito alla qualificazione giuridica dello stesso (come rifiuto o sottoprodotto) in assenza di una effettiva volontà di disfarsi (del fresato) da parte del relativo produttore e/o detentore (per giurisprudenza e dottrina pacifiche).
E, del resto, anche nella “Introduzione” all’Allegato D), della Parte Quarta del T.U.A. cit., si legge che:
“… la classificazione di un materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’art. 1, lettera a) della direttiva 75/442 CEE” (definizione oggi trasposta nell’art. 183, comma 1, lett. a), del TUA ) e non se esso è previsto dal CER.
Ad assumere carattere dirimente, ai fini della qualificazione di un dato materiale (nella specie, del fresato stradale) come rifiuto o piuttosto come merce (sottoprodotto), resta quindi la volontà di colui che produce e/o detiene detto materiale. Solo qualora quest’ultimo intenda “disfarsene”, lo stesso si potrà configurare come un rifiuto.
Pertanto, il Collegio ha potuto fondatamente osservare che la qualificazione del fresato, piuttosto che derivare dalla sua inclusione nel C.E.R., dovrà farsi discendere da un’attenta disamina della sua origine, caratteristiche e impiego, finalizzata a verificare:
(1) l’effettiva volontà del produttore/detentore e:
(2) la presenza, in concreto, delle condizioni poste dalla legge, elencate dall’art. 184-bis cit., che servono, appunto ad accertare le modalità dell’effettivo diretto riutilizzo, incompatibile con la “volontà” di disfarsi del residuo produttivo[13].
5. L’inclusione fra i rifiuti recuperabili
Entrando nel merito dei vizi di legittimità della diffida provinciale[14], il Consiglio, richiamandosi, testualmente, e facendo proprio un rilievo del giudice di primo grado, osserva, che seppure “…il fresato d’asfalto viene generalmente classificato come rifiuto in quanto come tale disciplinato dal DM 5.2.1998 e contemplato dal codice europeo dei rifiuti, nondimeno possa essere trattato alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito” (v. capo 11, della sentenza).[15]
Anche questa assai sintetica considerazione appare corretta – in punto di irrilevanza giuridica, ai fini definitori, della inclusione di una tipologia di residuo (come il fresato) nell’ambito del D.M. 5.2.1998 e s.m.i.[16] (alla voce 7.6[17]) – in consonanza con una consolidata giurisprudenza comunitaria (oltre che nazionale) che, da oltre dieci anni, ha chiarito – in linea ad principio – come, alla previsione di specifici metodi di trattamento o di recupero dei rifiuti, “… non consegue necessariamente che qualunque sostanza trattata con uno di tali metodi debba essere considerata un rifiuto…”.
La Corte europea ha infatti, chiarito, in termini vincolanti, con riferimento alla (corretta) interpretazione del diritto comunitario, che “… il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto. Infatti la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non ha incidenza sulla natura di rifiuto, definita, conformemente all’art. 1 lett. a) della direttiva” (e cioè alla definizione di rifiuto oggi riprodotta nell’art. 183 cit. del TUA). Le stesse attività di trasformazione o di trattamento (come quelle di “recupero” descritte dal D.M. 5.2.1998), osserva la stessa Corte, possono interessare tanto la materia prima che il rifiuto[18].
Come dire che, ai fini della qualificazione in oggetto, occorre dare rilievo alla sussistenza della volontà di disfarsi della sostanza o dell’oggetto e tale volontà non può farsi discendere dalla destinazione ad un tipo di attività astrattamente ricompresa (in sede normativa) tra quelle che possono (anche) perseguire finalità recuperatorie (del rifiuto).
Piuttosto, si dovrà procedere ad un’attenta disamina della singola fattispecie per valutare se ricorrano in concreto gli elementi costituitivi della definizione di rifiuto o piuttosto quelli del sottoprodotto, partendo appunto dalla volontà del produttore/detentore della sostanza (come rileva la decisione, in esame, che invita a prestare attenzione alla circostanza che il fresato . “ ….venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo …..[19]”).
Sotto altro profilo, con riguardo a tale ultimo aspetto, non si può fare a meno di rilevare che l’impostazione e i contenuti del D.M. 5.2.1998, “risentono” di una (in quanto danno attuazione a ) risalente normativa, introdotta dal decreto Ronchi del ’97 (poi abrogato dal T.U.A. del 2006) che non conosceva formalmente e non regolava espressamente la categoria del sottoprodotto e, conseguentemente, le sue condizioni di esistenza (definite, in sede comunitaria, nel 2008)[20].
In conclusione, nell’attuale sistema normativo, laddove la figura del sottoprodotto ha trovato finalmente pieno, formale riconoscimento e una sua specifica disciplina, deve ritenersi, così come osservato in sentenza, che la teorica recuperabilità di un dato residuo, secondo una delle attività elencate dal D.M. cit. tra le attività di recupero – ove il suo detentore intenda disfarsene, recuperandolo – non possa essere ostativa alla qualifica dello stesso come sottoprodotto, nella distinta ipotesi in cui il soggetto interessato voglia utilizzarlo direttamente o indirettamente (trasferendolo a terzi), nel rispetto delle condizioni dell’art. 184-bis, “tal quale” o previo trattamento, se del caso, ricadente nella “normale pratica industriale” (v. oltre), attese le peculiari caratteristiche di alcuni residui produttivi.
Pensare altrimenti significherebbe, fra l’altro, porre un limite sostanziale alla nuova categoria del sottoprodotto ad opera di una fonte regolamentare che disciplina il distinto settore dei rifiuti e che si porrebbe in contrasto con una fonte primaria (art. 184-bis), oltre che successiva e incompatibile con le norme del decreto Ronchi (cui il D.M. del 1998 dava attuazione e nel quale non era formalmente riconosciuta tale categoria giuridica). [21]
6. La verifica delle singole “condizioni” dell’art. 184-bis
Dopo aver confutato i due presupposti logico-giuridici della tesi provinciale, sopra esaminati, i giudici d’appello – accreditando la motivazione del TAR lombardo sulla asserita ricorrenza, nella specie, delle quattro “condizioni” poste dall’art. 184-bis – hanno concluso, in poche battute, ribadendo che il fresato era stato correttamente qualificato come sottoprodotto perché:
“… il metodo di verifica utilizzato dal Tar” aveva “tenuto conto delle seguenti circostanze: che 1) il bitume d’asfalto si inserisse nel processo produttivo dell’impianto; 2) che venisse rimosso con la certezza di essere integralmente riutilizzato; 3) che non venisse sottoposto ad un processo di trasformazione; 4) che venisse riutilizzato in tempi ravvicinati (quotidianamente) rispetto al prelievo, 5) senza particolari operazioni di stoccaggio; 6) che non si potesse porre a priori in senso assoluto il problema di doversene disfare, essendo esso sempre riutilizzabile e riutilizzato” (la numerazione dei motivi è nostra e non del testo originale).
A conforto ulteriore delle proprie conclusioni, il Consiglio evoca i noti criteri dell’ordinamento dell’U.E., afferenti il sottoprodotto, desunti dalla giurisprudenza circa:
a) il lucro economico connesso al riutilizzo della sostanza; b) la conseguente volontà di non disfarsi di essa; oltre c) alla certezza del riutilizzo, d) “nel corso del processo produttivo”: e) nell’assenza di trasformazioni preliminari.
Questo l’ultimo passo della motivazione sul tema della natura del fresato:
(capo 15) . “.. Le conclusioni cui è giunto il Tar sono in linea non solo con la normativa interna, ma anche con la giurisprudenza comunitaria secondo cui, quando oltre che riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, “la sostanza non può essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico prodotto” (CGCE sent. 18 aprile 2002, causa C9/00 Palin Granit)[22] . Secondo la giurisprudenza europea “E’ ammesso, alla luce degli obiettivi della direttiva 75/442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi, ai sensi dell’art. 1, lett. a) della Direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione” (sent. 11 settembre 2003, causa C114/01, Avesta Potarit Chrome).
6.1 Il requisito di provenienza: origine del fresato d’asfalto, parte integrante del processo produttivo
Oltre ai motivi già ricordati, la Provincia di Monza e della Brianza, nel suo appello incidentale, aveva rilevato – a sostegno della qualifica di rifiuto del fresato – che tale materiale non avrebbe rispettato il requisito d’origine dei sottoprodotti, ex art. 184-bis, comma 1, lett. a), in quanto, nel caso, esso non deriverebbe da un processo di produzione, trattandosi di un “.. materiale di risulta ricavato dalla demolizione di fondi stradali” (v. capo 9, della decisione).
In verità tale assunto non è stato oggetto di alcun rilievo da parte del Collegio d’appello, che ha ritenuto di superare implicitamente (con la tecnica dell’assorbimento) la censura, affermando in via generale, come già ricordato, la ricorrenza, nella specie, di tutte le condizioni di legge (ivi compresa, implicitamente, anche quella “dell’origine della sostanza”).
Ma sul punto sarebbe stato invero più utile – per sgombrare definitivamente il campo da erronee interpretazioni dell’art. 184-bis (e quindi da futuri ulteriori tentativi di sottrarre il fresato alla possibilità di accedere al regime dei sottoprodotti) – una puntuale confutazione della tesi provinciale, che, del resto, risultata agevole alla luce delle effettive caratteristiche d’origine del materiale de quo.
La stessa questione, invece, non era sfuggita al TAR Lombardia che, respingendo la tesi provinciale, ha espressamente affermato che l’attività di scarifica, da cui proviene il fresato, va qualificata come “processo produttivo”, in questo univoco e limpido passaggio della sua motivazione (comunque confermato dal giudice d’appello):
(capo 2.3) : “… La gestione come sottoprodotto è invece molto più semplice e le motivazioni per cui il fresato dovrebbe essere considerato un “sottoprodotto” sono: a) che esso è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza (D.Lgs. 152 comma 1 art. 184 bis) ma il suo impiego: lo scopo per cui si fresa l’asfalto è, infatti, il rifacimento del manto stradale e non la produzione del fresato in quanto tale” (e il “rifacimento del manto stradale” rientra, per il TAR, in un “processo di produzione, di cui costituisce parte integrante” la formazione del fresato, come anticipato nella prima proposizione, riportata sopra).
L’argomento addotto dal Collegio di prime cure appare pertinente e conforme alla prassi industriale che si è consolidata nel settore della produzione e reimpiego del fresato. Basta, infatti, considerare che l’attività di costruzione, ricostruzione e/o manutenzione delle strade, da parte delle ditte appaltatrici dei lavori – sia che la si voglia considerare attività di produzione di beni (costruzione delle strade) che di svolgimento di servizi (di manutenzione ordinaria o straordinaria delle stesse), rientra, pur sempre in una attività industriale, ex art. 2195, comma 1, n. 1, del codice civile (che fa riferimento agli “….imprenditori che esercitano un’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi”[23]) – e ha come “scopo primario” tale specifica finalità (realizzazione di strade, esecuzione di manti stradali ecc.[24] ).
In conclusione, nell’esecuzione di questa attività di produzione industriale si origina, a seguito delle operazioni di scarifica e/o fresatura delle strade una “sostanza” (appunto il fresato) che non rientra nello “scopo primario” della produzione del bene o del servizio e, nondimeno, deriva necessariamente dal complesso delle operazioni descritte e dunque “costituisce parte integrante del processo di produzione” (così testualmente v., sopra, Tar Lombardia cit.).
Questa prima connotazione (l’essere parte integrante e fase di un processo produttivo articolato) costituisce – come è noto – ricezione, nel diritto interno, di quanto disposto dalla la lett. c) del par. 1, dell’art. 5, della direttiva 98/2008 CE, e, come rilevato, va riferita al momento genetico della formazione del fresato- sottoprodotto.
Risulta, pertanto, fuorviante, in termini tecnici e giuridici, la prospettazione (non solo di alcune province…) secondo cui il fresato sarebbe assimilabile ad un materiale di risulta dalla demolizione di fondi stradali perché la sua formazione va ricondotta – più correttamente – ad una unitaria attività industriale di costruzione, manutenzione, rifacimento ecc. della pavimentazione stradale nel cui ambito si colloca anche – come parte integrante dell’intero e unico processo produttivo – l’attività preliminare ed essenziale di scarifica, con conseguente formazione del residuo- produttivo fresato.
In altri termini, il legislatore (comunitario e nazionale) si è limitato a prescrivere che i sottoprodotti traggano origine “da un processo di produzione”, senza specificare alcunché in merito a quale debba essere l’oggetto dell’attività produttiva.
Ne deriva, sul piano logico e giuridico, che essa potrà consistere tanto nella produzione di beni che nella “produzione di servizi”.
E, del resto, la giurisprudenza della Cassazione, deputata per legge, ad assicurare l’uniforme interpretazione del “diritto oggettivo….” (secondo l’Ordinamento giudiziario), ha già sgombrato ogni dubbio in proposito, affermando testualmente, sul punto, che “… il processo che origina il sottoprodotto non debba essere necessariamente un “processo industriale” (come era testualmente prescritto, invece, dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, comma 1, lett. n), nella formulazione originaria) e possa essere, quindi, anche di produzione di un servizio”[25].
Ma v’è di più: l’attività di manutenzione stradale, laddove occorra sostituire superfici ormai logorate da elevati volumi di traffico, ecc., si “realizza”, in concreto – come già sottolineato – in due operazioni inscindibili: di preventiva rimozione di materiale (che genera il fresato) e di successiva produzione di un nuovo strato di pavimentazione, utilizzando fresato d’asfalto proprio od altrui (del terzo).
Nell’un caso o nell’altro il fresato resta sottoprodotto, fin dall’origine, anche se proviene da ditta terza, in quanto, una volta generato, non viene “disfatto” (anche qualora sia consegnato ad altra ditta) e non necessità di operazioni di recupero, per il suo riutilizzo, da parte del produttore o del terzo (v. oltre, par. 6.3. e 6.3.1.).
In definitiva, la c.d. manutenzione stradale – e cioè il “complesso di operazioni necessarie a conservare la conveniente funzionalità ed efficienza[26]” delle strade – comprende e si realizza nell’unitaria attività “produttiva” (della nuova superficie bituminosa) consistente nella scarifica/fresatura (con rimozione) della precedente pavimentazione e realizzazione della nuova.
In tale approccio, può correttamente affermarsi che il fresato d’asfalto deve essere qualificato come un residuo scaturente non tanto dall’erogazione di un “servizio” (anche se tale origine, come sottolineato, non esclude la nozione di sottoprodotto), ma da un unitario ed articolato processo di produzione (come perspicuamente affermato dal TAR Lombardia cit.).
Né vanno confusi sul piano tipologico – delle diverse attività industriale – i compiti tipici ed esclusivi delle imprese di demolizione con quelli diversi e propri delle società che svolgono lavori di costruzione e manutenzione delle strade in cui si inserisce, specificamente, anche l’attività di scarifica, funzionale alla ricostruzione o manutenzione del manto stradale. [27]
Pertanto non è corretto, sul piano tecnico, isolare la singola operazione di fresatura – al di fuori delle più complesse attività di realizzazione delle strade o delle pavimentazioni stradali nel cui ambito essa si pone (e va posta) – per attribuirle poi, sul piano giuridico, la diversa definizione di “attività di demolizione”. Con la finalità specifica (dichiarata o implicita) di qualificare poi i residui che derivano dalla “fresatura” come “rifiuti da demolizione”.
Senza dire, infine, come è stato già rilevato, che l’impresa – la quale compie la scarifica della strada nella ipotesi formulata – intende, prima ancora della sua formazione, utilizzare il fresato per ricavarne un vantaggio cioè per produrre direttamente o indirettamente (tramite terzi) ulteriore conglomerato bituminoso (risparmiando sui costi della “materia prima primaria” sostituita dal fresato). Tale sua volontà è inconciliabile con il “disfarsi”, anche quando il fresato viene ceduto ad altri.
In conclusione, non può dubitarsi che il fresato, diversamente da quanto affermato dal ricorso provinciale, viene generato nel processo produttivo principale (di rifacimento/manutenzione del manto stradale) e di detto processo fa parte integrante e ineludibile (la rimozione del vecchio manto stradale precede, necessariamente, la sua ricostruzione)[28] anche se non ne costituisce lo “scopo primario”.
6.1.1. Il fresato come rifiuto da demolizione: esclusione
Non si condivide, conseguentemente, la lettura prospettata, in via dubitativa, da un’attenta dottrina[29], secondo la quale “…. sarebbe piuttosto da chiedersi se, nell’individuazione del processo di produzione, non si debba invece fare riferimento alla stessa attività che genera il fresato, e quindi all’attività di scarifica del manto stradale che, in quanto attività di disfacimento del manto stradale, costituisce un’attività di demolizione finalizzata non a “produrre” qualcosa, ma a “togliere” qualcosa, circostanza, quest’ultima, che ratione materiae, escluderebbe che si sia in presenza di un processo di produzione ai sensi dell’art. 184bis.. “.
Appare evidente, infatti, per quanto appena esposto, la forzatura logico-giuridica implicita nell’isolare una singola operazione (di scarifica delle strade e rimozione) allo scopo di qualificare il fresato come materiale di demolizione, senza dare alcun senso, e comunque trascurando, la più complessa attività di impresa (in cui la “scarifica” va collocata e si inerisce funzionalmente) che si connota, invece, per la specifica finalità di produrre beni o servizi (fabbricazione/manutenzione delle strade, con formazione del fresato e riutilizzo del medesimo presso il processo produttivo di provenienza o presso terzi).
D’altronde, la stessa dottrina sembra voler abbandonare tale congettura – proprio con riferimento ai rifiuti di demolizione (in cui, si ripete, non rientra il fresato riutilizzato) – quando prospetta una ricostruzione della vicenda, opposta a quella sopra riportata, evocando una specifica fattispecie fatta oggetto di un noto precedente della CGCE, nei seguenti termini:
“ ….. appare comunque necessario ipotizzare un caso in cui il fresato di asfalto non debba essere qualificato come rifiuto. Infatti, già solo in base alla definizione di rifiuto di cui all’art. 183, comma 1, lett. a), Dlgs n. 152/2006, la nozione di rifiuto dovrà intendersi non applicabile qualora un’attività di demolizione sia deliberatamente finalizzata all’ottenimento di materiali ricercati in relazione ai quali il detentore non esplica, in nessuna delle fasi di gestione, un’attività di disfarsi (Cfr. Corte di giustizia C235/ 02 Saetti (2004), punto 45).” [30]
Si è osservato, altresì, che, anche ad ammettere che il processo di produzione sia unitario e vada ricondotto al “… processo di ricostruzione del manto stradale individuando conseguentemente nella strada asfaltata il prodotto principale (di cui il fresato sarebbe il sottoprodotto)”, non si configurerebbe la “contestualità” nella produzione del prodotto principale unitamente al sottoprodotto e, addirittura. il primo (bene primario) sarebbe successivo al secondo [31].
L’argomento, ancorché suggestivo, non convince sul piano giuridico (tanto da essere totalmente trascurato dal TAR Lombardia e dal Consiglio di Stato che pure erano avvertiti che il terzo produttore del conglomerato bituminoso interveniva in un momento successivo (e non contestuale, come si vorrebbe) a quello d formazione del fresato.
Le ragioni del nostro dissenso sono le seguenti:
1) la direttiva comunitaria e nazionale, nel porre le condizioni di esistenza del sottoprodotto, richiede che esso sia “originato da un processo di produzione” e costituisca “parte integrante dello stesso”. Il che significa che per il diritto positivo dell’U.E. non si pone alcun vincolo cronologico o tecnologico – di contestualità nella produzione ovvero di “prima e di poi” nella generazione dell’uno o dell’altro – sempre che sia (come nel caso) a) unitario “il processo di produzione” e ricorra b) il nesso che lega il sottoprodotto alla produzione (“di cui esso è “parte integrante”: nella specie “il processo di ricostruzione del manto stradale”, come ipotizza, in subordine, lo stesso A.);
2) secondo i noti principi interpretativi della norma giuridica e nel rispetto del canone del dato letterale (ex art. 12 Preleggi: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole”), appare doveroso rilevare che nell’art. 184-bis non si rintracciano i presupposti fattuali e costitutivi della contestualità della produzione (del prodotto e del sottoprodotto) né alcun riferimento a un “prima e a un dopo”. Pertanto, negare la qualifica, in oggetto, per circostanze fattuali non espresse (e dunque non imposte) dalla norma (ricacciando il sottoprodotto nella categoria del rifiuto, con conseguenze economiche e giuridiche – anche di rilevanza penale…. ), ci sembra una operazione azzardata;
3) alle stesse conclusioni induce una corretta lettura dell’art 5 della direttiva (oltre che della norma di trasposizione italiana), conforme al criterio interpretativo (espressivo del canone precedente), esposto dal noto brocardo: Ubi lex voluit dixit, ubi noluit, tacuit. Ebbene, come si rilevava, sopra, anche la norma cit. non pretende – nelle sue “condizioni” – alcuna contestualità né vieta una nascita del sottoprodotto prima del prodotto primario, nel caso in cui il residuo de quo origini da una fase anteriore, purché: a) ricompresa nell’ unitario processo produttivo e b) costituente parte integrante di detto processo (come non dubitano i giudici di primo e secondo grado citt.). Se il legislatore nulla dice sulla “contestualità” vuol significare che non l’ha voluta né tanto meno imposta!;
4) ai fini, poi, della sussistenza delle altre condizioni codificate, il fatto che manchi la “contestualità “ (cioè che il fresato sia generato prima del nuovo conglomerato bituminoso) non riveste alcuna incidenza negativa sui presupposti (lett. a/d) dell’art. 184-ter e, in specie, sulla “legalità dell’ulteriore utilizzo” e sugli “impatti complessivi sull’ambente e la salute” (ex lett. d). Sicché, in assenza di una previsione espressa, non si comprende la necessità di aggiungere – in via interpretativa – la prospettata “condizione” (della contestualità) neppure sul piano sostanziale di protezione della salute pubblica e della materici ambientali. Tant’è che, a parità di processo produttivo del fresato, quando esso viene riutilizzato nello stesso processo produttivo di provenienza, in loco, per produrre altro conglomerato bituminoso, si è frequentemente riconosciuta la qualifica di sottoprodotto, senza alcuna perplessità sul fatto che il fresato “nascesse” prima del nuovo c. b.;
5) è ben vero che la Commissione UE prospetta un “collegamento diretto “ del sottoprodotto “al processo produttivo del prodotto principale”. Ma, una volta riconosciuto tale collegamento diretto (fase di scarifica funzionale, coessenziale oltre che interna al processo tecnologico di produzione di nuovo manto stradale: v. retro), devesi ribadire che né la Commissione né – soprattutto – l’art. 5 della direttiva cit. (e l’art. 184-bis) impongono, come costitutiva della nuova categoria di sottoprodotto, la ulteriore condizione della “contestualità “.
6.1.2. Sulla presunta necessità di “condizioni” aggiuntive
Non sembra, da ultimo, ricevibile la successiva prospettazione secondo cui, se abbiamo ben inteso, il fresato dovrebbe essere sottoposto, per ottenere la qualifica di sottoprodotto, alle seguenti ulteriori condizioni:
“…. Appare dunque ragionevole escludere dal novero dei rifiuti il fresato utilizzato per il rifacimento degli strati di pavimentazione realizzati con miscele bituminose (assenza di catrame), qualora tale riutilizzo del materiale deliberatamente fresato avvenga 1) contestualmente alle operazioni di fresatura e 2) nello stesso sito oggetto delle operazioni stesse che comportano la produzione del predetto fresato 3) senza deposito o stoccaggio) e sempreché il fresato utilizzato sia 4) conforme alle norme ed alle specifiche prestazionali che ne regolamentano l’impiego” [32].
In estrema sintesi, del brano appena riprodotto, si condivide la giusta sottolineatura della idoneità costitutiva della volontà del produttore/detentore a definire un materiale – come sottoprodotto o come rifiuto – in termini di “disfarsi” o meno di esso, secondo la sentenza della CGCE (Saetti) cit. – e i requisiti di cui alla quarta condizione.
Sulla necessità, invece, della ricorrenza delle prime tre condizioni (la cui numerazione è nostra e non del testo) – non possiamo convenire perché, come si rileva di seguito, esse non sono in alcun modo richieste dall’art. 184-bis (se correttamente inteso) anche se postulate, senza alcun approfondimento, dalle due sentenze in esame.
6.2 L’utilizzo certo del fresato; nello stesso processo produttivo di provenienza; nella sua interezza e in loco: insussistenza delle ultime tre “condizioni”
1. Nel momento in cui la lett. b) dell’art. 184-bis dispone che “ è certo che la sostanza o l’oggetto siano utilizzati nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte del produttore o di terzi”, risultano superate (illegittime) – e dunque vietate – in base al dato normativo (e non solo interpretativo), tutte quelle prescrizioni, applicazioni e prassi amministrative che imponevano (e impongono) alle imprese di utilizzare il fresato-sottoprodotto solo 1. all’interno del processo produttivo di provenienza, 2. nello stesso sito di sua produzione, magari, 3. contestualmente alle operazioni di fresatura, e 4. integralmente, al fine di riconoscere a questo residuo produttivo, la qualifica di sottoprodotto (v. retro par. 2).
Tali condizioni, ove mai previste anche in sede di regolamentazione locale, provvedimentale e/o contrattuale si pongono, infatti, in rotta di collisione con l’odierno diritto, interno e comunitario, che – si ribadisce – prevede e consente che il residuo-sottoprodotto sia utilizzato anche in un distinto/diverso (rispetto a quello di provenienza) e successivo (anche in senso cronologico) processo produttivo e, dunque in un eventuale altro luogo (quello del terzo), e non contestualmente (alla sua formazione: tenuto conto del tempo necessario a trasferire il sottoprodotto [per es. il fresato] dal luogo di produzione al luogo del reimpiego) oltre che da produttori diversi (“utilizzazione da parte del ….terzo”[33]).
2. D’altronde, anche il tenore testuale della direttiva comunitaria del 2008 (v. lett. a) comma 1, dell’art. 5), nella sua asciuttezza lessicale, non lascia adito a dubbi: “è certo che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzato”.
E’ di tutta evidenza inferire da tale formulazione, che:
a) non viene specificato (e quindi imposto) chi debba essere l’utilizzatore (e pertanto esso potrà assumere, di volta in volta, del tutto legittimamente, la veste del produttore iniziale del fresato o quella del terzo – utilizzatore (non produttore), come ribadito dalla più recente giurisprudenza;
b) l’avverbio “ulteriormente”, con significato di “fase” tecnologica e cronologica necessariamente successiva di utilizzazione, autorizza l’interprete ad affermare che l’impiego del fresato seguirà, nel tempo, la sua produzione. Soprattutto in considerazione del fatto che, nell’ipotesi in cui il fresato sia destinato al terzo (produttore interno o comunitario…. di conglomerato bituminoso, nell’ambito del mercato unico integrato dell’U.E.), esso dovrà essere movimentato, nel territorio nazionale, nell’U.E. o nei paesi terzi e, dunque, dapprima a) depositato presso il produttore, poi b) trasportato nella sede del destinatario, e nuovamente c) stoccato, presso l’impressa terza, prima di essere lavorato (per produrre nuovo conglomerato), come qualsiasi altro prodotto![34].
Non ha, quindi, alcun supporto – logico, tecnico e giuridico – in mancanza di una prescrizione espressa ad hoc –[35] il presunto obbligo di “immediatezza” o contestualità fra produzione e utilizzo del fresato, come si legge nelle sentenze commentate.
Osserva il Consiglio di Stato, in proposito, che “… deve ritenersi corretto il metodo di verifica utilizzato dal TAR che ha tenuto conto che ……(il fresato) venisse riutilizzato in tempi ravvicinati (quotidianamente rispetto al prelievo), senza particolari operazioni di stoccaggio …”
Non solo tale prescrizione potrebbe essere tecnicamente diretta al solo caso del produttore e contestuale utilizzatore del proprio fresato – dato che la pretesa contestualità cronologica non sarebbe nemmeno immaginabile per la ditta terza che riceva da altri (e da altro luogo) detto prodotto….. Ma, anche nell’ipotesi del produttore/utilizzatore del proprio fresato (e non è il caso della sentenza in commento), la legge non prevede affatto tale contestualità/quotidianità rispetto al prelievo.
La direttiva cit. si limite a imporre che “ è certo che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzato” in un momento successivo (il verbo “essere” è coniugato al futuro..), senza aggiungere altri termini limitanti: “immediatamente” o “senza indugio”, ecc. (come avrebbe dovuto fare ove fosse questa la sua specifica volontà).
Parimenti, la norma italiana detta:
“E’ certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzata nel corso o di un successivo processo di produzione … o di utilizzazione….”. Sia che il fresato venga impiegato all’interno del processo di produzione di provenienza sia che “sarà utilizzato” da una ditta terza, in altro luogo (v. sopra), non sussiste alcuna prescrizione espressa o implicita che imponga l’immediatezza o, peggio, la ”quotidianità”…(?) fra produzione e utilizzo del fresato.[36] Ciò che rileva giuridicamente è la certezza del riutilizzo; mentre il passare di un tempo eccessivo e/o non tecnicamente giustificato/bile si configura semmai solo come “indizio” o “presunzione” di una (diversa) volontà contraria (di abbandono).
Ci sia permesso un ultimo richiamo:
c) merita porre molta attenzione sulla rilevanza e gravità di introdurre , in via interpretativa (giurisprudenziale o dottrinale), tale obbligo (dell’immediato riutilizzo) come nuova e ulteriore “condizione” da cui far dipendere la qualifica di “sottoprodotto” del fresato, non prevista dalla legge (interna e dell’U.E.).
Ove, infatti, si consolidasse l’opinione sulla necessità di questo requisito, esso diventerebbe non solo decisivo per la disciplina amministrativa del fresato (come sottoprodotto o rifiuto) ma assumerebbe una rilevanza dirimente anche ai fini della repressione penale…. Ed invero, il fresato non immediatamente utilizzato dal produttore o dal terzo – pur rispettando le quattro condizioni dell’art. 184-bis – ricadrebbe, secondo la lettura confutata, …. nel regime dei rifiuti e sarebbe sanzionato penalmente, in barba al principio di tassatività e determinatezza della norma incriminatrice, in quanto rifiuto asseritamente gestito (trasportato, stoccato e utilizzato) senza le prescritte autorizzazioni (si ripete: non dovute per il sottoprodotto)!
La verità sottesa a tale supposta ”condizione” – come desumibile dalla prassi – è un’altra. Sia la P.A. e che gli organi di controllo suppongono… che il fresato (come qualsiasi altra sostanza) – ove venga per lungo tempo depositato, stoccato o raccolto in modo tecnicamente inidoneo – riveli, de facto, una chiara volontà, da parte del produttore o del terzo, di non avere alcuna intenzione di riutilizzarla effettivamente. E che, in questi casi, la qualifica assegnata a detto materiale (dagli operatori interessati) sia strumentalmente adottata per sottrarsi al più oneroso regime dei rifiuti.
Insomma, il ritardo nel riutilizzo del fresato ovvero un suo deposito improprio o duraturo viene letto – alcune volte correttamente altre aprioristicamente o per eccesso di prudenza (per es. nel caso della immediatezza/ quotidianità) – come una atteggiamento fraudolento o elusivo della legislazione ambientale.
Diversamente, e in una battuta: ciò che conta appurare è la certezza del riutilizzo, non la sua immediatezza/contestualità (rispetto alla produzione del sottoprodotto). Ovviamente, oltre una certa misura, anche il tempo (come altre circostanze fattuali) può essere considerato come indizio di una volontà incompatibile con il (solo) “dichiarato” riutilizzo.
Era, appunto, questa, a nostro avviso, la “preoccupazione” della provincia di Monza, peraltro censurata dal TAR lombardo, il quale, pur ammettendo il riutilizzo del fresato presso terzi (e dunque in un momento successivo alla sua produzione) ne pretende comunque una disponibilità (deposito) tale da soddisfare “…l’operatività giornaliera e continua dell’impianto”, in questi termini:
“3.2…..Così posta la questione, e alla stregua del criterio di distinzione individuato da parte della giurisprudenza, ritiene il Collegio che – poiché, secondo le dichiarazioni del legale rappresentante della società ricorrente, ribadite nella conferenza di servizio, l’impianto di betonaggio e asfalto della ditta Doneda, oggetto di autorizzazione, prevede l’impiego di fresato d’asfalto come sottoprodotto, ossia in quantità tale da poter essere trattato e smaltito all’interno del ciclo produttivo per soddisfare l’operatività giornaliera e continua dell’impianto e non in funzione di centro di stoccaggio a tempo indefinito di tale materiale (ciò che renderebbe l’impianto, a tutti gli effetti, una discarica, e comunque lo renderebbe strumentale a quest’ultima) – il progetto in questione avrebbe dovuto essere approvato senza alcuna condizione, salvo quella relativa al rapporto tra stoccaggio e quantità trattata e reimpiegata nel ciclo produttivo”.
Come si desume da questo passo della motivazione, il deposito del sottoprodotto viene ritenuto legittimo in quanto idoneo a soddisfare le esigenze continue e giornaliere dell’impianto del terzo utilizzatore; mentre, se fosse risultato “un centro di stoccaggio a tempo indefinito”, sarebbe da qualificare discarica.
L’esito del ragionamento, appena riportato, è corretto, in linea di principio (anche se approssimative), in quanto se il fresato fosse stato raccolto in un impianto di stoccaggio a tempo indeterminato, tale circostanza avrebbe rivelato una volontà dell’utilizzatore (la ditta Doneda) incompatibile e contraria alla “.. certezza che la sostanza sarà utilizzata nel corso di un successivo processo di produzione“. Lo stoccaggio “indefinito”, infatti, ovvero un deposito del fresato per un tempo “incerto” e dunque “indeterminato” farebbe venir meno o comunque dimostrerebbe, per fatti concludenti, una volontà di “abbandono” che contraddirebbe le dichiarazioni dell’utilizzatore (e quindi escluderebbe “la certezza” dell’effettivo riutilizzo del sottoprodotto).
Ma, se tali argomenti risultano condivisibili sul piano logico-deduttivo (che dal comportamento dell’utilizzatore procede alla ricostruzione della sua volontà), essi non giustificano affatto un’affermazione rigida o di principio secondo cui non c’è sottoprodotto ove il fresato non venga utilizzato (si presume: una volta messo a diposizione dell’utilizzatore) “immediatamente” o “quotidianamente rispetto al prelievo… senza particolari operazioni di stoccaggio” (come ripete genericamente il giudice d’appello), per quanto detto sopra a proposito dell’immediatezza.
d) La realtà delle prassi industriali conosce delle situazioni intermedie che giustificano dei depositi di fresato (prodotto da terzi) in quantità anche più consistenti “…del fabbisogno giornaliero e continuo” (dell’utilizzatore). Depositi che, in ragioni delle caratteristiche e della funzione svolta – ben oltre i fabbisogni contingenti – non sono in alcun modo qualificabili come “centri di stoccaggio a tempo indefinito” (e non potrebbe essere diversamente, per ragioni connesse alla necessità di non interrompere le lavorazioni, una volta esaurita la quantità necessaria al fabbisogno “quotidiano”…).
In conclusione:
– la volontà del produttore/utilizzatore del residuo-sottoprodotto è condizionata e dimostrata da un utilizzo certo;
– tale certezza va correlata e desunta anche da situazioni relative al regolare deposito (nel caso, di fresato), secondo modalità e in base ad archi temporali tecnologicamente ragionevoli e comunque giustificati (e giustificabili);
– per ragioni di certezza e uniformità di comportamento, i termini del deposito del sottoprodotto potrebbero essere anche predeterminati, settore per settore, da ragionevoli prescrizioni ad hoc. [37]
A conferma delle precedenti conclusioni, si veda l’importante brano della motivazione del TAR cit., dove, una volta respinta la tesi del riutilizzo del fresato nel luogo di produzione, si ritorna sul tema del deposito regolare del fresato rispetto al suo abbandono:
““3.3.) Né appare necessario al Collegio, come ritiene l’amministrazione provinciale, che ai fini della qualifica del fresato come sottoprodotto, il riutilizzo debba avvenire, per volontà della norma, nello stesso sito di produzione del rifiuto e sotto la direzione del medesimo imprenditore, posto che il fatto che il materiale fresato rimanga nel luogo di produzione, nelle vicinanze od in altro luogo non costituisce di per sé elemento univoco per qualificarlo come rifiuto dovendo ciò desumersi, invece, dalle modalità del deposito, dalla sua durata o da altre circostanze che evidenzino con certezza una situazione di abbandono (nella quale rientra lo stoccaggio del materiale in attesa di un futuro reimpiego)”. [38]
e) Da ultimo, la norma comunitaria ed interna non specificano – e dunque non impongono – che il fresato-sottoprodotto, per rimanere tale, debba essere integralmente utilizzato (dal produttore o dal terzo). Il che significa che, per le ragioni più diverse (tecnologiche, di mercato, di personale, di viabilità, ecc.), il produttore del fresato può decidere di utilizzarne una parte come sottoprodotto, ed altra parte destinarla allo smaltimento o al recupero, come rifiuto (assoggettandosi ovviamente alla relativa disciplina). Si pensi al caso in cui, per mutate situazioni di mercato o contrattuali, ecc. (sopravvenute e/o imprevedibili), non si riescano a rispettare alcune delle “condizioni” dell’art. 184-bis (per es. si perdano le occasioni di un riutilizzo integrale già programmato e/o concordato, per i motivi accennati). [39]
Né può stupire che lo stessa sostanza (il fresato) possa assumere la doppia qualifica indicata perché, come è noto, ogni prodotto, materia prima o bene si trasforma in rifiuto se il suo detentore se ne disfi, per es. smaltendolo, abbandonandolo, ecc.
f) Sul piano sistematico è appena il caso di aggiungere che la norma non contiene alcuna prescrizione espressa sui mezzi di prova richiesti al fine di tale dimostrazione (sull’utilizzo del fresato) sicché appare corretto affermare che, nella vicenda del sottoprodotto, vige il principio della libertà di prova (che potrà essere, dunque, scritta-documentale, prova storica, prova logico-indiziaria, ecc.) purché si forniscano (alla P.A. e/o in sede giudiziaria) elementi sicuri dai cui desumere l’effettivo riutilizzo [40].
Tornando al caso deciso, secondo i giudici amministrativi la circostanza che l’utilizzo (certo) del fresato avvenisse, non ad opera della stessa ditta che svolgeva gli interventi di fresatura, ma per intervento di altro soggetto gestore dell’impianto (di betonaggio), dove il fresato in precedenza prodotto era destinato al ciclo produttivo di realizzazione di conglomerati bituminosi, non poteva considerarsi preclusiva per la sua qualifica di sottoprodotto.
6.3 L’utilizzo diretto del fresato senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla “normale pratica industriale”
Un ulteriore “indice” (e condizione) per il riconoscimento della qualifica di sottoprodotto del fresato è stato ravvisato, dalla sentenza d’appello, nella circostanza che il residuo della scarifica non era stato fatto oggetto di interventi di trattamento prima di (e per) essere impiegato nel ciclo produttivo del terzo per la produzione del conglomerato bituminoso.
Si legge infatti nella motivazione:
– dapprima, in via generale (nel capo 11), che il fresato può essere considerato “alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione;
– e, successivamente (nel capo 14), con riferimento alla specifica fattispecie in esame, che il fresato non veniva sottoposta “ad un processo di trasformazione”.
Ebbene, in entrambe le affermazioni richiamate (di assoluta preclusione di ogni operazioni di trattamento) si annida la più rilevante “svista” della pronuncia in esame.
Quel Collegio, infatti, sembra non aver tenuto conto dell’attuale parametro dell’utilizzo diretto(del sottoprodotto) – delineato dall’art. 184 bis, comma 1, lett. b del T.U.A. – che non significa né comporta, come risaputo, divieto assoluto di alcun trattamento preventivo del residuo produttivo, prima del suo reimpiego, al fine di guadagnare la definizione di sottoprodotto.
E’ ben vero (così come in passato) che il sottoprodotto deve (e può) essere impiegato – di regola – “direttamente” (il che vuol dire: senza trasformazioni preliminari[41] e non già “direttamente dal produttore”). Ma, a differenza di quanto previsto dalla pre-vigente lett. p), comma 1, dell’art. 183 (abrogato) e, in conformità all’insegnamento della CGCE, sono espressamente consentiti, ex novo, quei trattamenti propri della “normale pratica industriale”.
Il carattere “innovativo” della “condizione” risiede non tanto nell’aver superato/abbandonato la terminologia usata in precedenza per differenziare i trattamenti ammessi e quelli vietati[42]; ma, piuttosto, nell’introdurre, per la prima volta, un concetto tecnico (merceologico) – con rilevante incidenza giuridica (anche ai fini penali) – la c.d. “normale pratica industriale”- quale parametro definitorio e limitativo degli interventi consentiti sul sottoprodotto[43], sia in ragione: 1) del tipo di incidenza di tali operazioni/trasformazioni sul “residuo produttivo”, sia: 2) in funzione del “ruolo” svolto da esso che, di volta in volta, potrà essere “utilizzato” come materia prima o semilavorato o prodotto finito (v. oltre), in sostituzione della materia prima primaria o del semilavorato o del prodotto finito (derivanti dalla materia prima) sia, infine: 3) dello scopo dei trattamenti e della fase in cui si devono realizzare (preventiva al successivo utilizzo: v. par. 6.3.1.).[44]
6.3.1. Soggetti, tempi e finalità della “normale pratica”
Su noti quanto consolidati indirizzi interpretativi della Commissione UE [45] – come nella giurisprudenza comunitaria e nazionale in argomento[46] – prestando altresì attenzione alla dottrina più accorta [47] – si può, in prima battuta, osservare che, con la locuzione “normale pratica industriale”, si faccia generalmente riferimento al complesso di quelle fasi di trattamento e/o lavorazione che, in via ordinaria, o meglio, secondo una prassi tecnico-produttiva consolidata, sono svolte anche sulle materie/sostanze che vengono sostituite dal sottoprodotto.
In particolare, viene diffusamente prospettato che detti trattamenti (consentiti) sarebbero da identificare in tutti quelli (praticati secondo le prassi industriali) che interessano la materia prima, di volta in volta, “rimpiazzata” dal sottoprodotto.
Se il vigente parametro dell’utilizzo “diretto” del sottoprodotto, debba essere così inteso, appare evidente l’imprecisione in cui è incorsa la pronuncia del Consiglio di Stato, in commento, che fa riferimento al divieto assoluto di interventi di trattamento sul fresato anziché evidenziare che detti trattamenti sono ammessi purché rientrino nella normale pratica industriale.
Peraltro, dalla lettura della motivazione, non pare sfuggire a quel Collegio che, ai sensi dell’art. 184-bis, sono permessi quei trattamenti che risultino conformi alla “n. p. i.” – come si desume dalla citazione di detto articolo, per esteso, nel capo 12 della decisione (anche se poi l’argomento non viene ripreso né approfondito, in ragione verosimilmente del contenuto dei motivi di impugnazione della Provincia cit.).
In questa occasione ci sembra sufficiente specificare, allontanandoci criticamente dagli orientamenti ermeneutici prevalenti, i seguenti e riassuntivi profili salienti:
1) Con riferimento ai soggetti abilitati a intervenire sul sottoprodotto, si è ormai concordi nel riconoscere – sulla base di un dato testuale inconfutabile[48] – che sia il produttore/utilizzatore diretto del sottoprodotto che il terzo, esclusivo utilizzatore, possono realizzare operazioni di trattamento sul sottoprodotto, ovviamente in tempi diversi e in luoghi diversi, anche se per finalità comuni (di utilizzazione successiva e ulteriore del residuo-sottoprodotto)[49].
2) In ordine alla fase temporale in cui devono essere collocati i trattamenti, essa va individuata – e ristretta – ad un periodo che decorre dal momento immediatamente successivo alla produzione del sottoprodotto (residuo decadente dal processo di produzione rivolto a perseguire un diverso “scopo primario”) sino al momento (posteriore ma) immediatamente precedente il successivo e distinto ingresso nel processo di utilizzo[50] (“.. nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione”, ex art. 184-bis; v. p. 1).[51]
3) La vera finalità dei trattamenti del sottoprodotto – che, in linea di principio, deve già possedere, fin dal suo nascere, le caratteristiche merceologiche e ambientali del prodotto – consiste pertanto nel prepararlo alla sua nuova utilizzazione, come materia prima, semilavorato o prodotto (o nello stesso o in un diverso processo di produzione, anche del terzo, o di utilizzazione: per es. per produrre energia).
Il trattamento del sottoprodotto presuppone che il residuo abbia, fin dalla sua formazione, tutte le caratteristiche e la destinazione di legge, ex art. 5 (affatto distinte da quelle del rifiuto). Pertanto, la sua finalità, ricadente nella n. p. i, non è quella propria del “recupero del rifiuto” (volto a restituire al rifiuto determinate caratteristiche merceologiche e o ambientali che esso, per definizione, ha perso ovvero al suo “reimpiego” una volta che “i prodotti o le componenti di prodotto siano diventati rifiuti”: v. art. 3, punto 16 della direttiva); ma ha il distinto scopo di facilitare, funzionalizzare, rendere più vantaggioso il suo successivo utilizzo, come materia prima, semilavorato, prodotto finito. Si pensi alla macinazione, frantumazione, essiccazione, riduzione volumetrica, selezione granulometrica, stabilizzazione, ecc. volte al “miglioramento delle sue caratteristiche merceologiche” (già possedute) ovvero “per renderne l’utilizzo maggiormente produttivo” o infine “tecnicamente efficace” (per ripetere le parole del Reg. n. 161/2012, All.3, relativo all’utilizzo delle terre e rocce da scavo, come sottoprodotti). [52]
E, dunque, sia sul piano oggettivo (dei “trattamenti” necessari ed ammessi) che su quello funzionale (scopo degli interventi), le operazioni consentite devono rivestire l’unico obiettivo di rendere possibile e utile, tale impiego ulteriore (da parte dei soggetti indicati a p.1) e non quello di attribuire, per la prima volta, al residuo caratteristiche merceologiche o ambientali di cui esso deve essere già dotato, ex lege. [53]
4) In tal senso si ritengono ammesse, secondo “la normale pratica industriale” – cioè sono riconducibili ad essa – tutti quegli interventi che rendono meglio utilizzabile il sottoprodotto, implementandone o rendendone più efficienti le caratteristiche merceologiche (che esso già possiede) e/o produttive e/o tecniche per il suo impiego.
5) Sotto il profilo esaminato sub. 2/4, il pensiero della Commissione U.E. – ove riletto con attenzione – risulta univoco nel senso indicato sopra (v. Comunicazione del 2007, cit. par. 3.3.2.: “.. dopo la produzione” (fase temporale, sub 2) “ il materiale riutilizzabile può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari, o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo…” futuro (questa è appunto la vera finalità: v. p. 4). La stessa Commissione U.E., nella Guidance del 2012, cit. conferma le modalità, i tempi e le finalità dei trattamenti ammessi (funzionali ad una migliore utilizzazione del sottoprodotto: p. 4), introducendo un significativo parallelismo con la materia prima che, per essere meglio valorizzata, è anch’essa sottoposta a “trattamenti” prima di essere inserita (per la prima volta) nel processo produttivo – in questi termini: “….
D’altra parte, si deve considerare che anche le materie prime primarie solitamente richiedono qualche trattamento (some processing) prima di poter essere utilizzate in processi di produzione” (“On the other hand, it has to be considered that primary raw materials” (analogamente al sottoprodotto)” “usually also require some processing before they can be used in production processes “( sulla loro identificazione, v. pp. 7 e 8).
In una battuta, la Commissione U.E. non suggerisce né indica che i “trattamenti” ammessi sui sottoprodotti vanno identificati in quelli che si compiono sulla materia prima sostituita dal sottoprodotto, come afferma la sentenza n. 17453/2012 della S.C. cit. (che riconduce nella la n. p. i. gli interventi sulla materia prima rimpiazzata); ma prospetta una analogia (o similitudine) del seguente tenore: come anche la materia prima richiede normalmente qualche trattamento prima di essere usata nel processo produttivo così – e analogamente – il sottoprodotto (può subire dei trattamenti preventivii: il che non vuole dire che i trattamenti, nell’un caso e nell’altro, siano – o debbano essere – identici.
6) Sotto altro profilo detti interventi, ex lett. c) comma 1, dell’art. 184-bis, non devono essere confusi o identificati con i trattamenti propri del processo produttivo in cui viene immesso il residuo produttivo (interventi a vastissimo spettro che non patiscono limiti né sono contemplati dalla lett. c) dell’art. 184-bis, e che incidono pertanto, modificandole, sulle identità delle singole componenti del processo produttivo, compreso il sottoprodotto) già precedentemente trattato o preparato (secondo le operazioni rientranti nella n. p. i. (v. p. 3), in un arco temporale precedente, individuato sopra sub n. 2).
In base ai criteri rassegnati – sul trattamento rientrante nella n. p. i. – si può affermare, in base alla prassi e a conoscenze tecniche più diffuse e acquisite, che le operazioni, cui di regola è sottoposto il fresato d’asfalto, secondo la “nomale pratica”, sono compiute dal produttore ovvero, sovente, da ditte terze, in forme preventive al riutilizzo, funzionali ad esso, e, comunque, non “recuperatorie” in quanto non destinate a conferire al fresato caratteristiche merceologiche o ambientali che esso già possiede, dopo la scarifica (v. retro).
Può essere utile ricordare, in proposito, che il fresato, destinato ad impianti di betonaggio, viene sottoposto a semplici interventi di riselezione e riduzione granulometrica prima di essere inserito nel successivo processo produttivo (ove si effettua, fra l’altro, la miscelazione di aggregati lapidei, leganti bituminosi ed eventuali attivanti chimici, con cui viene formato il nuovo prodotto: sempre conglomerato bituminoso).
Tali operazioni vengono svolte senza l’aggiunta di additivi o sostanze chimiche, ma solo mediante strumenti (come il frantoio) che lasciano sostanzialmente inalterate le caratteristiche e proprietà originarie del fresato (che vede mutata solo la sua dimensione fisica o taglia (in inglese “size”).
In altri termini, le operazioni cui è sottoposto il fresato, prima di essere inserito nel nuovo processo produttivo (dove viene “miscelato”) [54] con altri aggregati, per la produzione di nuovo conglomerato bituminoso, non sono idonee a modificarne la relativa identità chimico-merceologica – anche secondo i precedenti criteri di classificazione – ma individuano interventi che, riducendo la granulometria del fresato, lo rendono più facilmente trasportabile e utilizzabile nell’impasto occorrente al ciclo produttivo di destinazione[55]. Il fresato ( come altri residui produttivi di legno, metallo, plastica, carta, ecc. restano gli stessi nella loro identità, anche se, per le ragioni funzionali ricordate, subiscono delle trasformazioni: per es. fisiche).
6.3. 2. Riscontri giurisprudenziali favorevoli
Peraltro, le descritte operazioni di trattamento, effettuate sul fresato, ancor prima della codificazione formale della nozione di “normale pratica industriale” – come parametro indicativo delle operazioni ammesse sul sottoprodotto – sono state considerate lecite (cioè non ostative alla configurabilità dei residui come sottoprodotti) non solo dalle istituzioni comunitarie [56], sulla scorta delle pronunce della CGCE, ma anche dalla giurisprudenza nazionale.
La Cassazione penale italiana, negli ultimi anni, anche se in base ad indirizzi minoritari, ha fornito specifici esempi di trasformazioni o trattamenti che, di volta in volta, sono stati considerati compatibili con la categoria giuridica del “sottoprodotto”.
E ad essi occorre far riferimento per capire sul piano logico-giuridico – in termini di comparazione – se,, nell’ambito degli stessi, possano rientrare anche le operazioni di riselezione e riduzione granulometrica cui è soggetto il fresato.
Esemplificando, è utile richiamare la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale, 7 novembre 2008, n. 41839, nella quale – partendo dall’evoluzione normativa dell’art. 183 cit. sino all’eliminazione (ad opera del d.lgs. 4/2008) nella sua ultima versione del concetto di “trasformazioni preliminari” e del riferimento alle operazioni di “cernita” e “selezione” nella definizione di recupero – si è affermato che la cernita e la selezione sono operazioni compatibili con la nozione di sottoprodotto. Tanto è predicabile, ha precisato la Corte, solo qualora dette operazioni non siano finalizzate a rendere successivamente utilizzabili la sostanza o il materiale nelle stesse condizioni di tutela ambientale .
Ai fini del presente contributo, merita ricordare, altresì, la pronuncia della Corte di Cassazione, sez. III, penale, 6 novembre 2008, n. 41331 (con riferimento alle le terre e rocce da scavo) la quale ha fatto rientrare, tra le operazioni di trattamento preliminare ammesse, anche interventi di “frantumazione” e cioè operazioni che si spingono sino addirittura a modificare la composizione fisica dei sottoprodotti, senza incidere però sulla loro identità merceologica o di qualità ambientale.
Più di recente, la giurisprudenza amministrativa (TAR Piemonte, 25 settembre 2009, n. 2292) ha anche ammesso che “gli scarti legnosi dell’agricoltura e i residuati della lavorazione esclusivamente meccanica del legno – quali segature, tondelli, cortecce e cippato legnoso” – non sono rifiuti bensì sottoprodotti, con ciò escludendo che interventi simili a quelli menzionati possano essere considerati quali “trasformazioni preliminari”. Nello stesso senso, da ultimo, si sono pronunciate le due decisioni in commento, nonostante le approssimazioni segnalate.
In definitva, alla luce sia dell’attuale parametro dell’utilizzo “diretto” ex art. 184-bis, comma 1, lett. b) del T.U.A., che dei rassegnati precedenti giurisprudenziali (in linea con un orientamento conforme della Corte di Giustizia, recepito dalla stessa Commissione U.E., v. retro), può correttamente ammettersi – così come implicitamente riconosciuto dalla sentenza del TAR Lombardia n. 2182/2012 e dal Consiglio di Stato, in esame – che gli interventi operati sul residuo produttivo, derivante dalla fresatura d’asfalto sia da parte del produttore che dell’utilizzatore, rientrano nella “normale pratica industriale”.
Le conclusioni raggiunte non possono ritenersi scalfite da una importante decisione della S.C. – a cui gli studiosi hanno attribuito rilevante significato (si tratta di Cass. pen., sez. 3. n. 7374 del 24 febbraio 2012, Aloisio) – la quale esamina una fattispecie in cui l’impresa che scarificava il manto stradale utilizzava, essa stessa, il fresato per produrre nuovo conglomerato bituminoso (per il rifacimento delle strade). La Corte conferma la condanna del Tribunale di Termini Imerese, per attività di recupero (del rifiuto/fresato) senza autorizzazione, ravvisando la mancanza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 184-bis. Peraltro, ove si rilegga la motivazione con la dovuta attenzione, essa ci appare tanto scarna quanto inadeguata .[57]
Quel Collegio nega la sussistenza del primo requisito (“.. che la sostanza o l’oggetto possa essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (comma 1, lett. c)) sulla considerazione che il fresato ( “richiedeva adeguate operazioni di recupero per poter essere usato per la produzione di ulteriore conglomerato bituminoso vergine e che erano necessarie ulteriori trasformazioni e trattamenti, tramite apposito impianto).
Ovviamente, ci si sarebbe dovuti aspettare che, in adempimento del dovere di motivazione, si specificassero quali fossero, in concreto, queste “trasformazioni e trattamenti” e in che cosa consistesse “l’apposito impianto”. Per due ovvie ragioni (di diritto): perché l’art. 184-bis considera legittimi – e dunque possibili – i “trattamenti non diversi dalla normale pratica industriale” e, pertanto la sentenza, dopo aver individuato a) i trattamenti applicati dal ricorrente, era tenuta, in punto di diritto, b) a spiegare perché essi, non potendo “rientrare nella normale pratica industriale”, dovevano considerarsi illeciti (id est vietati dall’art. 184-bis). [58]
Di più: non poteva sfuggire alla S.C. che, in altre pronunce, era stato ritenuto compatibile – con la nozione di sottoprodotto – l’attività di macinazione, triturazione, essiccazione ecc. (vedi, in proposito anche l’orientamento del Governo italiano con il recente D.M. 161/2012 sul recupero dei materiali da scavo cit.) e che la Commissione U.E. nel 2007 e nel 2012 (v. retro) aveva espressamente consentito sul sottoprodotto, in base alla lettura della giurisprudenza della CGCE e della normativa europea, attività di triturazione, macinazione, ecc.[59] anche con impianti meccanica, in quanto rientranti “nella normale pratica industriale”, ex art. 5 della direttiva 2008/98.[60] Quel Collegio sembra tanto poco sicuro degli argomenti esposti che, propone una subordinata (del tutto superflua ove fosse mancata effettivamente la condizione della non ricorrenza del trattamento rientrante nella n. p. i.), tanto da aggiungere, in chiusura: “… In ogni caso, anche qualora questo ulteriore trattamento non fosse diverso dalla normale pratica industriale, ritiene il Collegio che non sussiste comunque il requisito di cui alla lett. a), perché non si tratta di sostanza o di oggetto originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrale”.
Anche questa ultima proposizione esprime una asserzione (apodittica) non un motivazione (argomentata). Si è già sottolineato, retro (v. par.6.1.) – in senso opposto – che il fresato deriva da un processo di produzione industriale di beni o servizi, ex art. 2195, comma 1, n. 1, codice civile (fabbricazione di manti stradali o di manutenzione delle strade), in cui si inserisce, come operazione preliminare, la scarifica, la quale costituisce parte integrante del processo produttivo, anche se non ne rappresenta lo scopo primario (v., retro, par. 6.1.).
6.3.3. L’utilizzo legale del fresato, ex art. 184 bis, comma 1, lett. c)
L’ultimo requisito elencato dall’art. 184-bis, alla lett. d), prescrive che l’utilizzo del residuo produttivo sia “legale” e cioè avvenga:
(i) nel rispetto dei requisiti riguardanti i prodotti – ottenuti con l’utilizzo anche del sottoprodotto – e relativi alla protezione della salute e dell’ambiente, nonché:
(ii) in assenza di impatti complessivi negativi per l’ambiente e la salute umana
Anche di tali requisiti non troviamo alcun esplicito riferimento nelle due decisioni citt. Ma tale apparente omissione si giustifica perché sul punto “non è stata sollevata alcuna contestazione dalla difesa provinciale che, in entrambi i gradi, si è soffermata specificamente sui distinti motivi ricordati (inclusione del fresato nel D.M. 5/2/98 e nel CER; impossibilità di qualificarlo come residuo di un ciclo produttivo, ecc.).
Può essere comunque utile evidenziare, per completezza dell’analisi, che, nella prassi corrente, in tutte le ipotesi in cui il fresato sia impiegato per la produzione di conglomerati bituminosi, il requisito della legalità del suo utilizzo si presenta come una “condizione” espressamente contemplata in normative tecniche di settore che tengono conto:
(a) dell’utilizzo specifico cui è destinato il fresato;
(b) della sua composizione chimico-fisica;
(c) delle sue caratteristiche e qualità, come si evince dalla normativa UNI EN 13108- 8 (per il “granulato conglomerato bituminoso” per la produzione di C. B. a caldo) la quale include il fresato fra i materiali che compongono (con altre sostanze) una specifica tipologia di C. B.; e UNI EN 13242, per uso nel settore dell’ingegneria civile – costruzione delle strade.[61]
In conclusione:
a) tale modalità di impiego risulta pienamente ammissibile, ai sensi dell’art. 184-bis, il quale si limita ad imporre che il sottoprodotto venga utilizzato “direttamente” in un dato ciclo di produzione, senza subire operazioni di trattamento diverse dalla “normale pratica industriale” prima del suo impiego (in tal senso si è visto come il trattamento di riduzione e selezione granulometrica, rientrano nella n. p. i.; v. par. 5.3.1);
b) né esiste alcun divieto – per il terzo utilizzatore – di usare il sottoprodotto come (“sostanza”) componente di una miscela (formata da altre sostanze, qualificabili “materie prime vergini” [in inglese: primary raw material] o, a loro volta, “sottoprodotti”) . L’art. 184-bis non contempla alcun divieto per l‘utilizzatore, di “combinare”, nel proprio ciclo produttivo, il sottoprodotto con altre sostanze al fine di produrre la tipologia di merce che intende ed è abilitata a realizzare, in quanto, si ripete (v. retro par.6.3.1.) i limiti ai trattamenti del residuo-sottoprodotto sono posti con riguardo alla fase di preparazione all’utilizzo (da parte del terzo o del produttore ovvero dell’intermediario) e non ai trattamenti del nuovo processo produttivo (di utilizzo). In tal senso la giurisprudenza, interna e comunitaria, ha avuto modo di chiarire la piena liceità dell’impiego di un sottoprodotto nel processo produttivo di destinazione, anche qualora tale impiego avvenga in miscelazione con altre sostanze/materie prime“[62];
c) l’operazione di miscelazione del fresato con altre sostanze/materie prime non configura giuridicamente “un intervento di trattamento” (vietato) del sottoprodotto (sul presupposto che essa modificherebbe le originarie qualità ambientali e merceologiche del residuo-produttivo). Ciò perche detta operazione (di miscelazione) non precede ma segue l’utilizzo del sottoprodotto e costituisce – essa stessa – una fase essenziale del nuovo ciclo produttivo cui il residuo-sottoprodotto è destinato (per il quale non si applica la lett. c) dell’art. 184-bs). Nella specie, proprio la combinazione del fresato con atre sostanze (gli aggregati e i leganti), consente di dare origine, nel processo produttivo di destinazione, ad una specifica tipologia di “prodotto finito”;[63]
d) sotto tale ultimo profilo, sub c), l’inclusione (per miscelazione) del fresato stradale tra le “materie” occorrenti per la produzione di conglomerato bituminoso risulta espressamente prevista dalla citata norma UNI EN 13108-8, ecc., che individua, fra l’altro, le specifiche merceologiche (anche in termini di composizione chimico-fisica) che il conglomerato bituminoso deve rispettare per essere esitato sul mercato.[64]
e) quanto alla verifica della assenza di “impatti complessivi negativi” derivanti dall’impiego del fresato nel processo produttivo del conglomerato, va segnalato che quest’ultima condizione sarà accertata: (1) sia comparando gli impatti derivanti da un ciclo produttivo, che non prevede l’impiego del fresato stradale per la produzione di C. B. con gli impatti di un ciclo nel quale questi ultimi siano presenti; (2) sia confrontando gli impatti connessi all’utilizzo del conglomerato “finito”, composto anche da fresato, con quelli derivanti dal conglomerato privo di tale residuo produttivo.
In relazione alla prima indagine, si è rilevato, nelle imprese che rispettano le norme UNI EN citt. che l’impiego del fresato non era (ed è) in grado di determinare alcun peggioramento degli impatti ambientali (e sulla salute umana) derivanti dal processo di produzione aziendale seguito in assenza di detto residuo, tenuto conto che il fresato viene avviato al ciclo di produzione, come componente del C.B., solo qualora sia privo di sostanze estranee rispetto a quelle indicate dalla norma UNI EN 13108-08. Le modalità gestionali e di impiego del fresato, sono quindi tali da non richiedere l’attivazione di specifici impianti (diversi rispetto a quelli occorrenti per la produzione di C. B. senza fresato) in grado di produrre emissioni inquinanti.
Basti segnalare che la riduzione granulometrica avviene a mezzo di strumentazione meccanica (il frantoio) e lo stoccaggio del sottoprodotto avviene su superfici impermeabili tali da non poter rilasciare eventuali inquinanti nei suoli.
In definitiva, l’impiego di fresato non “peggiora”, sotto alcun profilo, l’impatto ambientale prodotto dal singolo stabilimento.
In ordine, invece, agli impatti derivanti dai conglomerati composti da fresato, va rammentato, una volta di più, che i conglomerati così realizzati presentano le stesse caratteristiche prestazionali del conglomerato prodotto in assenza di tale residui, e ciò è comprovato dalla citata Norma UNI EN 13108-08 che non opera alcuna distinzione di impiego per tale conglomerato rispetto a quello composto di sole materie vergini.
7. Conclusioni
Si intende chiudere la presente nota, esaminando altre due questioni da ultimo sollevate da un attento Autore in questi termini: preso atto che l’individuazione del sottoprodotto va effettuata caso per caso ed è soggetta alle incertezze connesse agli accertamenti degli enti di controllo non sarebbe più conveniente considerare il fresato come rifiuto e seguire la procedura della “cessazione della qualifica di rifiuto” ex art. 184-ter piuttosto che ricercare, con le difficoltà rilevate, la qualifica di sottoprodotto?[65] Tanto più che, osserva lo stesso A. la giurisprudenza è orientata nel senso della qualifica del fresato come rifiuto[66] sicché, “… allo scopo di superare l’attuale situazione di incertezza giuridica, che va a discapito degli operatori e degli enti di controllo, è da chiedersi se non sia auspicabile che il ministero dell’Ambiente individui le condizioni alle quali il conglomerato bituminoso di recupero cessi di essere un rifiuto speciale, ai sensi dell’art. 184ter.”
Gli interrogativi posti non sono di poco momento ma, prima di prendere posizione sulla proposta finale, occorre esaminarli partitamente.
1) Il rilievo secondo cui la classificazione di una sostanza come sottoprodotto è sempre soggetta ad una valutazione caso per caso, non sembra decisivo. Ogni classificazione di un residuo, scarto, ecc. come rifiuto o non rifiuto, come rifiuto speciale o pericoloso, come materia prima secondaria, ai sensi dell’art. 184-ter (a seguito dei previsti trattamenti di recupero) o ancora rifiuto (per omesso o non regolare trattamento adottato), è comunque e sempre oggetto di valutazione, caso per caso, e di controllo delle autorità competenti;
2) che “le incertezze” di queste ultime autorità si possano verificare, a fronte della qualifica di sottoprodotto, è un dato certo ma è altrettanto sicuro che esse si sono verificate (e si verificano) anche in sede di accertamento della esatta osservanza delle condizioni poste dai (complessi) decreti ministeriali adottati (e adottandi) in applicazione del comma 2, dell’art. 184-ter (EoW);
3) non sembra rispettoso dell’attuale sistema, insistere nel definire le norme sul sottoprodotto “di natura eccezionale e derogatoria” perché, come rilevato dalla dottrina più attenta, esse si pongono come norme primarie e di pari grado (o equivalenti) rispetto alle disposizioni sulla gestione dei rifiuti, nel rispetto dei criteri di precauzione, prevenzione, sostenibilità e di gerarchia dei rifiuti, ex art. 178 e 179 TUA, senza alcuna incidenza – né inversione – sull’onere della prova (la polizia giudiziaria e la pubblica accusa dovranno, rispettivamente, ricercare e indicare le fonti di prova da porre a fondamento della condotta di gestione di rifiuti, ex artt. 55 e 50 del codice di rito penale, e al produttore/detentore graverà l’onere di provare il contrario: la sussistenza dei presupposti dell’art. 184-bis). In definitiva, ove il P. M. contestasse una ipotesi di illecita gestione di rifiuti, rimarrebbe, comunque, a suo carico, provare la natura di rifiuto dei residui produttivi oggetto del reato contesto. E’ da escludere, cioè, che detta prova si risolva semplicemente con un argomento, a contrario, desunto dalla (accertata) incapacità dell’imputato di provare la natura di sottoprodotto della sostanza trattata (sulla scorta della c.d. inversione dell’onere della prova). [67]
4) “la maggiore certezza del diritto” si potrà ottenere, con gli stessi risultati positivi, non necessariamente invocando i provvedimenti di cui al comma 2 dell’art. 184-ter (decreti ministeriali in assenza dei “criteri comunitari”) ma, semmai i decreti del comma 2, dell’art. 184-bis sul sottoprodotto (come avvenuto, per es., per i materiali da scavo), con una rilevante differenza. Mentre i residui produttivi – che rivestono le caratteristiche del sottoprodotto e sono utilizzati nel rispetto delle quattro condizioni previste dal primo comma di quest’ultima norma – vanno qualificati e gestiti come prodotti (e non come rifiuti), anche in assenza dei regolamenti ministeriali (e per tutto il tempo in cui non siano ancora adottati), senza sobbarcarsi agli oneri amministrativi, burocratici e finanziari previsti per i rifiuti (v. retro, par. 2) – con il rischio di sanzioni penali in caso d inosservanza; non altrettanto può dirsi per la cessazione della qualifica del rifiuto che richiede, come è noto, l’adozione, per ciascuna tipologia di rifiuti, del decreto ministeriale. In definitiva non c’è una equivalenza o un possibile parallelismo fra le due disposizioni (sul sottoprodotto e la materia prima secondaria/E.O.W) in quanto l’art. 184-bis ha una immediata efficacia nell’ordinamento interno, sin dalla sua adozione nel 2010; mentre la norma successiva non è applicabile in assenza dei decreti attuativi;
5) senza contare che, accanto all’art. 184-ter, e al necessario regolamento attuativo (di cui al comma 2, dell’articolo), per poter svolgere le attività di recupero (EoW) sarà necessario sottoporsi ad una autorizzazione e alle sue specifiche prescrizioni (sempre penalmente sanzionate) con ulteriori aggravi burocratici (v. retro par. 2) – che risulta difficile immaginare in termini di maggiore tempestività – anche se essi vengono rappresentati e suggeriti in nome di più sicure “certezze” [68] . Con l’ulteriore specificazione che più che “prassi comune”, una volta che sia stato adottato dal Governo il regolamento attuativo di cui all’art. 184-ter, si rende ancor più necessario, ricorrere al regime autorizzatorio vuoi per assentire i trattamenti di recupero, ex art. 208 T.U.A. vuoi per individuare, nello specifico, le prescrizioni del regolamento da rispettare;
6) è ben vero che alcune decisioni della S.C. di Cassazione si sono espresse nel senso della natura di rifiuto (e non di sottoprodotto) del fresato d’asfalto ma, anche sotto questo profilo, occorre, innanzi tutto rilevare, che:
– molte di esse sono state redatte sulla base di una normativa diversa, anteriore e più severa rispetto alle nuove e più favorevoli condizioni di cui all’art. 184-bis;
– altre sono frutto di equivoci e quindi inattendibili nel merito, con riferimento agli argomenti addotti [69]; talune, invece, risultano di segno opposto. Si ricorda, in proposito, Cass. pen. sez. III, 10.03.2005, n. 9503 [70] e, per importanti affermazioni di principio, Cass. pen , sez. III, 16 dicembre 2003 – 29.10.2004, ric. Martinengo (senza dire del TAR Lombardia e del Consiglio di Stato in commento). [71]
In conclusione, si è pienamente d’accordo, nel richiedere più certezza nella definizione del fresato come sottoprodotto. E si condivide l’utilità di un regolamento governativo, che ci fornisca prescrizioni sicure. Ma perché invocare i decreti del comma 2, dell’art. 184-ter, che indicano la “cessazione della qualifica del fresato- rifiuto”, eludendo, in tal modo, tutti i problemi rassegnati sul fresato-sottoprodotto (a mio avviso sostanzialmente risolvibili) piuttosto che sollecitare, allo stesso fine (di acquisire certezze), i decreti ministeriali che fissino “.. i criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti”, ai sensi del comma 2, dell’art. 184-bis (tenuto altresì conto della vigente normativa tecnica citata retro)?
E, al fine di immettere sul mercato, in tempi ravvicinati, i 12 milioni di tonnellate di fresato – prodotte annualmente in Italia – e riutilizzate in percentuale minima (circa il 20%), proprio in base alla disciplina del recupero dei rifiuti…. – a fronte degli utilizzi assai più elevati degli altri Paesi europei [72] – perché non far ricorso all’art. 184-bis, del TUA, oggi vigente e immediatamente efficace, sin dalla sua introduzione, in attesa (quanto lunga….?) dei futuri decreti ministeriali di attuazione (considerando che l’artt. 184 ter, EoW, non è del pari efficace, senza i regolamenti del suo comma 2[73])?
Perché non puntare su una giurisprudenza di legittimità e di merito che siano più attente alle problematiche del sottoprodotto, nella prospettiva esaminata, e più sensibili agli indirizzi comunitari, per attingere a quelle “certezze” che invano pretendiamo da un legislatore sempre più tardivo e improvvisato o da una Amministrazione centrale che, nella normativa secondaria, ha mostrato spesso di non conoscere la materia che regolava e/o i confini della propria competenza (ovvero… il self-control)? [74].
29.01.2014
* A. Scialò ha curato la prima parte del lavoro (parr. 1-6); P. Giampietro la seconda (parr. 6.1 -7), con revisione e integrazioni dell’intera nota.
[1] Reperibile in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] Per una disamina delle modalità di origine, composizione e impiego del c.d. “fresato d’asfalto”, nonché dei risvolti giuridici connessi alla sua qualifica come “sottoprodotto”, sia consentito di rinviare a P. Giampietro “Il fresato d’asfalto come “sottoprodotto”. Profili giuridici e tecnici” in www.lexambiente.it., 19.10.2011 e in www.tuttoambiente.it, 18.10.2011. Per un primo denso commento alla decisione del Consiglio di Stato cit. vedi: D. Röttgen – M.V. Vecchio: “Fresato d’asfalto: sottoprodotto o rifiuto?” In Rifiuti – Diritto e pratica amministrativa, Il Sole 24 Ore, ottobre 2013, pp. 36 e ss. e, da ultimo, lo stesso D. Roettgen, “Fresato d’asfalto – Sottoprodotto o rifiuto?, in “Ambiente&Sviluppo, n.12/2012, pag. 993 e ss. (corredato da un indice bibliografico completo a nt. 2).
[3] L’art. 184-bis, comma 1, cit., introdotto dall’art. 12, del d.lgs. n. 205 del 2010 detta:
1. È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.
[4] Fatta salva la sentenza del T.A.R. Lombardia n. 2182/2012 (confermata dal Consiglio di Stato, con la pronuncia, in commento), la giurisprudenza penale e amministrativa, riferendosi alla normativa antecedente, ha affermato, in prevalenza: a) la riconducibilità del fresato nella categoria del rifiuto recuperabile; b) eccezionalmente, nel novero delle terre e rocce da scavo, al fine di sottrarlo al regime dei rifiuti (cfr. l’isolata: Cass. pen. Sez. III, 11 febbraio 2003, n. 13314; in senso contrario, v.: Cass. pen. sez. III, 15 maggio 2007, n. 23788); c) ovvero la sua qualificabilità come “materia prima secondaria” (cfr. T.A.R. L’Aquila Abruzzo, sez. I, 08 giugno 2013, n. 549). Per altri precedenti giurisprudenziali, più recenti, v. oltre par. 6.3.2.
[5] Per un primo contributo, v. P. Giampietro “Quando un residuo produttivo va qualificato “sottoprodotto” (e non “rifiuto”) secondo l’art. 5, della direttiva 2008/98/CE (Per una corretta attuazione della disciplina comunitaria)”, pubblicato in www.lexambiente.it., in data 08.11.2010. Sulla elaborazione della direttiva rifiuti, n.2008/98/CE, da parte del Consiglio, Parlamento e Commissione U.E, si veda David Röttgen, Capitolo II (“La nozione di rifiuto e di sottoprodotto”), pagg. 25-77, in “Commento alla direttiva 2008/CE sui rifiuti”, a cura di F. Giampietro, IPSOA, Milano, 2009. Sul “sottoprodotto” nella prima formulazione del T.U. ambientale n. 152/2006, cfr. L. Ramacci, La nuova disciplina dei rifiuti”, Celt–La Tribuna, 2006, pagg. 44 e ss. In tema, da ultimo, per una rassegna critica delle sentenze più recenti e degli orientamenti dottrinari, cfr. di P. Giampietro: ”I trattamenti del sottoprodotto e la normale pratica industriale”, cit., in www.lexambiente.it), 15.5.2013 e in AmbienteDiritto.it 30.5.2013.
[6] Il fresato stradale è costituito dallo stesso “conglomerato bituminoso”, prelevato, mediante fresatura, dagli strati di rivestimento stradale. Esso assume la struttura di un aggregato, con una sua curva granulometrica generalmente caratterizzata da un’elevata percentuale di fini, e contiene bitume invecchiato (dall’uso del manto stradale da cui proviene). Ai fini di una definizione tecnica del “conglomerato bituminoso” (fondata sulla normativa di settore e sulla terminologia della norma UNI 13108-1) – propedeutica ad una più rigorosa classificazione giuridica – si riportano di seguito le seguenti nozioni.
Conglomerato bituminoso: miscela di aggregati e leganti bituminosi; conglomerato bituminoso di recupero (come “sottoprodotto”): conglomerato bituminoso ottenuto mediante fresatura degli strati di rivestimento stradale, frantumazione delle lastre provenienti da squarci di pavimentazioni asfaltiche, blocchi provenienti da lastre asfaltiche; conglomerato bituminoso proveniente da scarti di produzione e sovra-produzione (rif. UNI 13108- 1 e 8).
La composizione del conglomerato bituminoso: il c. b. è un conglomerato artificiale costituito da una miscela di:
Nel confezionamento di conglomerati bituminosi vengono impiegati inerti, di origine naturale, industriale, o di riutilizzo di sabbie, ghiaie e pietrischi, ecc. provenienti dalla estrazione e frantumazione nelle cave alluvionali, dalla frantumazione delle rocce; da processi industriali o da materiali da demolizione, aventi granulometria variabile. I materiali molto fini che hanno il compito di riempire gli spazi lasciati liberi dagli aggregati più grossi vengono chiamati filler o additivi minerali. Come il cemento, nei conglomerati cementizi, così i leganti bituminosi hanno la funzione di legare gli inerti fra di loro nei conglomerati bituminosi.
[7] Costituito dallo stesso “conglomerato bituminoso” con cui è realizzato l’asfalto (miscela di aggregati e leganti bituminosi).V. nota precedente.
[8] In proposito, v. oltre. par. 5 sul “recupero” del fresato.
[9] A seconda che sia impiegato nello stesso ciclo di origine (e cioè sul posto, per la produzione in situ del conglomerato) ovvero sia destinato, invece, all’utilizzo per la produzione di conglomerati bituminosi in appositi impianti fissi, posti all’esterno del cantiere, da impiegare allo stesso fine (qualifica di rifiuto, con assoggettamento alle procedure di recupero, ordinario o agevolato).
[10] Sulla formazione di nuovo conglomerato con il fresato v. retro, par.2.
[11] Il T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, n. 02182/2012, depositata il 10 agosto 2012, in www.giustizia-amministrativa.it aveva annullato la nota provinciale del 27 gennaio 2011, nella parte in cui diffidava formalmente il Comune di Arcore a non procedere all’autorizzazione dell’impianto (svolgente attività di fresa di asfalto in contrasto con il Piano provinciale di gestione dei rifiuti che ne escludeva la localizzazione).
[12] In particolare, il T.A.R. Lombardia cit., dopo un’attenta disamina della specifica fattispecie di origine e di impiego del fresato, aveva concluso che ricorrevano, nel caso esaminato, tutte le condizioni dettate dal primo comma dell’art. 184-bis del T.U.A. per qualificare tale residuo produttivo come “sottoprodotto”.
[13] Così motivando, il Consiglio di Stato ha definitivamente mandato in soffitta quelle prassi provinciali richiamate all’inizio, che opponevano – alla qualifica di sottoprodotto del fresato – le cennate e superate obiezioni: – di essere previsto con apposito numero nel Catalogo europeo dei rifiuti e – di risultare presente, come residuo produttivo, nell’elenco delle attività di recupero di cui all’ALLEGATO 1, Suballegato 1, di un D.M. 5.2.1998.
[14] V., retro, note 11 e 12.
[15] Sul punto il Tribunale di primo grado cit. si era espresso in termini sostanzialmente identici, ma meglio argomentati, del seguente tenore:“ …. Ebbene, alla luce di detta analisi, il Collegio ritiene che se il fresato “ai fini dello smaltimento è soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei rifiuti (nella specie non pericolosi) – lo stesso materiale possa essere nondimeno qualificato sottoprodotto anziché rifiuto se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla normale pratica industriale (di fatto vengono effettuate solo operazioni di cernita e di selezione, che non possono essere, tuttavia, considerate operazioni di trasformazione preliminare cfr. Cass. Pen., n. 41839 del 7/11/2008) in un impianto che ne preveda l’impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto”. In senso contrario, v. Cass. pen. sez. 3, n. 17453/2012, che ricomprende le operazioni di “separazione e cernita, fra quelle di recupero vietate. Per una critica serrata della decisione (e dei precedenti conformi) cfr. P. Giampietro, “I trattamenti dei sottoprodotti e la normale pratica industriale” in www.lexambiente.it., 15.05.2013 cit., parr. 2 e 3.
Prosegue poi quello stesso TAR che: “… 3.1. L’impianto che utilizza il fresato come “sottoprodotto” non deve quindi, perché il materiale conservi la natura di sottoprodotto, stoccare quantitativi d’esso che eccedono rispetto al fabbisogno del proprio ciclo produttivo, perché la giacenza del materiale in attesa di un futuro reimpiego (nella stessa sede o altrove) integra la fase dello stoccaggio e pone il problema della permanenza del rifiuto, che invece va esclusa per quella limitata provvista di materiale che rientra quantitativamente nel normale processo di lavorazione dell’impianto (cfr. Cass. n. 35235 del 12.09.2008)”.
A nostro avviso, i parr. 3 e 3.1. della motivazione di primo grado contengono due rilevanti imprecisioni: la prima, di principio e l’altra, di inesatta valutazione della realtà industriale. Quanto alla prima, il TAR esordisce con una affermazione che non può essere condivisa secondo il’attuale assetto normativo (secondo cui: “ .. fermo restando che la qualifica del fresato d’asfalto rimane quella di rifiuto – e pertanto ai fini dello smaltimento esso è soggetto a tutte le norme .. per la categoria dei rifiuti… – lo stesso materiale possa essere nondimeno qualificato sottoprodotto .. se lè inserito in un ciclo produttivo …ecc.”; seguono le note condizioni di legge).
Sul piano logico e di sistema – infatti – un residuo produttivo può essere qualificato rifiuto o, alternativamente, sottoprodotto, sin dall’origine, a seconda che, in quest’ultimo caso, ricorra la volontà del produttore di “non disfarsi” di esso, unitamente alle altre condizioni di legge. Da tali premesse giuridiche, si deve dire, diversamente, che il residuo, può, fin dall’origine, rivestire l’una o l’altra qualifica (e il principio di prevenzione sollecita e promuove la scelta del produttore in favore del sottoprodotto, ove possibile). Sicché, come è erroneo affermare che il sottoprodotto “nasce dal rifiuto”; così risulta improprio premettere che “… fermo restando che la qualifica del fresato d’asfalto rimane quella di rifiuto… (?).” (sullo specifico tema, si rimanda a P. Giampietro, I trattamenti del sottoprodotto cit., passim e a pag. 6, note 12 e 13 ).
In ordine alla seconda affermazione, non appare giustificato dalla norma la supposta imposizione di un deposito di sottoprodotto (per es. di fresato) in una “… limitata provvista di materiale che rientra quantitativamente nel normale processo di lavorazione dell’impianto.. …”. A parte la difficoltà tecnica di individuare le esatte quantità che corrispondano ai normali consumi di fresato (riferiti al semestre, al mese, magari alle necessità quotidiane….?) e alla circostanza che i flussi di utilizzo del fresato per la produzione del conglomerato, possono variare per ragioni economiche, tecniche e di mercato, oltre che per fatti accidentali; non si vede perché qualsiasi superamento, anche temporaneo, di tale durata media (di deposito: ma quale?) “.. integri la fase di stoccaggio”, anche nel caso in cui la comprovata volontà dell’impresa di stoccare quantitativi maggiori trovi valide giustificazioni tecniche ed economiche (di impiego del fresato, per es. attesa la espansione della produzione, ovvero a motivo di nuovi clienti, ecc.) tenuto altresì conto delle condizioni ambientali (in ipotesi ottimali) in cui è compiuto il deposito del sottoprodotto.
Né si comprende infine il rilevo, riferito a questa ipotesi (di superamento del criterio quantitativo/temporale), sulla “… permanenza del rifiuto”, come se il fresato, in caso di eccesso delle quantità depositate, “permanesse” nella sua qualifica originaria di rifiuto. Il che non è perché il sottoprodotto – che nasce come tale (cioè di prodotto: ricorrendone le condizioni) – ove perda tale qualifica (per volontà del produttore e/o per la perdita anche di una sola condizione) diviene rifiuto (per la prima volta) non “permane” o resta rifiuto (come sembra supporre il TAR, secondo le espressioni usate).
[16] Costituente il testo normativo di riferimento per le cosiddette procedure “semplificate” di recupero, eseguibili cioè in assenza di autorizzazione, ex art. 208 del TUA, a seguito di una “semplice” comunicazione di inizio attività.
[17] L’’All. 1, Suballegato 1, del D.M. 5.2.1998 e s.m.i., al punto 7.6.1., indica tra i rifiuti recuperabili, in deroga alle ordinarie procedure autorizzatorie, anche quelli provenienti da”attività di scarifica del manto stradale mediante fresatura a freddo…” e tra le attività di recupero, cui detti rifiuti possono essere destinati include, al p. 7.6.3, lett. a), la “produzione conglomerato bituminoso “vergine” a caldo e a freddo[R5]”.
[18] Cfr. la c.d. sentenza ARCO, 15.6.2000, nei procedimenti riuniti C-418-97 e C-419-97, e la successiva, nota pronuncia Niselli, del 2004..
[19] Nella espressione riportata si enfatizza, appunto, la volontà del produttore del fresato che non vuole smaltirlo o recuperarlo ma utilizzarlo tal quale o con trattamenti rientranti nella normale pratica industriale. Tale rilevanza della volontà è stata giustamente esaltata da D. Röttgen e M. V. Vecchio, a commento della sentenza in oggetto, in Fresato d’asfalto:sottoprodotto o rifiuto?, cit. in Rifiuti – Diritto e pratica amministrativa, Il Sole 24 Ore, ottobre 2013, pag. 36 e ss. cit., i quali osservano, come possibile la ipotesi interpretativa, che: “ Appare dunque ragionevole escludere dal novero dei rifiuti il fresato utilizzato per il rifacimento degli strati di pavimentazione realizzati con miscele bituminose (assenza di catrame!), qualora tale riutilizzo del materiale deliberatamente fresato avvenga contestualmente alle operazioni di fresatura e nello stesso sito oggetto delle operazioni stesse che comportano la produzione del predetto fresato (ossia senza deposito o stoccaggio) e sempreché il fresato utilizzato sia conforme alle norme ed alle specifiche prestazionali che ne regolamentano l’impiego. In tal caso non è da escludersi che esista, infatti, un processo di scarifica primariamente finalizzato proprio all’ottenimento di quello specifico materiale, pertanto oggetto di un’attività di riutilizzo, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. r) che, per definitionem, non ha per oggetto un rifiuto. In tale caso potrebbe sussistere una volontà di produzione, antitetica a qualsiasi volontà di disfarsi, costitutiva della nozione di rifiuto.”
Gli stessi AA., proprio in ragione della volontà di colui che ha fresato il manto stradale per ottenere un prodotto (da utilizzare per produrre conglomerati bituminosi), ipotizzano, in via subordinata, – secondo principi comunitari messi in luce dalla Commissione UE, sin dalla Comunicazione del 2007 CE – che il fresato sia un vero e proprio “prodotto”. Si veda, infatti, la loro conclusione: “… Non trattandosi in tal caso di un residuo di produzione, bensì di un autentico prodotto deliberatamente ottenuto quale scopo primario dell’attività, in base alla sistematica imposta dall’art. 184bis, non occorrerebbe procedere a verificare la sussistenza delle condizioni poste dalla stessa norma…”.
l tema è stato ripreso ed ampliato da Roettgen, Il Fresato d’asfalto, in Ambinete&Sviluppo cit. il quale, formula una affermazione di principio in questi termini, alquanto categorici, anche se usuali: “…Sul piano giuridico, la presenza di una operazione qualificata formalmente come operazione di recupero, esclude ontologicamente che tale operazione possa essere considerata come trattamento di normale pratica industriale… “. Se ci si riferisce alle operazioni indicate dal D.M. 5.2.1998, l’osservazione non può essere accolta. Quel decreto si riferisce, infatti, ai rifiuti e non alle attività di trattamento dei sottoprodotti e fu redatto quando la nuova categoria giuridica non era stata ancora formalmente riconosciuta (tanto da contemplare delle sostanze o materiali oggi qualificati sottoprodotti: v, per es., la voce 11.7 sulle fecce e vinacce; e la voce 7.31 sulle terre e rocce; nonché tutte quelle tipologie di residui che sono utilizzabili senza alcun trattamento recuperatorio e pertanto destinati a rientrare nella categoria dei sottoprodotti. Ed, infine, perché il sottoprodotto, che può assumere il ruolo della materia prima, del semilavorato o del prodotto finito, è suscettibile di ricevere i trattamenti più diversi anche di modificazione della sua identità fisica (come quando viene macinato, triturato ecc. (v. oltre). Senza dire poi che, da più di un decennio, la giurisprudenza della CGCE ha inequivocabilmente chiarito – facendo riferimento ai trattamenti dei rifiuti descritti dagli all. II A e II B alla direttiva rifiuti 91/156, all’epoca vigente – che essi non sono indicativi della natura di rifiuto della sostanza trattata e che anche una materia prima può subire trattamenti analoghi a quelli praticati sul rifiuto (cfr. le note sentenze: Arco e Niselli, citt., punti 36 e 37 della motivazione di quest’ultima).
[20] Vale la pena ricordare che, con il D.M. 05.02.1998, il Governo individuò non solo determinate tipologie di rifiuti che potevano essere reimpiegati con il compimento di determinate operazioni di recupero chimico-fisiche (che incidevano sulle caratteristiche merceologiche e ambientali del materiale); ma anche “riclassificò” come rifiuti recuperabili, tipologie di materiali già definiti “materiali quotati” presso le Camere di Commercio che continuano ad essere esclusi dal campo di applicazione del decreto legge n. 438/1994” (vedi il Decreto Ministeriale 4 settembre 1994 sul “Riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo”) i quali non rientravano nella definizione di rifiuto e che non necessitavano, per il loro riutilizzo, di alcun trattamento di recupero, tanto da venir reimpiegati “tal quali” e cioè con “utilizzo diretto”!
Ebbene dette tipologie di residui sono state inserite nel D.M. 5.2.1998, ALLEGATO 1, Suballegato 1 (come per es. carta, cartone, prodotti di carta; rifiuti di vetro; rifiuti di metalli, ecc.) ma, in realtà, come “materiali quotati in borse merci, listini e mercuriali – ove utilizzabili tal quali o con trattamenti rientranti nella normale pratica industriale – essi possono essere riportati, qualora ricorrano tutte le previste condizioni (v. oltre), nella nuova categoria dei sottoprodotti (come il fresato stradale).
Si ha una conferma testuale oltre che logica di tale finale conclusione considerando che – sia per i materiali quotati in borsa (di cui si predicava il “riutilizzo diretto”: v. la voce 1.1.3, lett. a) del D.M. 5.2.1998 sul “riutilizzo diretto della carta nell’industria cartaria”), sia per il fresato – il decreto del 1998, con riferimento alle “Attività di recupero” (voce 7.6.3.), non era in grado di indicare i trattamenti cui dovevano essere sottoposti, limitandosi a specificare (quanto al fresato) che esso sarà recuperato per “la produzione di conglomerato bituminoso a caldo. “
In definitiva, il D.M. 5.2.1998, in questi casi, invece di individuare specifiche operazioni di recupero, per specifiche tipologie di rifiuti, ha scelto di elencare singole attività o addirittura interi settori produttivi (come quelli dei materiali quotati in borsa merci, listini, mercuriali) per il quali non si rendevano necessari trattamenti di recupero ma erano possibili riutilizzi diretti del materiale “tal quale” (circostanza che, come è noto, caratterizza oggi il residuo-sottoprodotto”).
[21] Il che non è consentito, nel rispetto del principio ordinamentale della gerarchia delle fonti di diritto, di cui agli artt. 1 e 3 delle Preleggi al codice civile.
[22] Su l’importanza di tale decisione, v. P. Giampietro, Quando un residuo produttivo si qualifica sottoprodotto… cit. par. 6, pag. 10 la quale pretendeva – fra l’altro – come specifica “condizione” (non più richiesta) che il sottoprodotto fosse riutilizzato “nel corso del processo di produzione” (di provenienza).
[23] Si intende dire che l’attività di “produzione”, anche per il nostro codice civile, ricomprende sia la produzione di beni che quella di servizi (da cui può quindi derivare la sostanza che ha i requisiti del sottoprodotto e non del rifiuto).
[24] Come rilevato dal TAR lombardo, cit. nel testo che fa riferimento “… al processo produttivo di rifacimento del manto stradale …e non la produzione del fresato in quanto tale…”.
[25] Cfr. Cassazione penale sez. III, 30 settembre 2008, n. 41839, che ha affermato la qualificabilità come “sottoprodotto” per i residui (consistenti in “slops” – miscele contenenti idrocarburi) originati da attività di manutenzione di petroliere e navi cisterna. In tal senso, si veda la più attenta dottrina: P. Fimiani, Relazione nell’incontro di studi, organizzato dal Consiglio Superiore di Magistratura, sul tema: I crimini ambientali: rifiuti, paesaggio e violazioni urbanistiche, tenutosi a Roma il 25/27 marzo 2009, pag. 5, rintracciabile in molti siti web e dello stesso Autore l’ottimo volume: “Il diritto penale dell’ambiente, Giuffrè, 2011, pag. 150 (in cui si afferma che il sottoprodotto può derivare anche dalla “produzione di servizi” sulla scorta della specificazione della Cassazione penale cit.).
[26] Questa è la definizione di “manutenzione” che si legge nel Devoto Oli – Vocabolario della lingua italiana – 2008, Le Monnier, pag. 1619.
[27] Per dettagli tecnici, v. P. Giampietro, Il fresato d’asfalto, cit. par. 2, pag. 7.
[28] Del resto, nella fattispecie decisa, accade quanto si verifica anche in relazione ad altri residui produttivi. Si pensi alla distillazione del greggio per produrre benzine (scopo primario) e contestuale produzione di sottoprodotti, come gli oli, venduti come combustibili a terzi e utilizzati, in altri processi produttivi ed in altro luogo cioè, appunto, sottoprodotti che vengono “… commercializzati, a condizioni economiche vantaggiose, oggetto di una operazione commerciale, corrispondente a “specifiche” (tecniche) poste dall’acquirente” (In tal senso, cfr. CGCE 24 giugno 2008, causa-C188/07, con richiami alle più significative pronunce anteriori della stessa Corte).
[29] V, D, Roettgen e M. V. Vecchio, op. cit. pag. 37.
[30] Per le stesse ragioni non può aderirsi all’ulteriore e successivo approfondimento dello stesso D. Roettgen, “Fresato d’asfalto – Sottoprodotto o rifiuto?, in “Ambiente&Sviluppo, n.12/2013, pag. 993, secondo cui il fresato deriverebbe, “nella quasi totalità dei casi” da una attività di demolizione e pertanto dovrebbe rivestire la qualifica di rifiuto speciale, altrimenti “contrasterebbe con l’art. 184, comma 3, lett. b) del TUA. Si è già osservato che l’attività di scarifica non può configurarsi come attività di demolizione in quanto si inserisce in un processo produttivo più complesso rivolto a produrre (fabbricare) manto stradale (nuovo). Ove ricondotta in questo processo – e non isolata o vista in modo parcellizzato – l’azione di scarifica si presenta come una delle fasi ineludibili dell’intero processo tecnologico, e dunque parte integrante del processo produttivo. Il fresato, infatti, viene utilizzato come sottoprodotto-materia prima nella produzione di nuova conglomerato bituminoso (unitamente alle materie prime vergini ricordate) e, come tutti i sottoprodotti, sostituisce la materia prima primaria (v. retro), facendo risparmiare al produttore di c. b. i relativi costi. Ecco perché, come osserva il TAR cit., il fresato costituisce “… materiale peraltro assai ricercato e quindi intrinsecamente dotato di un apprezzabile valore economico..” tanto da essere “.. qualificato sottoprodotto anziché rifiuto se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento … in un impianto che preveda l’impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto” (destinato alla produzione del conglomerato bituminoso: v. retro, nota 15).
Se poi, sul piano sintattico, non si riscontrano difficoltà insormontabili nel riferire l’inciso dell’art. 184, comma 3, lett. b) – “ fermo restando quanto disposto dall’art. 184-bis” – oltre che ai rifiuti da attività di scavo, anche a quelli da demolizione; resta assodato, in linea tecnica e di diritto, che, potenzialmente, tutti i residui produttivi definibili e classificabili – oggi – come rifiuti, ex art. 183 e 184, possano essere qualificati, ricorrendo la volontà del loro produttore/detentore e le condizioni di legge, “sottoprodotti”, sin dall’origine, come nel caso del fresato (o come nella ipotesi fatta dallo stesso A. relativa proprio al “residuo da demolizione”, richiamata nel testo: v. la nota sentenza Saetti del 2004. Una conferma testuale delle qualifiche plurime e alternative che lo stesso residuo può assumere, a seconda delle circostanze, soggettive e oggettive, è offerta dal “suolo escavato non contaminato”, come si deduce dalla lettura dell’art. 185, comma 5, cui si rimanda, che può assumere, per il legislatore, a seconda dei casi, la qualifica di rifiuto, sottoprodotto o materia prima secondaria.
[31] Cosi D. Roettgen, Fresato d’asfalto cit.
Include il fresato tra i materiali di demolizone, Cass. pen., sez. 3, 15 maggio 207, n. 23788, sulla base dei seguenti argomenti: a) per il fatto che l’art. 184, comma 3, lett. b) non è diverso dall’art. 7, comma 3, let. b) del decreto Ronchi del 1997; b) secondo l’art. 184, comma 3, lett. b), TUA continuano ad essere escluse dalla dsciplia dei rifiuti solo le “terrre e rocce”, a certe condizioni; in cui non rietra il fresato; c) per le terre la disciplina di esonero, ex art. 186, risulta eccezonale e non estensibile, in via analogica, ex art. 14, preleggi; d) non sarebbero applicabili le disposizioni sui residui catramosi e bituminosi, in quanto “… essi erano riutlizzati dopo aver subito trattamenti preliminari”.
Nessuna delle articolate motivazioni può reggere, per se stessa e nell’insieme, soprattutto, alla luce della noramtiva sopravvenuta (ex art. 184-bis, a partire dal 2010). Si è già detto, in questo paragrfo, della specificità del fresato rispetto ai rifiuti da attività di demolizione e costruzione, fermo restando, in linea di sistema, che quasiasi resiuo produttivo – che rivesta le cartterisitche soggettive ed oggettive introdotte, ex novo, dall’art. 184-bis – può essere qualificato sottoprodotto, sin dall’origine, anche se non rientra nelle “terre e rocce” di cui all’art. 186 (oggi abrogato) e seppure sia classificato come “rifiuto” dall’art. 184, con un suo numero di codice CER, ed una sua individuazione espressa, per es., nella noramtiva regolamentare sul recupero dei rifiuti (v. per es. il D.m. 5.2.1998). In definitiva, la pronuncia della S.C., oltre a registrare, delle “debolezze” nella sua impostazione di diritto, risulta superata dalla normativa successiva, fermandosi ad una identità testuale di due disposizioni (art. 184 e art. 7 del Ronchi) che perde di senso con l’introduzione dell’art, 184-bis. Il quale virtualmente si estende, come è noto, a tutti i residui produttivi e ne consente uno “specifico trattamento” purché non diverso dalla n. p. i. (anche pertanto l’ostacolo opposto ai “…trattamenti preliminari dei residui catramosi e bituminosi” , oggi non è sufficiente per escludere il sottoprodotto ove non si aggiunga che essi superano o non rientrano nella n. p. i.). Nelo stesso senso (di esclusione), v. Cass. pen. n. 16695/2004. In senso contrario (favorevole al sottoprodotto), cfr. Cass. pen- n. 13314/2003. Si pripete, comunqe, che dette pronunce non possono essere invocate come “precedenti” significativi e “spendibili”, nel nuovo qudro legislativo (comunitario, dal 2008 e interno), perché ad esse sfugge completamente, per ragioni di tempo, la problematica nuova connessa alla riforma del 2010.
[32] Il periodo è tratto da D. Roettgen e M.V. Vecchio, citt.
[33] Su tali specifiche e rilevanti questioni, si rinvia, per approfondimenti, a P. Giampietro, Quando un residuo produttivo si qualifica “sottoprodotto” cit. par. 4 e seguenti.
[34] V. il 22° “considerando” della Direttiva 2008/98 che rileva: “Poiché i sottoprodotti rientrano nella categoria dei prodotti, le esportazioni di sottoprodotti dovrebbero conformarsi ai requisiti della legislazione comunitaria pertinente…”. E dunque prevedere modalità di raccolta, deposito, trasporto, consegna a terzi, ecc.
[35] Che, peraltro, sarebbe inapplicabile ove il fresato-sottoprodotto fosse conferito ad altre ditte per la produzione di nuovo conglomerato bituminoso, come consentito dall’art. 184-bis, cioè commercializzato.
[36] Lo stesso P. Fimiani, La tutela penale cit. pag. 153, correttamente sottolinea: “ Va infine precisato che il riutilizzo va, comunque, inteso in senso oggettivo, e non temporale, con la conseguenza che lo stesso può essere anche differito nel tempo, purché sia certo”. Così anche P. Giampietro “Quando un residuo produttivo cit. 8.11. 2010, in lexambiente.it
[37] Nella pronuncia del TAR lombardo cit. si specifica in punto di termine di deposito e di tempi di reimpiego del fresato: “… E tutto ciò non senza chiarire peraltro, con riguardo all’art. 184 bis D.Lgs. 152/2006, che non si tratta di una certezza genericamente riferita “al normale reimpiego” del fresato d’asfalto, quanto di un dato che va dichiarato e indicato nell’autorizzazione e, in quanto tale, imposto come condizione di corretta gestione dell’impianto”. Questa soluzione può essere utile (termine fissato dall’autorità amministrativa) ma non è prevista né imposta dalla legge (che parla di “certezza del riutilizzo”, senza imporre un temine fisso e rigido la cui inosservanza trasformerebbe il sottoprodotto in rifiuto, come ipotizza la sentenza d primo gra do cit.).
[38] Merita certamente consenso la motivazione relativa alla volontà dell’utilizzatore desunta dallo stato di abbandono del residuo produttivo (volontà incompatibile con il riutilizzo certo del residuo produttivo). Risulta, da ultimo, del tutto forzata, come osservato, l’affermazione di principio – rivolta alla fattispecie decisa (ove si legga come deposito di una quantità massima di fresato che verrebbe “consumato quotidianamente per la produzione di nuovo asfalto”) – qualora si faccia assurgere la “quotidianità” (dello svuotamento del deposito) come tempo adeguato (e massimo) per il deposito del “sottoprodotto” (per le ragioni esposte nel testo).
[39] In tema, cfr. P. Fimiani, in La tutela penale dell’ambiente 2011 cit. pag. 150/153 per il quale il sottoprodotto può essere “commercializzato” nel momento in cui è previsto che sia ceduto a ditte terze) e può essere utilizzato dl suo produttore o terzo non necessariamente nella sua integralità, come nella precedente normativa: “ Rispetto alla versione del 2008, .. quella del 2010 non prevede più il requisito della natura integrale del riutilizzo. L’eliminazione appare coerente con il sistema… nulla esclude che il produttore decisa di disfarsi in parte del sottoprodotto che, a quel punto, diventa un rifiuto”.
[40] In proposito, va aggiunto che la mancata previsione, nell’art. 184-bis, di strumenti probatori da utilizzare tassativamente, per dimostrare la ricorrenza di utilizzo certo del sottoprodotto, è frutto di una tendenza normativa manifestatasi prima della Dir. 2008/98/CE e del D.lgs. 205/2010. Ed infatti, già a seguito delle modifiche apportate all’art. 183, dal secondo correttivo del TUA , il d.lgs. 4/2008, era stata ampliata la discrezionalità riconosciuta agli operatori economici, in merito alle modalità con cui provare la certezza dell’utilizzo. Quest’ultimo decreto, nel riformulare l’articolo 183, non ha riprodotto la previgente prescrizione (di cui alla lett. n., penultimo periodo) che prevedeva l’obbligo di attestare la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo …” tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo”. La scelta definitiva è stata, quindi, quella di non limitare gli strumenti probatori vincolando l’operatore all’utilizzo esclusivo di dette autocertificazioni. La possibilità di provare, con ogni mezzo idoneo, la certezza dell’utilizzo è stata riconosciuta anche in giurisprudenza: si veda, in tal senso, Corte di Cassazione, Sezione 3 pen. , del 10 luglio 2008, n. 35235, con la quale, nel cassare con rinvio una ordinanza del Tribunale di Terni che aveva escluso la qualificabilità come sottoprodotti di taluni scarti della lavorazione di pavimenti di linoleum, ha affermato che “. il giudice del rinvio dovrà riesaminare la fattispecie tenendo conto dei principi prima esposti ed in particolare, ai fini della valutazione della prova del riutilizzo, non potendo più tenere conto dalla mancata adozione dell’autocertificazione, dovrà esaminare la documentazione prodotta dall’indagato a favore della propria tesi…” (in www.ambientediritto.it).
[41] Tale formulazione va oggi declinata con l’attuale parametro della “normale pratica industriale”, su cui v. oltre.
[42] Cioè “trattamenti minimi o minimali” – che non modificano l’identità merceologica e le caratteristiche ambientali della sostanza – rispetto a quelli che operavano tale effetto, descritti come trattamenti sostanziali o preliminari o recuperatori: distinzione oscura e fomite di mai sopite contestazioni: per approfondimenti, v. P. Giampietro, “I trattamenti dei sottoprodotti, cit. par. 4, pag. 30 e ss. (con indicazioni della giurisprudenza e della dottrina, favorevole o contraria alle tesi dell’autore).
[43]Da parte sia del produttore che dell’utilizzatore o dell’intermediario. La lett. c) del comma 1, dell’art. 184-bis (come l’art. 5 della direttiva cit.) non specifica chi sia il soggetto autorizzato a effettuare detti trattamenti limitandosi a richiedere che essi rientrino nella n. p. i. Ne deriva che ogni interpretazione limitativa risulterebbe in contrasto con il diritto positivo oltre che smentita dalla stessa Commissione U.E. nella recente Guidance del 2012, come nella Comunicazione del 2007 cit., la quale ultima, in punto di trattamenti, adotta parole chiare ed univoche: “ …. La catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile…. Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del (1) fabbricante, altre presso (2) l’utilizzatore successivo, altre ancore sono effettuate (3) da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione, non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto” . Evidenzia, giustamente, la rilevanza penale del criterio della n. p. i., P. Fimiani, Tutela penale dell’ambiente, 2011, cit.
[44] Sul tema dei trattamenti ammessi o vietati, si richiama la nota e recente sentenza di Cass. pen. sez. 3, n. 17453/2012 cit., commentata criticamente da P. Giampietro, I trattamenti del sottoprodotto cit., in www.lexambiente.it, con citazione degli AA. favorevoli e contrari. Già a partire dall’anno 2000, la CGCE, nella già citata sentenza ARCO, aveva, operato una chiara distinzione fra i trattamenti o operazioni “di recupero completo” – che trasformano il rifiuto in “materia prima secondaria” o merce (cioè che determinano “la cessazione della qualifica del rifiuto”, ex art. 6 della direttiva 2008) – e i “trattamenti preliminari” (o minimali) che interessano sia i rifiuti sia i “sottoprodotti”, chiarendo che: a) i primi (trattamenti recuperatori), incidono sull’identità del rifiuto, in quanto comportano, per effetto della loro esecuzione, che il rifiuto “acquisti le stesse caratteristiche e proprietà di una materia prima” (che ovviamente esso non possedeva in precedenza); b) i secondi (trattamenti minimali), invece, non rivestono tale efficacia modificativa poiché non trasformano la sostanza del residuo produttivo o la sua identità (il residuo pertanto non perde i suoi requisiti merceologici e di qualità ambientale che già possedeva, prima del trattamento). Questa distinzione, come accennato nel testo, perde sostanzialmente di significato (tecnico e giuridico) con riferimento ai sottoprodotti, sia perché formalmente superata dal nuovo parametro della “normale pratica industriale” sia in quanto oggi il trattamento riguarda una sostanza che, fin dall’origine, deve rivestire le caratteristiche del sottoprodotto (v. oltre.
[45] Si fa qui riferimento:
(a) alla “Comunicazione della Commissione UE del 21.2.2007, appena sopra cit., nella quale, ancor prima della codificazione del sottoprodotto, venivano fornite una serie di esemplificazioni dei trattamenti ammessi sui sottoprodotti nel noto passo, a p. 3.3.2.“… dopo la produzione, esso può̀ essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può̀ dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo..”;
(b) alle conferme successive contenute linee guida della Commissione U.E. del giugno 2012 (“Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste”), la quale – nell’interrogarsi nuovamente su cosa debba intendersi per residuo ”utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla “normale pratica industriale” – osserva che, come per la materia prima primaria, anche per il sottoprodotto si rendono necessari usualmente dei trattamenti, prima che possa essere impiegato nel processo produttivo. Questo il passo delle “Guidance” di maggiore interesse ai nostri fini:
“ D’altra parte, si deve considerare che anche le materie prime primarie solitamente richiedono qualche trattamento (processing) prima di poter essere utilizzate in processi di produzione” (“On the other hand, it has to be considered that primary raw materials” (analogamente al sottoprodotto)” “usually also require some processing before they can be used in production processes” .
In tema, v. L. Prati, La nuova definizione del sottoprodotto ed il trattamento secondo “la normale pratica industriale” in Lexambiente.it, pubblicato il 15.2.2011: “… Da un lato infatti la “normale pratica industriale” non può essere eccessivamente circoscritta, pena la sostanziale abrogazione dell’art. 184-bis, primo comma. Dall’altro lato però essa non può neppure abbracciare qualsiasi operazione comunemente inserita in un ciclo produttivo, altrimenti si finirebbe per trasformare anche ogni operazione di recupero di rifiuti tra quelle elencate ai punti da R1 ad R13 dell’Allegato II alla Direttiva in un trattamento preliminare all’utilizzo di sottoprodotto. Nonostante l’inevitabile permanere di aree grigie, dovrebbe potersi affermare che certamente rientrano nella “normale pratica industriale tutte quelle attività industriali che possono essere indifferentemente condotte con un sottoprodotto piuttosto che con una materia prima, un intermedio od un prodotto senza che ciò comporti aggravi sotto il profilo dell’impatto ambientale”. In tema, cfr. G. Gavagnin “La «normale pratica industriale?» nell’interpretazione della Cassazione: chiarezza non ancora fatta”, in Riv. giur. ambiente 2012, 6, 746.
[46] Al pari della Commissione UE, anche la giurisprudenza della Cassazione penale, soprattutto con la sentenza 17453/2012, sotto altri profili assai criticabile, ha finito con l’affermare, in linea di principio, che “…. (è) conforme alla pratica industriale quella serie di operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire, escludendosi di conseguenza, tutti quegli interventi manipolativi del residuo che siano diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”. Ma da tale principio la S.C. non trae le dovute conseguenze, ripristinando, incoerentemente, il binomio trasformazioni sostanziali o radicali (vietate) e trasformazioni minime, ammesse (tale non sarebbe, nel caso deciso dalla Corte, la “separazione”).
[47] Cfr. gli AA. cit. retro nonché, da ultimo, L. Prati, “Rifiuti, sottoprodotto e normale pratica industriale: necessità di una interpretazione che tenga conto della finalità della norma”, in www.lexambiente.it.
[48] La lett. c) dell’art. 5 della direttiva non indica il soggetto che può effettuare il trattamento in via esclusiva (se il produttore o il terzo); e altrettanto dicasi per l’omologa lettera dell’art. 184-bis: quindi risulta esclusa ogni limitazione oggettiva. .
[49] La Commissione UE nel 2007 e nel 2012 citt. fa riferimento anche alla figura del “mediatore” che si colloca come interfaccia fra produttore e terzo utilizzatore a condizione che, anche per quest’ultimo, “… tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione”. Si superano, pertanto, le tesi che restringono la nozione di sottoprodotto al riutilizzo in situ della residuo produttivo e solo da parte del suo produttore, visto che tali trattamenti, in tutto o parte, possono essere svolti anche dal terzo o dal mediatore sempre che il residuo sia “… parte integrante” del processo produttivo” (in modo intrinseco e costante e non saltuario o accidentale.
I trattamenti della n. p. i. possono essere eseguiti da più persone ed essere diversi (e non “… uno solo che deve appunto corrispondere alla n.p.i.”: così V. Paone, Sottoprodotti: una parola chiara…. cit. pag. 913, il quale si fonda sulla formula normativa “.. utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica…”. A nostro avviso questo passo va letto nel senso che alla “normale pratica industriale” non può essere aggiunto un ulteriore e diverso trattamento ma non nel significato che la n. p. i. comporti ed imponga un unico trattamento, potendo invece richiedere più trattamenti diversi come nel fresato: si veda, a riprova, per es. il D.M. 161/2012, sui materiali da scavo, ove si specifica, nell’Allegato 1, che: “Costituiscono un trattamento di normale pratica industriale” (al singolare: n. d. scriventi) “ quelle operazioni, anche condotte non singolarmente” (al plurale: n. d. s.) “alle quali può essere sottoposto il materiale da scavo, finalizzate al miglioramento delle sue caratteristiche merceologiche per renderne l’utilizzo maggiormente produttivo e tecnicamente efficace “).
[50] Fermo restando che, in questo spazio temporale, i trattamenti rientranti nella n. p.i. possono essere compiuti anche dal produttore e non solo dall’utilizzatore successivo (così, invece, V. Paone, op. cit. a pag 915, sulla considerazione che (è) “…. escluso che il trattamento consista in una trasformazione del residuo slegata al suo effettivo e concreto utilizzo nel nuovo processo produttivo… l’attività ammessa sul sottoprodotto dovrà necessariamente essere effettuata dall’utilizzatore medesimo” ). Non solo tale limite soggettivo non è accreditato dal diritto positivo, come rilevato sopra; ma non si vede perché il produttore del sottoprodotto, dopo la formazione di quest’ultimo (o anche prima, intervenendo sul processo produttivo, salvo in questo caso a considerare il residuo, un vero e proprio prodotto e non un sottoprodotto, come ha ritenuto la Commissione UE, sin dal 2007), non possa trattarlo, secondo la n.p.i., al fine di esitarlo più facilmente e con maggior profitto sul mercato (degli utilizzatori).
[51] Ci sembra valorizzare questa fase – cronologica e funzionale – del trattamento (prima dell’utilizzo) L. Prati, in “Sottoprodotto e nomale pratica industriale cit., 2013, nei passaggi in cui esclude il compito “recuperatorio” del trattamento ed esalta lo scopo del riutilizzo: “… La lettura minimalistica si traduce in una abrogazione, in via interpretativa, della possibilità ora concessa di effettuare un trattamento preliminare o preventivo sul residuo, prima del suo utilizzo, mantenendone tuttavia la natura del sottoprodotto”.
[52] D’altronde lo stesso V. Paone, nel prosieguo della sua densa nota ( “Sottoprodotto: una parola chiara cit., pag. 914) finisce con l’ammettere che: “ .. Invero, come si è già detto, non è fattibile (?) un’interpretazione per cui il trattamento cui fa cenno la norma sui sottoprodotti, coincida con il trattamento citato dalla direttiva con riguardo ai rifiuti…”.
[53] In proposito, L. Prati, Rifiuti, sottoprodotti e normale pratica cit., osserva che, secondo un principio teleologico, da affiancare a quello letterale e sistematico, “.. nei casi dubbi, dovrebbe ritenersi rientrare, nella normale pratica industriale, ogni operazione effettuata sulla sostanza o sull’oggetto, preventivamente al suo utilizzo, che, nel settore industriale di riferimento, viene condotta anche su materie prime, intermedi o prodotti, senza che derivi un maggiore rischio in termini di impatto ambientale per il fatto che venga impiegato un sottoprodotto”. Si conferma, pertanto, che i trattamenti, del produttore o del terzo utilizzatore, seguono la produzione del residuo ma precedono il nuovo processo di utilizzazione (i cui trattamenti non vanno confusi con quelli di preparazione al riutilizzo). Con riferimento ai trattamenti del fresato, compiuti da terzi, al di fuori dal luogo di produzione, v. D. Roettgen, in Fresato d’asfalto: sottoprodotto…ecc.?, in Rifiuti, cit., pag. 38, il quale, in premessa, osserva che: “… Per quanto concerne la condizione di cui alla lettera c) dell’articolo citato, premesso che il trattamento del fresato d’asfalto può avvenire, oltre che in situ, in appositi impianti…. Tutti gli impianti di trattamento del conglomerato bituminoso sotto forma del fresato d’asfalto sono a oggi autorizzati ai sensi della disciplina in materia di rifiuti, in quanto ritenuti svolgere un’operazione di recupero. La presenza di un’operazione qualificata formalmente come operazione di recupero esclude ontologicamente che essa possa essere considerata come trattamento di normale pratica industriale (inter alia Comunicazione 59/2007 della Commissione europea).
Mi permetto di rilevare che la prassi provinciale più diffusa, allo stato, non costituisce, di per sé, un argomento dirimente per avallare la tesi dell’obbligo di autorizzazione del recupero del fresato, ove svolto presso terzi, sia perché, in molti casi, non si è tenuto conto, per ragioni di tempo, della nuova normativa sul sottoprodotto sia in quanto, la più recente giurisprudenza (come la sentenza del Tar Lombardia e la conferma del Consiglio di Stato, oltre ai motivi esposti nel testo), possono fare fortemente dubitare della fondatezza di quella prassi.
Quanto alla incompatibilità “ontologica” fra attività di recupero e trattamenti della n.p.i., occorrerebbe, sul piano metodologico, prima individuare quali sono i trattamenti della “normale pratica” e poi verificare se essi, in alcuni casi, possono coincidere o meno con quelli previsti dalla normativa sul recupero dei rifiuti (ammesso che sia corretta tale comparazione: sul punto rimando alle considerazioni del testo). Fermo restando che, secondo l’insegnamento consolidato della CGCE e della Commissione UE non si deve assegnare eccessivo peso al fatto che alcuni trattamenti sul sottoprodotto possono coincidere con quelli di recupero previsti dalla normativa sui rifiuti, in quanto, come ribadito nella Guidance del 2012, tali trattamenti possono riguardare anche un prodotto (e quindi logicamente un sottoprodotto) secondo quanto già chiarito dalle note sentenze Arco del 2010 e Niselli (11 novembre 2004 causa C- 457/02 ) cit.
[54] Anche la miscelazione successiva dell’utilizzatore/produttore risulta consentita, in quanto, come ripetuto, non riguarda il trattamento preventivo della n. p. i. ma le lavorazioni del nuovo processo produttivo, non regolata dalla lett. c) dell’art. 184-bis.
[55] In conclusione, trattasi di operazioni (di riselezione e riduzione granulometrica) che non possono in alcun modo essere ricondotte a quegli “ulteriori trattamenti diversi dalla normale pratica industriale”, vietati dall’art. 184-bis, lett. c), per le ragioni tecniche e giuridiche esposte.
[56] La Commissione U.E. nella Comunicazione del 2007 cit., fornisce specifici esempi di “non rifiuti” da considerare “sottoprodotti” o materie prime con riferimento:
– alle “scorie di altoforno” (“Le scorie di altoforno possono essere utilizzate direttamente al termine del processo di produzione, senza doverle sottoporre ad alcuna trasformazione che non sia parte integrante del processo di produzione in corso (ad esempio, la frantumazione, per ridurle alle dimensioni richieste. Nella versione inglese: “ without further processing (“operazioni di recupero”) that is not an integral part of this production process such as crushing (“frantumazione”) to get the appropriate particle size”). “ Si può quindi ritenere che la definizione di rifiuto non si applica a questo materiale”;
– ai sottoprodotti dell’industria agroalimentare “utilizzati massicciamente, come materie prime, per produrre mangimi direttamente dagli agricoltori” o da terzi “ fabbricanti di alimenti composti per animali”.
Dette materie prime derivano da numerosi processi di produzione: dello zucchero, amido, malto ecc. , “sono prodotti deliberatamente nell’ambito di processi di produzione adattati a tal fine” ovvero “soddisfano tutti i criteri cumulativi definiti dalla Corte”, fra cui “non necessitano di trasformazioni preliminari”;
– ai “sottoprodotti della combustione: “gli impianti di desolforazione di fumi eliminano lo zolfo dai fumi generati dall’impiego di combustibili fossili solforosi nelle centrali elettriche, per (ridurre) l’inquinamento dell’aria e le piogge acide. Il materiale che ne deriva, gesso da impianti di desolforazione di fumi (FGD), trova le stesse applicazioni del gesso naturale e in particolare viene utilizzato nella produzione di pannelli”.
Con riferimento poi alle “materie prime”, merita porre in evidenza il pensiero della Commissione sulla:
– carta da macero, date certe condizioni (per quanto attiene al settore industriale della carta, cartoni e pasta per carta);
– “ trucioli, cascami, segatura di legno non trattato.
Si osserva, in proposito, che tali scarti:
“… sono prodotti nelle segherie o nell’ambito di operazioni secondarie, come la fabbricazione di mobili o pallet e il confezionamento, contemporaneamente al prodotto principale, ovvero il legno lavorato. Questi elementi sono poi impiegati come materie prime per la produzione di pannelli in legno, come quelli in truciolato, o nella fabbricazione della carta. Il loro utilizzo è certo, rientra nel processo di produzione” (nel senso allargato di cui ai parr. 3.3.2 e 3.3.3, cioè “da parte degli utilizzatori successivi e dalle aziende intermedie…”) e non necessita di trasformazione previa, se non quella necessaria a ridurre tali materiali alle dimensioni richieste per poterli integrare nel prodotto finale” (trattamenti minimali che non costituiscono, per la stessa Commissione, “operazioni di recupero completo”, secondo la vecchia terminologia).
[57] Questo è l’intero testo della parte motiva: “… Il Collegio ritiene che sia infondato anche il secondo motivo perché nella specie il materiale raccolto non è qualificabile come sottoprodotto, neppure alla stregua della nuova definizione dei sottoprodotti data dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 184 bis, inserito dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, art. 12. La nuova disposizione, invero, richiede perché si tratti di sottoprodotto, tra l’altro, da un lato, che la sostanza o l’oggetto possa essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (comma 1, lett. c), e, da un altro lato, che la sostanza o l’oggetto sia originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non sia la produzione di tale sostanza od oggetto (comma 1, lett. a). Nella specie, la sentenza impugnata ha accertato che il riutilizzo dello scarificato del manto stradale richiedeva adeguate operazioni di recupero per poter essere usato per la produzione di ulteriore conglomerato bituminoso vergine e che erano necessarie ulteriori trasformazioni e trattamenti, tramite apposito impianto. In ogni caso, anche qualora questo ulteriore trattamento non fosse diverso dalla normale pratica industriale, ritiene il Collegio che non sussiste comunque il requisito di cui alla lett. a), perché non si tratta di sostanza o di oggetto originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrale”.
[58] In proposito, non si è tenuto in alcun conto che la Commissione U.E., nella Comunicazione del 2007 cit., ragiona assai diversamente ritenendo per es. che alcune sostanze (per es. alcuni tipi di scorie) sono sottoprodotti, in quanto “.. utilizzate direttamente, al termine del processo di produzione, senza doverle sottoporre ad alcuna trasformazione che non sia parte integrante del processo di produzione in corso” come “ la frantumazione, per ridurle alle dimensioni richieste” dall’utilizzatore (Nella versione inglese: “ without further processing (“operazioni di recupero”) ….. such as crushing (“frantumazione”) to get the appropriate particle size….”. Con la specificazione espressa che “.. Si può quindi ritenere che la definizione di rifiuto non si applica a questo materiale” (p. 1 dell’Allegato I pag. 16 dello stampato).
[59] In orine alla distinzione temporale e funzionale di dette fasi, si consideri il seguente brano della Comunicazione del 2007: ( par. 3.3.2.): “.. dopo la produzione esso” (sottoprodotto) “ può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità…”.
[60] Nelle Guidance cit. del 2012, la stessa Commissione UE specifica che il trattamento può essere meccanico e quindi anche tramite un impianto (meccanico): “… On the other hand, a treatment which is normal pratica industriale, ad esempio la modifica della dimensione o forma da trattamento meccanico, non industrial practice, e.g. at modification of size or shape, by mechanical treatment, does not impedire il residuo di produzione sia considerata come un sottoprodotto. prevent the production residue from being regarded as a by-product”. Per quanto riguarda i residui di produzione, la CGUE trovato nel Niselli
[61] Il fresato, con le caratteristiche previste dalle prescrizioni tecniche cit., è destinato, come ricordato, alla miscelazione con aggregati lapidei, leganti bituminosi ed eventuali attivanti chimici funzionali, nel ciclo produttivo dei conglomerati bituminosi, come componente necessaria per la formazione del prodotto finito (cioè il nuovo C. B. ). Sottolineano opportunamente tale profilo – relativo alle specifiche tecniche del fresato da riutilizzare, D. Roettgen – M. V. Vecchio, nella rivista Rifiuti, cit. pag. 38: “.. Specifiche tecniche per il granulato conglomerato bituminoso: Uni En 13108, per il granulato conglomerato bituminoso per confezionamento Cb a caldo Uni En 13242, Cold Mix Recycling (Cmr), per il granulato conglomerato bituminoso per uso ingegneria civile costruzione strade”. Ritorna sull’argomento, . D. Roettgen, in Rifiuti d’asfalto. Sottoprodotto o rifiuto?, in Ambiente &Sviluppo n. 12/2013, cit.
Merita aggiungere, peraltro, che non mi si possa ipotizzare un rapporto giuridico diretto di assoggettamento del residuo produttivo alle “norme UNI relative o del BREF o di altri manuale di settore”, nel senso che quelle prescrizioni si impongano, in modo vincolante, sulle caratteristiche del fresato. Le norme UNI e le altre “normative simili” costituiscono, infatti, disposizioni di tipo “volontaristico” prive, di per sé, di una efficacia obbligatoria e cogente, ex lege, salvo che siano richiamate o recepite da leggi o da regolamenti o da provvedimenti amministrativi (v., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. ii, 14 ottobre 2010, n. 32824 secondo cui “… i documenti BREF sono elaborati in sede UE al fine di suggerire agli Stati membri ed agli operatori del settore l’individuazione delle BAT (migliori tecniche disponibili) e le condizioni di applicabilità alle singole vicende. In tal caso, le regole scaturenti dai BREF e, in particolare, i livelli d’emissione là posti non esprimono né valori massimi inderogabili, né tampoco valori limite d’emissione per i singoli inquinanti, servendo piuttosto ad indicare (seri) modelli di riferimento, applicati sulla scorta delle linee-guida, per migliorare allo stato dell’arte le prestazioni ambientali. Dal canto loro, dette linee-guida vanno non eseguite tout court, ma applicate in modo calibrato al tipo ed alle particolarità dell’impianto e del sito in cui si colloca, negli ovvi limiti non solo delle conoscenze tecniche, ma soprattutto della loro sostenibile realizzabilità tecnica ed economica nel singolo contesto, al fine d’ottenere il miglioramento sperato in termini di valori d’emissione”.
Queste prescrizioni, dunque, possono assumere rilevanza giuridica prescrittiva solo qualora siano recepite da altre fonti normative – direttamente efficaci e cogenti a carico del soggetto destinatario (per es. il titolare dell’impresa che gestisce il sottoprodotto) – ovvero da provvedimenti amministrativi (gli atti autorizzatori all’esercizio di attività industriali: per es. l’ AIA). Solo a queste condizioni, qualora non vengano rispettate le specifiche tecniche o i trattamenti dettati delle norme UNI, ecc. – a cui si rinvia in sede autorizzatoria – il residuo produttivo non sarà qualificato dall’Autorità amministrativa come sottoprodotto. Ma, in tal caso, detta qualifica potrà essere negata, con conseguenze anche di tipo penale, non perché i trattamenti cui è sottoposto il residuo siano difformi dalle “norme UNI… Bref o dei manuali di settore” ma in quanto l’utilizzo del sottoprodotto risulterebbe contrario ad una prescrizione di autorizzazione e quindi non “legale”, in violazione della lett. d) dell’art. 184-bis cit. (Il che significa che quel residuo, oggetto del medesimo tipo di “trattamento”, qualora impiegato in un altro processo produttivo assentito da una autorizzazione che non richiami le stesse norme UNI, ben potrebbe legittimamente configurarsi come sottoprodotto, in presenza delle altre condizioni di legge).
[62] Cfr. Cass. Sez. III del 16.12.2003 (Ud. 29/10/2003 – 16/12/2003, n. 47904, nella fattispecie è stata affermata la piena legittimità dell’impiego dei “sottoprodotti” consistenti in trucioli di plastica in miscelazione con altra materia prima ai fini della produzione di “tubi in plastica”.
[63] Distingue nettamente le due fasi produttive, quella di formazione del sottoprodotto (nel caso di scarifica del manto stradale vecchio) e l’altra, distinta, di lavorazione (tramite miscelazione, in un distinto e succssivo processo produttivo di utilizzazione che, ripsetto al primo, si preesnta come un “posterius”), la Cassazione citata a nota precedndete che, sul punto, osserva: “… Ed a tale ultimo proposito le obiezioni del ricorrente P.M., traenti spunto dalla circostanza che l’impiego produttivo dei macinati richieda la “miscelazione” con materia prima vergine… non colgono nel segno, atteso che tale commistione e’ un posterius rispetto al procedimento in considerazione, non implica alcun trattamento modificativo comporta solo l’unione, nella fase produttiva de qua, di sostanze del tutto omogenee sotto ogni profilo fisico-chimico” .
In definitiva, una volta che sia stato generato, da un processo produttivo che ha un diverso “scopo primario” – ed esso possa essere “utilizzato direttamente”, con o senza i trattamenti della n. p. i. – il sottoprodotto acquista la qualifica di merce o prodotto che gli consente di ricevere, nel nuovo processo produttivo, a) qualsivoglia impiego: a) da solo o come componente, con altre materie prime, di una miscelazione; b) e qualsiasi trattamento (anche quello che gli farà perdere la sua identità per realizzare un nuovo prodotto, affatto diverso). La miscelazione, sub a) non va confusa con quella che fa perdere l’identità al residuo-rifiuto, essendo il sottoprodotto (sostanza od oggetto) già fuoriuscito dall’area di pertinenza (della gestione) dei rifiuti, prima e al momento del suo utilizzo.
[64] Ed infatti la norma UNI cit. definisce una specifica tipologia di conglomerato (il conglomerato bituminoso di recupero) nei termini seguenti :
“conglomerato bituminoso recuperato mediante fresatura degli strati di rivestimento stradale, frantumazione delle lastre provenienti da squarci di pavimentazioni asfaltiche, blocchi provenienti da lastre asfaltiche, e conglomerato bituminoso proveniente da scarti di produzione e sovra-produzione”.
Il fresato, dal tenore letterale di tale norma “volontaristica”, rientra quindi a pieno titolo tra le componenti di una specifica tipologia di conglomerato, vale a dire quello “di recupero”; la locuzione definitoria di tale “prodotto” va però bene intesa: il termine recupero – che troviamo nel testo delle prescrizioni UNI – non viene usato secondo il lessico della normativa sui rifiuti, ma impiegato come sinonimo di ottenuto/realizzato ”…. dalla fresatura degli strati di rivestimento stradale…ecc.” per contrapporlo a quello ottenuto/realizzato con materie prime.
Sotto altro profilo, non può condividersi la tesi secondo cui le caratteristiche del sottoprodotto non potranno che corrispondere a quelle definite dalle norme Uni per la materia prima utilizzata nel processo produttivo. Tale affermazione di principio, sprovvista di alcun supporto di diritto positivo, finirebbe con il comportare la sostanziale sterilizzazione o inapplicazione dell’art. 184-bis. D’altronde, anche da un punto di vista tecnico-merceologico e logico, non si vede come possa pretendersi tale “corrispondenza di caratteristiche” fra uno scarto di produzione qual è il sottoprodotto – che conserva comunque le tracce (indesiderate) delle sostanze impiegate nel processo produttivo, tanto da poter essere trattato secondo la n. p. i. – e una materia prima primaria (che, per definizione, non risulta interessata da alcuna precedente manipolazione). In definitiva, i sottoprodotti costituiscono pur sempre dei residui produttivi che, per la loro origine, rivestono caratteristiche diverse (il più delle volte inferiori e/o peggiori) rispetto a quelle delle materie prime “vergini”, tali da richiedere, sovente, appositi trattamenti, nella fase preparatoria, “non diversi dalla n.p.i.” prima di essere introdotte nel nuovo processo di utilizzo, in cui subiranno, senza alcun limite, ulteriori lavorazioni, unitamente ad latro materiale, per la fabbricazione del prodotto finito (v. retro) Insiste sulla necessità di tener distinte le norme tecniche sul “prodotto finito” da quelle relative alla “materia prima secondaria”; e le norme tecniche poste per quest’ultima (m.p.s. ottenuta dalle attività di recupero dei rifiuti) da quelle che possono riguardare il sottoprodotto A. Pierobon, in Studio Pierobon, Ancora sui sottoprodotti: una sintesi (terza parte). A mio avviso gran parte degli equivoci che l’A. evidenzia (e intende superare) nel suo scritto verrebbero semplificati, se non superati del tutto, ove si distinguessero: 1) i due processi produttivi: quello in cui si forma il sottoprodotto e il secondo in cui quest’ultimo viene utilizzato e 2) non si identificassero, come suggerisce la Cassazione, i trattamenti della prima fase con quelli della seconda (afferenti il processo di utilizzo). Come ripetuto nel testo, l’area dei “trattamenti” da individuare (come n. p. i. ) si riferisce all’attività del produttore o agli interventi del terzo, prima del riutilizzo, (con i limiti funzionali ad una migliore utilizzazione di un materiale che ha già le caratteristiche del prodotto). I trattamenti del processo produttivo sub 2), sono del tutto liberi e possono trasformare radicalmente l’identità del sottoprodotto sino a trasformarlo in un prodotto del tutto diverso (come quando esso viene utilizzato come materia prima o semilavorato). In questo senso, cfr. A. Muratori, Sottoprodotto: La Suprema Corte in difesa del sistema tolemaico?, in Ambiente&Sviluppo, n. 7/2012 , pag. 605 e ss. (v. npta 15, pag. 609).
[65] Così D. Roettgen , Fresato d’asfalto, in Ambiente&Sviluppo, 2013 cit. che si domanda: “I Giudici confermano comunque che la classificazione di un oggetto o di una sostanza come sottoprodotto è sempre soggetta a una valutazione ‘caso per caso’… Considerato che l’accertamento della effettiva sussistenza delle condizioni stabilite dall’art. 184bis sarà comunque demandato, a impianto realizzato e con tutte le incertezze che ne derivano, alle competenti autorità di controllo, è da chiedersi se gli operatori coinvolti non giungano a una maggiore certezza del diritto optando per la strada della classificazione come rifiuto e della exit strategy non per via del meccanismo del sottoprodotto, bensì del c.d. endofwaste (EoW cessazione della qualifica di rifiuto). Com’è noto, il concetto dell’endofwaste è da tenere ben distinto dalla nozione di sottoprodotto. Nel caso del sottoprodotto, si pone la questione se questo sia divenuto un rifiuto. Nel caso dell’endofwaste, al contrario, è indubbio che la sostanza o l’oggetto abbia rivestito in precedenza la qualifica di rifiuto; il punto di domanda riguarda piuttosto se questo abbia o meno cessato di essere un rifiuto”.
[66] Aggiunge detto A. che: “ … La classificazione del fresato d’asfalto come rifiuto (cfr. anche il punto 7.6 dell’Allegato 1, Suballegato 1, al Dm 5 febbraio 1998) si porrebbe in linea con la qualifica avvenuta ad opera della stessa Cassazione (Cass. pen., n. 39568 del 28 ottobre 2005) che richiamando una propria precedente pronuncia (Cass., sez. III, n. 16695 dell’11 febbraio 2004 – aprile 2004), ha confermato che “il fresato di asfalto proveniente dal disfacimento del manto stradale costituisce rifiuto” (idem Cass. pen., n. 7374 del 24 febbraio 2012, che ha escluso la natura di sottoprodotto dello scarificato del manto stradale, anche alla luce della nuova definizione dei sottoprodotti di cui all’art. 184bis, Dlgs n.152/2006)”.
[67] Tale conclusione ho condiviso con un attento interprete della normativa in esame (e collega), M. Petronzi, il quale ha osservato che, in un’ottica difensiva, a fronte della contestazione di una condotta che presupponga la qualificazione, come rifiuto, del residuo utilizzato, sarà ovviamente tutto interesse dell’imputato dimostrare la ricorrenza delle condizioni descritte dall’art. 184 bis.
Soprattutto della condizione sulla certezza di utilizzo la cui prova difficilmente può prescindere dal contributo del soggetto coinvolto. Per questo motivo la questione sull’onere della prova, così intesa, può essere ridimensionata per il suo scarso rilievo pratico-processuale.
[68] Così D. Roettgen, op. cit., che aggiunge: “ Ciò, anche in considerazione del fatto che, a differenza di quanto avviene nel caso del sottoprodotto, costituisce prassi comune rendere l’end of waste oggetto di una pedissequa regolamentazione di dettaglio in una autorizzazione fornendo, di conseguenza, all’individuo un grado maggiore di certezza di diritto rispetto a quello che caratterizza la materia dei sottoprodotti…”.
[69] V. P. Giampietro, I trattamenti del sottoprodotto, cit, parr. 2 e 3 dove sono commentate, criticamente, le seguenti sentenze della S.C.: 13 aprile 2011, n. 16727, Spinello; 25 maggio 2011, n. 34753, Mosso; 6 dicembre 2011, n. 45023, Negrini – Cucchella; 18 gennaio – 22 febbraio 2012, Fiorenza; 10 maggio 2012, n. 17453, Busé, con citazione della dottrina e dei precedenti giurisprudenziali.
[70] Proprio in tema di fresato, la quale così argomenta: “Risulta pacificamente in atti, invero, che il materiale de quo veniva utilizzato – per preparare il conglomerato bituminoso, prodotto in quel luogo dalla menzionata ditta nelle condizioni in cui è stato trovato, senza cioè subire alcun trattamento; seppure certamente ricavato dalla triturazione di manti stradali rimossi, è dato per scontato e non è contestato neanche nella prospettazione accusatoria, infatti, che la triturazione di questi avvenisse altrove. Dunque nel piazzale della ditta CO.E.ST. era accumulato materiale che di sicuro veniva interamente utilizzato, sebbene con l’aggiunta di altri (inerti, bitume, acqua), nel “normale ciclo produttivo” del conglomerato bituminoso, del quale – quindi – il detentore non solo non si era disfatto, ma si guardava bene dal farlo, rappresentando comunque un valore economico, pur se probabilmente modesto, per la sua attività…”.
[71] La sentenza – commentata da P. Giampietro, Il fresato d’asfalto come sottoprodotto, in lexambiente.it 19.10.2011, pagg. 38/39 – prevede come ammissibile il trattamento di macinazione (di materiale plastico) e la successiva miscelazione di detto materiale, preventivamente macinato, nel nuovo processo di utilizzazione in questi termini: : “ Ed a tale ultimo proposito le obiezioni del ricorrente P.M., traenti spunto dalla circostanza che l’impiego produttivo dei macinati richieda la “miscelazione” con materia prima “vergine…, non colgono nel segno, atteso che tale commistione e’ un posterius rispetto al procedimento in considerazione, non implica alcun trattamento modificativo comporta solo l’unione, nella fase produttiva de qua, di sostanze del tutto omogenee sotto ogni profilo fisico-chimico” .
[72] V. P. Giampietro, “Il fresato d’asfalto come sottoprodotto, cit. , par. 7.5., pag. 32, in lexambiente.it 19.10.2011, con tabelle sulle produzioni europee di fresato e sulle percentuali di riutilizzo sulla base dei dati forniti da EAPA, 2009, (European Asphalt Pavement Association). Per aggiornamenti, D. Roettgen, Il fresato d’asfalto – Sottoprodotto o rifiuto, cit.
[73] E quindi, in sua perdurante assenza, il mercato resterebbe, allo stato, comunque paralizzato.
[74] Basti pensare alla nuova tipologia di reati relativi alla gestione dei rifiuti ….(!?) che il Governo ha introdotto, nelle nuove prescrizioni sui materiali da scavo, di cui a D.M. 161/2012, in barba alla riserva di legge in materia penale. In proposito v. P. Giampietro, Il nuovo statuto delle terre e rocce, in lexambiente, 2012, cit.
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