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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Informazione, partecipazione e accesso a livello internazionale
Nella Comunità internazionale la tematica relativa a informazione, partecipazione e accesso delle persone e delle formazioni sociali è legata alla stessa concezione dell’ambiente fin dagli anni ’70.
Si ricorda, infatti, che la prima Conferenza internazionale delle Nazioni Unite di Stoccolma nel 1972 era significativamente intitolata all’ambiente umano.
L’uomo, in quanto parte cosciente della vita naturale nel Pianeta, è, dunque, chiamato a svolgere un proprio ruolo giuridico, autonomo e concorrente con le Istituzioni. Un ruolo procedurale, procedimentale, “civico”, collaborativo, che ruota intorno a tre diritti doveri:
– informazione;
– partecipazione;
– accesso.
Questa concezione umanistica e solidale del ruolo della persona umana ben si sposa con i principi democratici e liberali che sono alla base di tutti i diritti umani: la cultura dei diritti umani si estende all’ambiente e comprende anche le persone come tali e le formazioni sociali in cui si svolge la loro personalità.
Esiste, dunque, una responsabilità verso l’ambiente delle singole persone e delle organizzazioni sociali nel senso di dover utilizzare i diritti procedimentali ormai riconosciuti anche a livello internazionale:
– l’informazione ambientale come diritto-dovere di ogni persona;
– la partecipazione come diritto-dovere di ogni persona;
– l’accesso alla giustizia come diritto-dovere delle persone e delle ONG.
La conseguenza è evidente:
– in senso spaziale, la giuridicità dell’ambiente riguarda oggi tutte le risorse e ogni persona del Pianeta (anche la responsabilità ambientale si è dilatata nello spazio);
– in senso temporale, comprende le generazioni future (anche la responsabilità ambientale si è dilatata in senso temporale verso le generazioni future).
A livello internazionale:
– il diritto all’informazione, partecipazione ed accesso è coperto dalla Convenzione di Aarhus, Danimarca, 23-25 giugno 1998 e dalla Convenzione Espoo, Finlandia del 25 Febbraio 1991;
– il diritto di accesso, in sede internazionale, attende una Convenzione ad hoc.
Come è noto:
– davanti alla Corte Internazionale di Giustizia de L’Aia, è ammessa la sola legittimazione degli Stati;
– davanti al Tribunale Penale Internazionale creato nel 1998 a Roma ed entrato in vigore a l’Aia nel 2002, l’azione è esercitata dal Procuratore;
– davanti alla Corte di giustizia delle Comunità europee di Lussemburgo, la legittimazione è della Commissione europea e dei singoli Stati;
– davanti alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo, la legittimazione è anche delle singole persone (Protocollo XI alla Convenzione di Roma del 1950).
Volendo approfondire brevemente la Convenzione di Espoo del 1992, deve osservarsi che la Comunità Internazionale per la prima volta stabilisce un modello obbligatorio di informazione, partecipazione ed accesso delle persone e delle formazioni sociali, in relazione ad alcuni procedimenti relativi ad attività con potenziale effetto transfrontaliero.
Sono considerati sia i cittadini dello Stato che vuole realizzare l’opera, sia i cittadini dello Stato in cui si possano verificare effetti negativi.
Si instaura un meccanismo obbligatorio di reciproca informazione e collaborazione tra gli Stati interessati.
L’elenco dei progetti è indicato nell’allegato della Convenzione ed è molto ampio.
Il protocollo di Kiev, del 23 maggio 2003, ha esteso l’informazione e la partecipazione e l’accesso anche per la cosiddetta VAS (Valutazione Strategica di piani e programmi, sempre in relazione agli effetti transfrontalieri).
Anche la Convenzione di Aarhus sopraindicata si muove nel senso di corrispondere ad un’esigenza forte della società civile di essere informata, di poter partecipare e di poter accedere ai procedimenti amministrativi e giudiziari che riguardano l’ambiente.
In verità, non si tratta di auspici perché la Convenzione parla di diritti. Purtroppo la Convenzione di Aarhus non è globale, perché si riferisce all’ambito regionale Europeo, e si spera che la Comunità Internazionale possa intervenire con una Convenzione Quadro globale.
Per quanto riguarda le informazioni, la Convenzione di Aarhus precisa alcuni punti pratici importanti:
– le informazioni devono essere fornite tempestivamente e comunque non più tardi di un mese dalla domanda;
– è previsto il rifiuto, ma solo in alcuni casi (informazioni non possedute; richiesta generica; documenti ancora in corso di elaborazione; rispetto del segreto industriale, commerciale o della proprietà intellettuale; esigenza di difesa nazionale e sicurezza pubblica). È importante anche sottolineare che se la pubblica amministrazione non possiede le informazioni, deve comunicare all’interessato quale sia l’autorità che ne è in possesso. Contro il rifiuto motivato e notificato l’interessato è messo nella condizione di espletare i rimedi giurisdizionali. Le informazioni sono gratuite, ma la Convenzione ammette una tassa ragionevole per il servizio. La Convenzione contiene un elenco di grandi settori in cui sono obbligatorie l’informazione, la partecipazione e l’accesso.
Circa la partecipazione, la Convenzione sottolinea che deve avvenire nella fase iniziale del procedimento, con possibilità di avanzare osservazioni, di cui la pubblica amministrazione deve tener conto, motivando in caso di diverso orientamento.
Circa l’accesso alla giustizia, è da segnalare che la Convenzione riferisce ad ogni persona (each person) e parla di “diritto”. La Convenzione vuole assicurare un “largo accesso alla giustizia” nella materia ambientale.
Una questione aperta riguarda la possibile estensione dell’accesso alla giustizia anche in sede internazionale e si spera che i protocolli aggiuntivi possano intervenire sul punto.
Informazione, partecipazione e accesso a livello comunitario
Negli anni ’90, il più importante degli atti normativi a livello comunitario completamente dedicato all’informazione ambientale era la Direttiva 90/313/CEE, primo atto comunitario completamente dedicato a fissare nuovi criteri per la libertà di accesso alle informazioni.
La Direttiva è stata poi la base per l’approvazione di altre Direttive fondamentali per l’informazione e la partecipazione del pubblico tra cui ricordiamo, a titolo esemplificativo, le più note: la Direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento, detta Direttiva IPPC, e le direttive sulla Valutazione di impatto ambientale 85/337/CEE e 97/11/CE.
Ogni articolo della Direttiva 90/313/CEE è stato destinato a garantire lo scopo finale individuato dall’art. 1, ovvero “la libertà di accesso alle informazioni relative all’ambiente” e a costruire così una disciplina dai contorni ben delineati entro cui muoversi e rendere disponibili le informazioni.
Oggi la Direttiva 1990/313/CEE non è più in vigore, perché sostituita, e abrogata, dalla Direttiva 2003/04/CE.
La Direttiva 2003/04/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale prosegue il percorso normativo aperto nell’ambito comunitario non soltanto dalla Direttiva 90/313/CEE, ma, prima ancora, dalle grandi Convenzioni internazionali sull’ambiente e sviluppo degli anni ’70 e dalle precedenti direttive comunitarie in materia di ambiente sin dagli anni ’80.
Nel lungo Preambolo, la Direttiva riassume i punti salienti dell’evoluzione della normativa in campo ambientale focalizzandosi sul rapporto tra informazione ambientale e le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente e ribadendo l’importanza dell’integrazione della protezione dell’ambiente al momento dell’approvazione di ogni politica dell’Unione europea.
Obiettivo della Direttiva è non solo garantire il diritto di accesso alle informazioni ambientali detenute dalle pubbliche autorità stabilendo le modalità in cui tale accesso può essere consentito, ma, soprattutto, garantire che tale diffusione sia sistematicamente messa a disposizione del pubblico, promuovendo soprattutto l’uso di tecnologie elettroniche e di telecomunicazioni.
Nelle definizioni, le informazioni di cui si può chiedere accesso fanno riferimento allo stato degli elementi dell’ambiente, come l’aria, l’atmosfera, l’acqua, il suolo, il territorio, il paesaggio e i siti naturali, ivi compresi gli organismi geneticamente modificati e le interazioni tra questi elementi.
Anche i fattori, come le sostanze, l’energia, il rumore, le radiazioni o i rifiuti (compresi quelli radioattivi), le emissioni, gli scarichi o altri rilasci che possono incidere sull’ambiente, nonché le misure, ovvero i provvedimenti, compresi quelli amministrativi, legislativi, i programmi, i piani, gli accordi ambientali, le relazioni periodiche sull’ambiente, le analisi costi-benefici, lo stato della salute umana e la contaminazione della catena alimentare e i siti e gli edifici di interesse culturale rientrano tra le informazioni accessibili. Anche la definizione di autorità pubblica viene ampliata rispetto alla Direttiva 1990/313/CEE, tanto da ricomprendere ogni persona fisica o giuridica che svolge attività pubbliche connesse all’ambiente, ad esclusione degli organismi che agiscono con competenze legislative o giurisdizionali.
Nelle modalità di esercizio c’è l’obbligo di consentire, al più presto, comunque non oltre un mese dalla richiesta, le informazioni a chiunque ne faccia richiesta in modo totalmente libero, ovvero senza alcun vincolo di dimostrazione di interesse diretto o concreto.
I casi di esclusione sono tassativamente indicati in modo da raggiungere una uniformità di gestione e garanzia dell’accesso all’interno di tutti gli Stati membri.
La Direttiva 2003/04 CE doveva essere recepita dagli Stati membri entro il 14 febbraio 2005, ma l’Italia ha provveduto al suo corretto ed integrale recepimento il 19 agosto 2005, con decreto legislativo n. 195.
L’articolo 14 della L. 349/1986
L’evoluzione del diritto di accesso alle informazioni in materia ambientale in Italia si fa risalire agli anni ’90, ed in particolare alla fine degli anni ’80, quando, nell’ambito della L. 8 luglio 1986 n. 349, istitutiva del Ministero dell’ambiente e sulla disciplina del danno ambientale, all’articolo 14, viene espressamente sancito tra i compiti del Ministero dell’ambiente anche quello di dare la più ampia divulgazione alle informazioni sullo stato dell’ambiente.
Si tratta, in particolare, del terzo comma dell’articolo 14 che, in maniera assolutamente innovativa, permette a qualsiasi cittadino di avere un diritto di accesso alle informazioni sullo stato dell’ambiente, detenute dalla pubblica amministrazione.
Nonostante la sua esistenza e vigenza da moltissimi anni, va detto che questa norma non ha avuto la giusta applicazione nell’ordinamento, ma resta la sua importanza come creatrice di un obbligo della pubblica amministrazione di concedere informazioni il più possibile imparziali limitando il potere discrezionale delle amministrazioni pubbliche di rigettare le richieste.
Sotto questo profilo, consideriamo l’art 14 della L. 349/1986, come la norma di partenza per l’introduzione nel nostro ordinamento della libertà di accesso alle informazioni in materia ambientale e disciplina ante litteram rispetto alla Direttiva 90/313/CEE e la Convenzione di Aarhus che, sappiamo, hanno segnato l’evoluzione massima dell’accesso alle informazioni ambientali.
La L. 241/1990 e l’accesso agli atti amministrativi
L’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto del “diritto di accesso agli atti amministrativi”, operata con la L. 241/1990[1], è stata considerata una tappa fondamentale per colmare le distanze, fino ad allora rilevanti, tra cittadino e Pubblica Amministrazione. I principi di trasparenza ed imparzialità della Pubblica Amministrazione, e di partecipazione dei cittadini alle attività pubbliche, rispondono anche agli obiettivi dell’Unione europea, volti ad assicurare che ogni Stato garantisca a pieno la conoscenza delle informazioni pubbliche a tutti i cittadini. L’EuroParlamento ha, infatti, riconosciuto che “L’apertura e la facilità di accesso alle informazioni detenute dalle autorità sono il cuore stesso di una democrazia funzionante. Senza questi principi i Governi e le pubbliche amministrazioni non possono essere considerate affidabili. (…)”.
La trasparenza e il relativo diritto di accesso alle informazioni detenute dagli enti della Pubblica Amministrazione è, a tutti gli effetti, uno dei caratteri della società democratica, in cui si coniugano l’interesse dei cittadini a conoscere gli atti che possono avere effetti sulla loro sfera giuridica e l’obbligo in capo all’amministrazione di coinvolgere gli stessi nelle scelte e nelle decisioni.
La L. 241/1990, però, porta con sé un grande limite, dato dal fatto che il richiedente deve dimostrare, al momento della richiesta, un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”[2]. Tale condizione consiste in una limitazione al diritto. Diciamo, infatti, che non essendo possibile definire sostanzialmente cosa si intende per “diretto, concreto e attuale” tale qualificazione dell’interesse potrebbe diventare oggetto di valutazioni discrezionali, se non addirittura arbitrarie, da parte dell’amministrazione e portare, dunque a molti più casi di esclusione di quanti in realtà non siano nell’ambito dei fini della legge.
Un cenno merita anche l’istituto del “silenzio della P.A.”: a tal proposito, si rammenta quanto stabilito dalla L. 241/1990, che ha sancito l’inesistenza dell’istituto del silenzio assenso nella disciplina ambientale. L’art. 20, infatti, prevede che “Fatta salva l’applicazione dell’articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, … 4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, oltre ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, ed ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza…”.
Una prima eccezione a questa regola si può ravvisare nell’ultimo periodo dell’art. 5, comma 3, del DM 161/2012 (Materiali da scavo), che recita: “… Decorso il sopra menzionato termine di novanta giorni dalla presentazione del Piano di Utilizzo all’Autorità competente o delle eventuali integrazioni, il proponente gestisce il materiale da scavo nel rispetto del Piano di Utilizzo, fermi restando gli obblighi previsti dalla normativa vigente per la realizzazione dell’opera”. Questa dicitura viene considerata come una sorta di silenzio/assenso, sulla base del quale il proponente dopo 90 giorni dalla presentazione del piano di utilizzo, in caso di silenzio dell’Autorità competente, può iniziare le operazioni di scavo e di gestione del materiale secondo il piano presentato.
Una seconda eccezione si ravvisa, invece, nella disciplina sull’A.I.A., perché, in caso di modifica ai sensi dell’art. 29-nonies D.L.vo n. 152/2006, il procedimento può concludersi con il silenzio assenso trascorsi 60 giorni dalla data di trasmissione della comunicazione senza che l’A.P. si sia espressa in merito: in tal caso la progettata modifica dell’impianto può essere realizzata.
Cosa succede in caso di omessa emanazione dell’atto o suo ritardo?
L’art. 2, c. 9 – 9 bis (introdotto dal D.L. 5/2012), prevede:
“9. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
9-bis. L’organo di governo individua, nell’ambito delle figure apicali dell’amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell’ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell’amministrazione”.
Oltre a ciò, il Decreto Legge n. 69 del 21 giugno 2013, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia” (cd. “Decreto Fare”), in vigore dal 22 giugno 2013, si segnala in materia perché all’art. 28 si occupa dell’indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento. La norma prevede che la P.A. procedente, o quella responsabile del ritardo, e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative (art. 1, c. 1 ter, L. 241/1990), in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunciarsi – ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato -, corrispondono all’interessato, a titolo di indennizzo per il ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo, a decorrere dalla data di scadenza del termine del procedimento, e comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro. L’art. 28 rappresenta, dunque, una disposizione innovativa che permette all’impresa la possibilità di attivarsi per chiedere l’indennizzo (non il risarcimento) da ritardo, mentre, parallelamente, si può procedere al Tar per ottenere il provvedimento, nonché per accertare la responsabilità del funzionario pubblico. Si rammenta, però, che deve necessariamente trattarsi di un procedimento ad istanza di parte per cui la legge prevede l’obbligo di pronunciarsi.
Confronto tra la L. 241/1990 e il D.L.vo 39/1997 sulla libertà di accesso alle informazioni ambientali
Il recepimento della Direttiva 90/313/CEE sulla libertà di accesso alle informazioni in materia ambientale è avvenuto in Italia con l’approvazione del D.L.vo del 24 febbraio 1997 n. 39[3], primo strumento attuativo delle normative comunitarie in materia di accesso alle informazioni sull’ambiente.
Per parlare del confronto tra la legge n. 241/1990 e la normativa sull’accesso alle informazioni in materia ambientale dobbiamo, quindi, riferirci al decreto n. 39/1997. In questo senso il decreto del 1997 ha correttamente recepito la normativa comunitaria che faceva intendere l’obbligo degli Stati membri di prevedere una disciplina che potesse garantire realmente la libertà di accesso. In tal senso, sono stati rimossi tutti i limiti soggettivi ed oggettivi ed è stata inquadrata la normativa in un’ottica di garanzia e libertà di accesso. Ed infatti il decreto legislativo, muovendo dal presupposto che una migliore protezione dell’ambiente si realizza attraverso una corretta e libera informazione del cittadino, esclude, a differenza della legge 241 del 1990, ogni possibile forma di selezione dei soggetti legittimati, operando un esteso riconoscimento del diritto di accesso che prescinde dall’esistenza e dalla verifica di una qualsivoglia posizione di interesse qualificato.
Il decreto parla, infatti, di assicurare “a chiunque” la libertà di accesso alle informazioni relative all’ambiente in possesso delle autorità pubbliche e definisce i termini e le condizioni in base alle quali verranno poi rese disponibili[4]. E fa seguire a questa dicitura, che corrisponde all’oggetto stesso del decreto, anche l’obbligo, in capo all’amministrazione pubblica, di rendere pubbliche le informazioni e dunque fornirle a chiunque ne faccia richiesta senza dover dimostrare alcun interesse[5]. Così, si stabilisce che non soltanto atti, documenti, o informazioni su supporto informatico, o comunque atti amministrativi, siano oggetto di accesso, ma tutte le informazioni sullo stato dell’ambiente senza alcun vincolo di tipo oggettivo.
Si tratta, dunque, di un passaggio cruciale perché non soltanto si “liberalizza” la legittimazione soggettiva del diritto superando definitivamente la dicitura della 241/1990, ma si va anche ben oltre l’art. 14 della legge 349/1986, che conferiva la titolarità del diritto di accesso a “qualunque cittadino”.
Libertà e garanzia di accesso alle informazioni in materia ambientale d’ora in poi saranno considerate in ogni normativa ed, in particolare, nel più recente D.L.vo 195/2005 (di recepimento della Direttiva 2003/04 CE) che, migliorando la normativa, ha abrogato e sostituito il D.L.vo n. 37 del 1997, travalicando i limiti imposti dalla legge n. 241 del 1990, destinata ad occuparsi di atti amministrativi al di fuori della sfera della materia ambientale.
Il D.L.vo n. 195/2005 di recepimento della Dir. 2003/04/CE
Con il D.L.vo 19 agosto 2005 n. 195 (GU n. 222 del 23 settembre 2005) è stata recepita nell’ordinamento italiano la nuova Direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale.
Bisogna, innanzitutto, considerare che la nuova impostazione, a fronte del riconoscimento di un diritto d’accesso garantito per le informazioni in materia ambientale detenute dalle pubbliche autorità[6], sollecita (la Pubblica Amministrazione) a “garantire che tali informazioni siano messe a disposizione sistematicamente e progressivamente (…)” tramite sistemi informativi, tecnologie, comunicazioni, comunque di facile consultazione[7]. Tutto ciò al fine di assicurare la massima trasparenza e la pubblicità degli atti della Pubblica amministrazione che in Italia, peraltro, corrisponde anche al principio base del procedimento amministrativo sancito dall’articolo 97 della Costituzione[8].
L’obiettivo più importante della nuova normativa è quello di creare l’obbligo in capo all’autorità pubblica di assicurare una “sistematizzazione” delle informazioni, in modo che le stesse siano raggiungibili facilmente anche in via telematica e senza eccessivi vincoli burocratici.
A fronte, dunque, di tali obblighi, previsti per le autorità pubbliche e le amministrazioni al fine di assicurare l’acceso libero (e gratuito) alle informazioni, la normativa configura un nuovo ruolo ai cittadini, che devono essere maggiormente consapevoli ed informati per contribuire al miglioramento dell’ambiente in cui vivono.
Tale obbligo per i privati nasce dal Sesto programma comunitario di azione per l’ambiente[9], per gli anni che vanno dal 2002 al 2012, che, tra le misure da individuare al fine di coinvolgere i cittadini e modificarne il comportamento, propone anche “il miglioramento dell’accessibilità e la qualità delle informazioni sull’ambiente”[10].
Nel decreto, dunque, viene ampliata notevolmente, anche rispetto alla Direttiva 90/313/CEE e relativo D.L.vo 39/1997, la definizione di informazioni ambientali, per consentire una maggiore libertà di informazioni e per poter dare alle pubbliche amministrazioni dei riferimenti chiari per rispondere al loro obbligo di diffusione e raccolta dei dati. Ai fini del D.L.vo n. 195/2005 è, perciò, considerata “informazione ambientale” qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva sonora, elettronica o in qualunque altra forma materiale, ovvero tutto ciò che concerne l’ambiente e il suo stato. In primo luogo, sono stati inseriti sotto la dicitura “elementi dell’ambiente”: l’aria, l’acqua, il suolo, il territorio, i siti naturali, le zone costiere, la diversità biologica, l’atmosfera e perfino gli organismi modificati geneticamente e, soprattutto, l’interazione tra questi elementi[11]. In secondo luogo, abbiamo i “fattori” che incidono o possono incidere sull’ambiente come ad esempio il rumore, l’energia, le radiazioni o i rifiuti, compresi quelli radioattivi, nonché gli scarichi ed altri rilasci nell’ambiente (…).
Rispetto alla Convenzione di Aarhus, sia la Direttiva che il decreto legislativo lasciano inalterata la previsione per cui i fattori, le misure, anche amministrative, e ogni atto amministrativo che possa incidere sull’ambiente, o su qualcuno dei suoi elementi, può essere sottratto all’accesso se alla fine non comporta alcun effetto sull’ambiente, o impatto ambientale.
Diventa, dunque, dirimente, rispetto al rigetto della domanda, la valutazione rispetto agli effetti possibili che tale atto possa avere sull’ambiente e, se del caso, diventa necessario il passaggio giudiziale laddove spetterà al giudice chiarire tale aspetto.
In terzo luogo, abbiamo le “misure”[12], ovvero i provvedimenti amministrativi, politici, i piani e programmi, le disposizioni legislative, gli accordi ambientali e tutti quegli atti che possono incidere sugli elementi dell’ambiente[13]. Nell’ambito dei provvedimenti che incidono o possono incidere sull’ambiente sono stati inseriti anche gli accordi o i provvedimenti di carattere economico relativi all’ambiente, come le analisi costi-benefici e ogni analisi sviluppata, ad esempio, all’interno delle “misure” in campo ambientale[14].
In particolare, poi, le analisi e i dati di carattere economico contabile possono integrare l’informazione ambientale soltanto quando vengano utilizzati nell’ambito dell’esercizio di un’attività amministrativa che incide, o può incidere, direttamente sull’ambiente, perché altrimenti potrebbero prefigurare un arbitrario e sistematico controllo sull’attività amministrativa degli enti pubblici, in ciò contrastando dunque con i principi generali dell’azione amministrativa.
Infine, sono state inserite le informazioni relative agli inquinamenti, alle contaminazioni anche della catena alimentare, ovvero quelle notizie relative allo stato dell’ambiente che possono invece incidere sullo stato della salute dell’uomo[15]. L’inclusione di questi elementi è di grande importanza proprio in un’epoca in cui, con facilità, si diffondono o si scoprono malattie di cui non si conosce neanche bene il vaccino o la cura o non si sono mai approfonditi studi epidemiologici sugli effetti di certi inquinamenti sulla salute dell’uomo o l’immissione di certe sostanze sull’ambiente[16].
Così come già erano stati superati dalla previgente normativa, non vi sono limiti soggettivi per il richiedente, per cui chiunque, persona fisica o ente o associazione, può richiedere le informazioni senza dover dimostrare di avere un particolare interesse, a differenza di quanto tuttora accade per le richieste, ai sensi della rinnovata L. 241/1990 sull’accesso agli atti amministrativi detenuti dalle PA, per la quale, invece, il richiedente deve dimostrare un interesse diretto, concreto a tutelare situazioni giuridicamente rilevanti, con evidente grossa limitazione del diritto di accesso.
Il decreto arriva a specificare le modalità con cui poi le informazioni vengono messe a disposizione dall’autorità pubblica e, dunque, fissa il termine di 30gg, come previsto dalla Direttiva del 2003, entro il quale l’informazione deve essere messa a disposizione del richiedente, allungando tale termine fino a 60gg, qualora l’entità o la complessità della richiesta siano tali da non consentire di soddisfarla nel termine di 30 gg[17].
È comunque in capo all’autorità pubblica il compito di dare notizia circa questa proroga.
Il procedimento di accesso alle informazioni, possiamo riconoscere, è oggi molto meno rigido e più aperto volendo probabilmente abbattere quella immagine di distacco tra cittadini e PA che tanto spesso caratterizza le procedure pubbliche.
Dando prova di maggiore apertura verso i cittadini e le garanzie di accesso, citiamo la procedura nel caso di “richiesta eccessivamente generica”[18], motivazione che spesso le amministrazioni utilizzavano per rigettare l’accesso. Oggi, infatti, anziché agire direttamente con il rigetto, l’amministrazione potrà chiedere al richiedente di fornire ulteriori informazioni, dati o specifiche in modo da permettere l’identificazione agevole dell’atto.
A tal scopo viene introdotto, all’art. 4, il “Catalogo dell’informazione ambientale” che ogni amministrazione doveva rendere pubblico entro 6 mesi dall’entrata in vigore del decreto stesso e aggiornare annualmente.
L’amministrazione, per una migliore gestione del Catalogo, può anche servirsi degli URP – Uffici relazioni con il pubblico che, qualora già esistenti, di solito sono anche molto bene organizzati.
In generale, comunque la pubblica autorità dovrà applicare in modo restrittivo ogni caso di esclusione; qualora non si riesca, neanche con un’accurata indagine, a trovare risposta alla richiesta sottopostagli, non rimarrà che respingere l’accesso nei modi consentiti dal decreto[19].
Come già previsto dalla precedente normativa, il rigetto o il mancato accesso devono essere comunicati entro 30 gg dal ricevimento della richiesta e motivati facendo riferimento ad uno dei casi di esclusione previsti dal decreto.
I casi di esclusione comprendono, come nella normativa precedente, le richieste irragionevoli, o di atti incompleti o atti interni, con l’onere in capo all’amministrazione di comunicare la data in cui saranno completi.
Inoltre, ricadono tra le eccezioni: la diffusione dell’atto può nuocere alla riservatezza delle deliberazioni interne delle autorità pubbliche o alle relazioni internazionali o all’ordine a pubblica sicurezza o alla difesa nazionale, o ancora alla riservatezza delle informazioni industriali e commerciali, o ai diritti di proprietà intellettuale o alla privacy.
Una nuova causa di esclusione fa riferimento alla “tutela dell’ambiente o del paesaggio, cui si riferisce l’informazione” e, per meglio comprendere tale affermazione, lo stesso decreto chiarisce con l’esempio “come nel caso ubicazione di specie rare”. Infine specifica ancora che in nessun caso si possono escludere informazioni relative alle emissioni nell’ambiente.
Nel caso di rigetto di una richiesta, a fronte dell’impugnazione in via giurisdizionale già contemplata di fronte al TAR nel termine di 30 gg, è sempre prevista la possibilità di riesame sia presso il difensore civico competente per territorio, sia presso la Commissione per il riesame prevista dalla L. 241/1990.
In conclusione, il decreto si occupa di disciplinare la modalità di diffusione delle informazioni che, per il legislatore comunitario, è lo strumento con cui il diritto di accesso agli atti può essere garantito realmente e così prevede che l’autorità pubblica, entro sei mesi dalla pubblicazione del decreto, deve stabilire un piano per rendere l’informazione ambientale progressivamente disponibile in banca dati, da aggiornare annualmente. Nella banca dati devono essere presenti non solo le relazioni sullo stato dell’ambiente previste dalla L. 349/1986, ma anche le autorizzazioni e i pareri rilasciati dalle competenti autorità in applicazione delle norme sulla valutazione d’impatto ambientale, gli studi di impatto ambientale, le valutazioni dei rischi e gli accordi in materia ambientale, nonché i dati e le sintesi di dati ricavati dal monitoraggio di attività che incidono sull’ambiente.
Possiamo, dunque, riconoscere all’attuale normativa sull’informazione ambientale di assicurare una maggiore trasparenza e partecipazione dei cittadini alle scelte in materia di ambiente e, condividendo quanto affermato dal Commissario Stavros Dimas, che “l’informazione è un potente catalizzatore in grado di favorire un’evoluzione verso una maggiore protezione dell’ambiente. È importante perciò che i cittadini la utilizzino al meglio”.
[1] Legge del 7 agosto 1990 n. 241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” GU del 18 agosto 1990. Modificata dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15.
[2] Articolo 22, definizioni e principi in materia di accesso (modificato dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15 e legge 2009 n. 69), “1. Ai fini del presente capo si intende: b) per “interessati”, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso”.
[3] “Attuazione della Direttiva 1990/313/CEE concernente la libertà di accesso alle informazioni in materia di ambiente”, pubblicato in G.U. del 6 marzo 1997 n. 54 – suppl. ord. n. 48 (abrogato dal decreto legislativo n. 195 del 2005).
[4] Articolo 1 del Decreto – Oggetto – “le disposizioni del presente decreto hanno lo scopo di assicurare a chiunque la libertà di accesso alle informazioni relative all’ambiente in possesso delle autorità pubbliche, nonché la diffusione delle medesime, definendo i termini e le condizioni fondamentali in base ai quali tali informazioni devono essere rese disponibili”.
[5] Articolo 3 del decreto – Ambito di applicazione – 1. “Le autorità pubbliche sono tenute a rendere disponibili le informazioni relative all’ambiente a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse”.
[6] Articolo 1, comma 1, lett. “a) garantire il diritto d’accesso all’informazione ambientale detenuta dalle autorità pubbliche e stabilire i termini, le condizioni fondamentali e le modalità per il suo esercizio”;
[7] Articolo 1, comma 1, lett. b) “garantire, ai fini della più ampia trasparenza, che l’informazione ambientale sia sistematicamente e progressivamente messa a disposizione del pubblico e diffusa, anche attraverso i mezzi di telecomunicazione e gli strumenti informatici, in forme o formati facilmente consultabili, promuovendo a tale fine, in particolare, l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
[8] Articolo 97 della Costituzione, comma 1, “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.
[9] Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni, del 24 gennaio 2001, sul Sesto programma di azione per l’ambiente della Comunità europea “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” [COM(2001) 31 def. – Non pubblicato nella Gazzetta ufficiale].
[10] Nel Preambolo introduttivo del VI piano di azione.
[13] Anche nel caso di queste ultime si è espressa la giurisprudenza giudicando dunque sull’ambito oggetto della Convenzione di Aarhus (in quanto recepita dalla legge n. 108/2001) e del nostro decreto di derivazione ed ha perciò ribadito il TAR Calabria che “(…) non ogni dato inerente l’ecosistema, peraltro, può costituire oggetto dell’istanza di informazione ambientale, ma solo quelle attinenti a valori che l’ordinamento imputa all’ambiente come bene giuridico distinto dalle sue componenti materiali”.
[16] L’esempio degli organismi geneticamente modificati rientra in questa ipotesi ovvero sulla possibilità di conoscere di ogni ubicazione dei luoghi su cui sono stati rilasciati gli OGM e ogni documento in possesso della pubblica autorità riguardante l’emissione nell’ambiente degli stessi.
[17] Articolo 3 “accesso all’informazione ambientale su richiesta”, comma 2.
[18] Non è considerata dal TAR Campania richiesta “eccessivamente generica” quella richiesta che comporta comunque l’individuazione di un determinato contesto, che deve essere comunque specificato. Infatti alla richiesta di informazioni sull’ubicazione, installazione e altre questioni in merito a depuratori nell’ambito del territorio del Comune di Acerno, senza ulteriori specifiche, l’amministrazione è stata invitata dal Tribunale a concedere l’accesso (sentenza 11 dicembre 2009 n. 7607).
[19] Articolo 3, comma 3. Si tratta dunque di ipotesi di esclusione del diritto di accesso previsti dall’articolo 5 del decreto.
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Informazione ambientale e accesso ai documenti
di Stefano Maglia
Tratto dal volume “Gestione Ambientale, IV Edizione”
Nella Comunità internazionale la tematica relativa a informazione, partecipazione e accesso delle persone e delle formazioni sociali è legata alla stessa concezione dell’ambiente fin dagli anni ’70.
Si ricorda, infatti, che la prima Conferenza internazionale delle Nazioni Unite di Stoccolma nel 1972 era significativamente intitolata all’ambiente umano.
L’uomo, in quanto parte cosciente della vita naturale nel Pianeta, è, dunque, chiamato a svolgere un proprio ruolo giuridico, autonomo e concorrente con le Istituzioni. Un ruolo procedurale, procedimentale, “civico”, collaborativo, che ruota intorno a tre diritti doveri:
– informazione;
– partecipazione;
– accesso.
Questa concezione umanistica e solidale del ruolo della persona umana ben si sposa con i principi democratici e liberali che sono alla base di tutti i diritti umani: la cultura dei diritti umani si estende all’ambiente e comprende anche le persone come tali e le formazioni sociali in cui si svolge la loro personalità.
Esiste, dunque, una responsabilità verso l’ambiente delle singole persone e delle organizzazioni sociali nel senso di dover utilizzare i diritti procedimentali ormai riconosciuti anche a livello internazionale:
– l’informazione ambientale come diritto-dovere di ogni persona;
– la partecipazione come diritto-dovere di ogni persona;
– l’accesso alla giustizia come diritto-dovere delle persone e delle ONG.
La conseguenza è evidente:
– in senso spaziale, la giuridicità dell’ambiente riguarda oggi tutte le risorse e ogni persona del Pianeta (anche la responsabilità ambientale si è dilatata nello spazio);
– in senso temporale, comprende le generazioni future (anche la responsabilità ambientale si è dilatata in senso temporale verso le generazioni future).
A livello internazionale:
– il diritto all’informazione, partecipazione ed accesso è coperto dalla Convenzione di Aarhus, Danimarca, 23-25 giugno 1998 e dalla Convenzione Espoo, Finlandia del 25 Febbraio 1991;
– il diritto di accesso, in sede internazionale, attende una Convenzione ad hoc.
Come è noto:
– davanti alla Corte Internazionale di Giustizia de L’Aia, è ammessa la sola legittimazione degli Stati;
– davanti al Tribunale Penale Internazionale creato nel 1998 a Roma ed entrato in vigore a l’Aia nel 2002, l’azione è esercitata dal Procuratore;
– davanti alla Corte di giustizia delle Comunità europee di Lussemburgo, la legittimazione è della Commissione europea e dei singoli Stati;
– davanti alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo, la legittimazione è anche delle singole persone (Protocollo XI alla Convenzione di Roma del 1950).
Volendo approfondire brevemente la Convenzione di Espoo del 1992, deve osservarsi che la Comunità Internazionale per la prima volta stabilisce un modello obbligatorio di informazione, partecipazione ed accesso delle persone e delle formazioni sociali, in relazione ad alcuni procedimenti relativi ad attività con potenziale effetto transfrontaliero.
Sono considerati sia i cittadini dello Stato che vuole realizzare l’opera, sia i cittadini dello Stato in cui si possano verificare effetti negativi.
Si instaura un meccanismo obbligatorio di reciproca informazione e collaborazione tra gli Stati interessati.
L’elenco dei progetti è indicato nell’allegato della Convenzione ed è molto ampio.
Il protocollo di Kiev, del 23 maggio 2003, ha esteso l’informazione e la partecipazione e l’accesso anche per la cosiddetta VAS (Valutazione Strategica di piani e programmi, sempre in relazione agli effetti transfrontalieri).
Anche la Convenzione di Aarhus sopraindicata si muove nel senso di corrispondere ad un’esigenza forte della società civile di essere informata, di poter partecipare e di poter accedere ai procedimenti amministrativi e giudiziari che riguardano l’ambiente.
In verità, non si tratta di auspici perché la Convenzione parla di diritti. Purtroppo la Convenzione di Aarhus non è globale, perché si riferisce all’ambito regionale Europeo, e si spera che la Comunità Internazionale possa intervenire con una Convenzione Quadro globale.
Per quanto riguarda le informazioni, la Convenzione di Aarhus precisa alcuni punti pratici importanti:
– le informazioni devono essere fornite tempestivamente e comunque non più tardi di un mese dalla domanda;
– è previsto il rifiuto, ma solo in alcuni casi (informazioni non possedute; richiesta generica; documenti ancora in corso di elaborazione; rispetto del segreto industriale, commerciale o della proprietà intellettuale; esigenza di difesa nazionale e sicurezza pubblica). È importante anche sottolineare che se la pubblica amministrazione non possiede le informazioni, deve comunicare all’interessato quale sia l’autorità che ne è in possesso. Contro il rifiuto motivato e notificato l’interessato è messo nella condizione di espletare i rimedi giurisdizionali. Le informazioni sono gratuite, ma la Convenzione ammette una tassa ragionevole per il servizio. La Convenzione contiene un elenco di grandi settori in cui sono obbligatorie l’informazione, la partecipazione e l’accesso.
Circa la partecipazione, la Convenzione sottolinea che deve avvenire nella fase iniziale del procedimento, con possibilità di avanzare osservazioni, di cui la pubblica amministrazione deve tener conto, motivando in caso di diverso orientamento.
Circa l’accesso alla giustizia, è da segnalare che la Convenzione riferisce ad ogni persona (each person) e parla di “diritto”. La Convenzione vuole assicurare un “largo accesso alla giustizia” nella materia ambientale.
Una questione aperta riguarda la possibile estensione dell’accesso alla giustizia anche in sede internazionale e si spera che i protocolli aggiuntivi possano intervenire sul punto.
Negli anni ’90, il più importante degli atti normativi a livello comunitario completamente dedicato all’informazione ambientale era la Direttiva 90/313/CEE, primo atto comunitario completamente dedicato a fissare nuovi criteri per la libertà di accesso alle informazioni.
La Direttiva è stata poi la base per l’approvazione di altre Direttive fondamentali per l’informazione e la partecipazione del pubblico tra cui ricordiamo, a titolo esemplificativo, le più note: la Direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento, detta Direttiva IPPC, e le direttive sulla Valutazione di impatto ambientale 85/337/CEE e 97/11/CE.
Ogni articolo della Direttiva 90/313/CEE è stato destinato a garantire lo scopo finale individuato dall’art. 1, ovvero “la libertà di accesso alle informazioni relative all’ambiente” e a costruire così una disciplina dai contorni ben delineati entro cui muoversi e rendere disponibili le informazioni.
Oggi la Direttiva 1990/313/CEE non è più in vigore, perché sostituita, e abrogata, dalla Direttiva 2003/04/CE.
La Direttiva 2003/04/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale prosegue il percorso normativo aperto nell’ambito comunitario non soltanto dalla Direttiva 90/313/CEE, ma, prima ancora, dalle grandi Convenzioni internazionali sull’ambiente e sviluppo degli anni ’70 e dalle precedenti direttive comunitarie in materia di ambiente sin dagli anni ’80.
Nel lungo Preambolo, la Direttiva riassume i punti salienti dell’evoluzione della normativa in campo ambientale focalizzandosi sul rapporto tra informazione ambientale e le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente e ribadendo l’importanza dell’integrazione della protezione dell’ambiente al momento dell’approvazione di ogni politica dell’Unione europea.
Obiettivo della Direttiva è non solo garantire il diritto di accesso alle informazioni ambientali detenute dalle pubbliche autorità stabilendo le modalità in cui tale accesso può essere consentito, ma, soprattutto, garantire che tale diffusione sia sistematicamente messa a disposizione del pubblico, promuovendo soprattutto l’uso di tecnologie elettroniche e di telecomunicazioni.
Nelle definizioni, le informazioni di cui si può chiedere accesso fanno riferimento allo stato degli elementi dell’ambiente, come l’aria, l’atmosfera, l’acqua, il suolo, il territorio, il paesaggio e i siti naturali, ivi compresi gli organismi geneticamente modificati e le interazioni tra questi elementi.
Anche i fattori, come le sostanze, l’energia, il rumore, le radiazioni o i rifiuti (compresi quelli radioattivi), le emissioni, gli scarichi o altri rilasci che possono incidere sull’ambiente, nonché le misure, ovvero i provvedimenti, compresi quelli amministrativi, legislativi, i programmi, i piani, gli accordi ambientali, le relazioni periodiche sull’ambiente, le analisi costi-benefici, lo stato della salute umana e la contaminazione della catena alimentare e i siti e gli edifici di interesse culturale rientrano tra le informazioni accessibili. Anche la definizione di autorità pubblica viene ampliata rispetto alla Direttiva 1990/313/CEE, tanto da ricomprendere ogni persona fisica o giuridica che svolge attività pubbliche connesse all’ambiente, ad esclusione degli organismi che agiscono con competenze legislative o giurisdizionali.
Nelle modalità di esercizio c’è l’obbligo di consentire, al più presto, comunque non oltre un mese dalla richiesta, le informazioni a chiunque ne faccia richiesta in modo totalmente libero, ovvero senza alcun vincolo di dimostrazione di interesse diretto o concreto.
I casi di esclusione sono tassativamente indicati in modo da raggiungere una uniformità di gestione e garanzia dell’accesso all’interno di tutti gli Stati membri.
La Direttiva 2003/04 CE doveva essere recepita dagli Stati membri entro il 14 febbraio 2005, ma l’Italia ha provveduto al suo corretto ed integrale recepimento il 19 agosto 2005, con decreto legislativo n. 195.
L’evoluzione del diritto di accesso alle informazioni in materia ambientale in Italia si fa risalire agli anni ’90, ed in particolare alla fine degli anni ’80, quando, nell’ambito della L. 8 luglio 1986 n. 349, istitutiva del Ministero dell’ambiente e sulla disciplina del danno ambientale, all’articolo 14, viene espressamente sancito tra i compiti del Ministero dell’ambiente anche quello di dare la più ampia divulgazione alle informazioni sullo stato dell’ambiente.
Si tratta, in particolare, del terzo comma dell’articolo 14 che, in maniera assolutamente innovativa, permette a qualsiasi cittadino di avere un diritto di accesso alle informazioni sullo stato dell’ambiente, detenute dalla pubblica amministrazione.
Nonostante la sua esistenza e vigenza da moltissimi anni, va detto che questa norma non ha avuto la giusta applicazione nell’ordinamento, ma resta la sua importanza come creatrice di un obbligo della pubblica amministrazione di concedere informazioni il più possibile imparziali limitando il potere discrezionale delle amministrazioni pubbliche di rigettare le richieste.
Sotto questo profilo, consideriamo l’art 14 della L. 349/1986, come la norma di partenza per l’introduzione nel nostro ordinamento della libertà di accesso alle informazioni in materia ambientale e disciplina ante litteram rispetto alla Direttiva 90/313/CEE e la Convenzione di Aarhus che, sappiamo, hanno segnato l’evoluzione massima dell’accesso alle informazioni ambientali.
L’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto del “diritto di accesso agli atti amministrativi”, operata con la L. 241/1990[1], è stata considerata una tappa fondamentale per colmare le distanze, fino ad allora rilevanti, tra cittadino e Pubblica Amministrazione. I principi di trasparenza ed imparzialità della Pubblica Amministrazione, e di partecipazione dei cittadini alle attività pubbliche, rispondono anche agli obiettivi dell’Unione europea, volti ad assicurare che ogni Stato garantisca a pieno la conoscenza delle informazioni pubbliche a tutti i cittadini. L’EuroParlamento ha, infatti, riconosciuto che “L’apertura e la facilità di accesso alle informazioni detenute dalle autorità sono il cuore stesso di una democrazia funzionante. Senza questi principi i Governi e le pubbliche amministrazioni non possono essere considerate affidabili. (…)”.
La trasparenza e il relativo diritto di accesso alle informazioni detenute dagli enti della Pubblica Amministrazione è, a tutti gli effetti, uno dei caratteri della società democratica, in cui si coniugano l’interesse dei cittadini a conoscere gli atti che possono avere effetti sulla loro sfera giuridica e l’obbligo in capo all’amministrazione di coinvolgere gli stessi nelle scelte e nelle decisioni.
La L. 241/1990, però, porta con sé un grande limite, dato dal fatto che il richiedente deve dimostrare, al momento della richiesta, un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”[2]. Tale condizione consiste in una limitazione al diritto. Diciamo, infatti, che non essendo possibile definire sostanzialmente cosa si intende per “diretto, concreto e attuale” tale qualificazione dell’interesse potrebbe diventare oggetto di valutazioni discrezionali, se non addirittura arbitrarie, da parte dell’amministrazione e portare, dunque a molti più casi di esclusione di quanti in realtà non siano nell’ambito dei fini della legge.
Un cenno merita anche l’istituto del “silenzio della P.A.”: a tal proposito, si rammenta quanto stabilito dalla L. 241/1990, che ha sancito l’inesistenza dell’istituto del silenzio assenso nella disciplina ambientale. L’art. 20, infatti, prevede che “Fatta salva l’applicazione dell’articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, … 4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, oltre ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, ed ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza…”.
Una prima eccezione a questa regola si può ravvisare nell’ultimo periodo dell’art. 5, comma 3, del DM 161/2012 (Materiali da scavo), che recita: “… Decorso il sopra menzionato termine di novanta giorni dalla presentazione del Piano di Utilizzo all’Autorità competente o delle eventuali integrazioni, il proponente gestisce il materiale da scavo nel rispetto del Piano di Utilizzo, fermi restando gli obblighi previsti dalla normativa vigente per la realizzazione dell’opera”. Questa dicitura viene considerata come una sorta di silenzio/assenso, sulla base del quale il proponente dopo 90 giorni dalla presentazione del piano di utilizzo, in caso di silenzio dell’Autorità competente, può iniziare le operazioni di scavo e di gestione del materiale secondo il piano presentato.
Una seconda eccezione si ravvisa, invece, nella disciplina sull’A.I.A., perché, in caso di modifica ai sensi dell’art. 29-nonies D.L.vo n. 152/2006, il procedimento può concludersi con il silenzio assenso trascorsi 60 giorni dalla data di trasmissione della comunicazione senza che l’A.P. si sia espressa in merito: in tal caso la progettata modifica dell’impianto può essere realizzata.
Cosa succede in caso di omessa emanazione dell’atto o suo ritardo?
L’art. 2, c. 9 – 9 bis (introdotto dal D.L. 5/2012), prevede:
“9. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
9-bis. L’organo di governo individua, nell’ambito delle figure apicali dell’amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell’ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell’amministrazione”.
Oltre a ciò, il Decreto Legge n. 69 del 21 giugno 2013, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia” (cd. “Decreto Fare”), in vigore dal 22 giugno 2013, si segnala in materia perché all’art. 28 si occupa dell’indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento. La norma prevede che la P.A. procedente, o quella responsabile del ritardo, e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative (art. 1, c. 1 ter, L. 241/1990), in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunciarsi – ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato -, corrispondono all’interessato, a titolo di indennizzo per il ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo, a decorrere dalla data di scadenza del termine del procedimento, e comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro. L’art. 28 rappresenta, dunque, una disposizione innovativa che permette all’impresa la possibilità di attivarsi per chiedere l’indennizzo (non il risarcimento) da ritardo, mentre, parallelamente, si può procedere al Tar per ottenere il provvedimento, nonché per accertare la responsabilità del funzionario pubblico. Si rammenta, però, che deve necessariamente trattarsi di un procedimento ad istanza di parte per cui la legge prevede l’obbligo di pronunciarsi.
Il recepimento della Direttiva 90/313/CEE sulla libertà di accesso alle informazioni in materia ambientale è avvenuto in Italia con l’approvazione del D.L.vo del 24 febbraio 1997 n. 39[3], primo strumento attuativo delle normative comunitarie in materia di accesso alle informazioni sull’ambiente.
Per parlare del confronto tra la legge n. 241/1990 e la normativa sull’accesso alle informazioni in materia ambientale dobbiamo, quindi, riferirci al decreto n. 39/1997. In questo senso il decreto del 1997 ha correttamente recepito la normativa comunitaria che faceva intendere l’obbligo degli Stati membri di prevedere una disciplina che potesse garantire realmente la libertà di accesso. In tal senso, sono stati rimossi tutti i limiti soggettivi ed oggettivi ed è stata inquadrata la normativa in un’ottica di garanzia e libertà di accesso. Ed infatti il decreto legislativo, muovendo dal presupposto che una migliore protezione dell’ambiente si realizza attraverso una corretta e libera informazione del cittadino, esclude, a differenza della legge 241 del 1990, ogni possibile forma di selezione dei soggetti legittimati, operando un esteso riconoscimento del diritto di accesso che prescinde dall’esistenza e dalla verifica di una qualsivoglia posizione di interesse qualificato.
Il decreto parla, infatti, di assicurare “a chiunque” la libertà di accesso alle informazioni relative all’ambiente in possesso delle autorità pubbliche e definisce i termini e le condizioni in base alle quali verranno poi rese disponibili[4]. E fa seguire a questa dicitura, che corrisponde all’oggetto stesso del decreto, anche l’obbligo, in capo all’amministrazione pubblica, di rendere pubbliche le informazioni e dunque fornirle a chiunque ne faccia richiesta senza dover dimostrare alcun interesse[5]. Così, si stabilisce che non soltanto atti, documenti, o informazioni su supporto informatico, o comunque atti amministrativi, siano oggetto di accesso, ma tutte le informazioni sullo stato dell’ambiente senza alcun vincolo di tipo oggettivo.
Si tratta, dunque, di un passaggio cruciale perché non soltanto si “liberalizza” la legittimazione soggettiva del diritto superando definitivamente la dicitura della 241/1990, ma si va anche ben oltre l’art. 14 della legge 349/1986, che conferiva la titolarità del diritto di accesso a “qualunque cittadino”.
Libertà e garanzia di accesso alle informazioni in materia ambientale d’ora in poi saranno considerate in ogni normativa ed, in particolare, nel più recente D.L.vo 195/2005 (di recepimento della Direttiva 2003/04 CE) che, migliorando la normativa, ha abrogato e sostituito il D.L.vo n. 37 del 1997, travalicando i limiti imposti dalla legge n. 241 del 1990, destinata ad occuparsi di atti amministrativi al di fuori della sfera della materia ambientale.
Con il D.L.vo 19 agosto 2005 n. 195 (GU n. 222 del 23 settembre 2005) è stata recepita nell’ordinamento italiano la nuova Direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale.
Bisogna, innanzitutto, considerare che la nuova impostazione, a fronte del riconoscimento di un diritto d’accesso garantito per le informazioni in materia ambientale detenute dalle pubbliche autorità[6], sollecita (la Pubblica Amministrazione) a “garantire che tali informazioni siano messe a disposizione sistematicamente e progressivamente (…)” tramite sistemi informativi, tecnologie, comunicazioni, comunque di facile consultazione[7]. Tutto ciò al fine di assicurare la massima trasparenza e la pubblicità degli atti della Pubblica amministrazione che in Italia, peraltro, corrisponde anche al principio base del procedimento amministrativo sancito dall’articolo 97 della Costituzione[8].
L’obiettivo più importante della nuova normativa è quello di creare l’obbligo in capo all’autorità pubblica di assicurare una “sistematizzazione” delle informazioni, in modo che le stesse siano raggiungibili facilmente anche in via telematica e senza eccessivi vincoli burocratici.
A fronte, dunque, di tali obblighi, previsti per le autorità pubbliche e le amministrazioni al fine di assicurare l’acceso libero (e gratuito) alle informazioni, la normativa configura un nuovo ruolo ai cittadini, che devono essere maggiormente consapevoli ed informati per contribuire al miglioramento dell’ambiente in cui vivono.
Tale obbligo per i privati nasce dal Sesto programma comunitario di azione per l’ambiente[9], per gli anni che vanno dal 2002 al 2012, che, tra le misure da individuare al fine di coinvolgere i cittadini e modificarne il comportamento, propone anche “il miglioramento dell’accessibilità e la qualità delle informazioni sull’ambiente”[10].
Nel decreto, dunque, viene ampliata notevolmente, anche rispetto alla Direttiva 90/313/CEE e relativo D.L.vo 39/1997, la definizione di informazioni ambientali, per consentire una maggiore libertà di informazioni e per poter dare alle pubbliche amministrazioni dei riferimenti chiari per rispondere al loro obbligo di diffusione e raccolta dei dati. Ai fini del D.L.vo n. 195/2005 è, perciò, considerata “informazione ambientale” qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva sonora, elettronica o in qualunque altra forma materiale, ovvero tutto ciò che concerne l’ambiente e il suo stato. In primo luogo, sono stati inseriti sotto la dicitura “elementi dell’ambiente”: l’aria, l’acqua, il suolo, il territorio, i siti naturali, le zone costiere, la diversità biologica, l’atmosfera e perfino gli organismi modificati geneticamente e, soprattutto, l’interazione tra questi elementi[11]. In secondo luogo, abbiamo i “fattori” che incidono o possono incidere sull’ambiente come ad esempio il rumore, l’energia, le radiazioni o i rifiuti, compresi quelli radioattivi, nonché gli scarichi ed altri rilasci nell’ambiente (…).
Rispetto alla Convenzione di Aarhus, sia la Direttiva che il decreto legislativo lasciano inalterata la previsione per cui i fattori, le misure, anche amministrative, e ogni atto amministrativo che possa incidere sull’ambiente, o su qualcuno dei suoi elementi, può essere sottratto all’accesso se alla fine non comporta alcun effetto sull’ambiente, o impatto ambientale.
Diventa, dunque, dirimente, rispetto al rigetto della domanda, la valutazione rispetto agli effetti possibili che tale atto possa avere sull’ambiente e, se del caso, diventa necessario il passaggio giudiziale laddove spetterà al giudice chiarire tale aspetto.
In terzo luogo, abbiamo le “misure”[12], ovvero i provvedimenti amministrativi, politici, i piani e programmi, le disposizioni legislative, gli accordi ambientali e tutti quegli atti che possono incidere sugli elementi dell’ambiente[13]. Nell’ambito dei provvedimenti che incidono o possono incidere sull’ambiente sono stati inseriti anche gli accordi o i provvedimenti di carattere economico relativi all’ambiente, come le analisi costi-benefici e ogni analisi sviluppata, ad esempio, all’interno delle “misure” in campo ambientale[14].
In particolare, poi, le analisi e i dati di carattere economico contabile possono integrare l’informazione ambientale soltanto quando vengano utilizzati nell’ambito dell’esercizio di un’attività amministrativa che incide, o può incidere, direttamente sull’ambiente, perché altrimenti potrebbero prefigurare un arbitrario e sistematico controllo sull’attività amministrativa degli enti pubblici, in ciò contrastando dunque con i principi generali dell’azione amministrativa.
Infine, sono state inserite le informazioni relative agli inquinamenti, alle contaminazioni anche della catena alimentare, ovvero quelle notizie relative allo stato dell’ambiente che possono invece incidere sullo stato della salute dell’uomo[15]. L’inclusione di questi elementi è di grande importanza proprio in un’epoca in cui, con facilità, si diffondono o si scoprono malattie di cui non si conosce neanche bene il vaccino o la cura o non si sono mai approfonditi studi epidemiologici sugli effetti di certi inquinamenti sulla salute dell’uomo o l’immissione di certe sostanze sull’ambiente[16].
Così come già erano stati superati dalla previgente normativa, non vi sono limiti soggettivi per il richiedente, per cui chiunque, persona fisica o ente o associazione, può richiedere le informazioni senza dover dimostrare di avere un particolare interesse, a differenza di quanto tuttora accade per le richieste, ai sensi della rinnovata L. 241/1990 sull’accesso agli atti amministrativi detenuti dalle PA, per la quale, invece, il richiedente deve dimostrare un interesse diretto, concreto a tutelare situazioni giuridicamente rilevanti, con evidente grossa limitazione del diritto di accesso.
Il decreto arriva a specificare le modalità con cui poi le informazioni vengono messe a disposizione dall’autorità pubblica e, dunque, fissa il termine di 30gg, come previsto dalla Direttiva del 2003, entro il quale l’informazione deve essere messa a disposizione del richiedente, allungando tale termine fino a 60gg, qualora l’entità o la complessità della richiesta siano tali da non consentire di soddisfarla nel termine di 30 gg[17].
È comunque in capo all’autorità pubblica il compito di dare notizia circa questa proroga.
Il procedimento di accesso alle informazioni, possiamo riconoscere, è oggi molto meno rigido e più aperto volendo probabilmente abbattere quella immagine di distacco tra cittadini e PA che tanto spesso caratterizza le procedure pubbliche.
Dando prova di maggiore apertura verso i cittadini e le garanzie di accesso, citiamo la procedura nel caso di “richiesta eccessivamente generica”[18], motivazione che spesso le amministrazioni utilizzavano per rigettare l’accesso. Oggi, infatti, anziché agire direttamente con il rigetto, l’amministrazione potrà chiedere al richiedente di fornire ulteriori informazioni, dati o specifiche in modo da permettere l’identificazione agevole dell’atto.
A tal scopo viene introdotto, all’art. 4, il “Catalogo dell’informazione ambientale” che ogni amministrazione doveva rendere pubblico entro 6 mesi dall’entrata in vigore del decreto stesso e aggiornare annualmente.
L’amministrazione, per una migliore gestione del Catalogo, può anche servirsi degli URP – Uffici relazioni con il pubblico che, qualora già esistenti, di solito sono anche molto bene organizzati.
In generale, comunque la pubblica autorità dovrà applicare in modo restrittivo ogni caso di esclusione; qualora non si riesca, neanche con un’accurata indagine, a trovare risposta alla richiesta sottopostagli, non rimarrà che respingere l’accesso nei modi consentiti dal decreto[19].
Come già previsto dalla precedente normativa, il rigetto o il mancato accesso devono essere comunicati entro 30 gg dal ricevimento della richiesta e motivati facendo riferimento ad uno dei casi di esclusione previsti dal decreto.
I casi di esclusione comprendono, come nella normativa precedente, le richieste irragionevoli, o di atti incompleti o atti interni, con l’onere in capo all’amministrazione di comunicare la data in cui saranno completi.
Inoltre, ricadono tra le eccezioni: la diffusione dell’atto può nuocere alla riservatezza delle deliberazioni interne delle autorità pubbliche o alle relazioni internazionali o all’ordine a pubblica sicurezza o alla difesa nazionale, o ancora alla riservatezza delle informazioni industriali e commerciali, o ai diritti di proprietà intellettuale o alla privacy.
Una nuova causa di esclusione fa riferimento alla “tutela dell’ambiente o del paesaggio, cui si riferisce l’informazione” e, per meglio comprendere tale affermazione, lo stesso decreto chiarisce con l’esempio “come nel caso ubicazione di specie rare”. Infine specifica ancora che in nessun caso si possono escludere informazioni relative alle emissioni nell’ambiente.
Nel caso di rigetto di una richiesta, a fronte dell’impugnazione in via giurisdizionale già contemplata di fronte al TAR nel termine di 30 gg, è sempre prevista la possibilità di riesame sia presso il difensore civico competente per territorio, sia presso la Commissione per il riesame prevista dalla L. 241/1990.
In conclusione, il decreto si occupa di disciplinare la modalità di diffusione delle informazioni che, per il legislatore comunitario, è lo strumento con cui il diritto di accesso agli atti può essere garantito realmente e così prevede che l’autorità pubblica, entro sei mesi dalla pubblicazione del decreto, deve stabilire un piano per rendere l’informazione ambientale progressivamente disponibile in banca dati, da aggiornare annualmente. Nella banca dati devono essere presenti non solo le relazioni sullo stato dell’ambiente previste dalla L. 349/1986, ma anche le autorizzazioni e i pareri rilasciati dalle competenti autorità in applicazione delle norme sulla valutazione d’impatto ambientale, gli studi di impatto ambientale, le valutazioni dei rischi e gli accordi in materia ambientale, nonché i dati e le sintesi di dati ricavati dal monitoraggio di attività che incidono sull’ambiente.
Possiamo, dunque, riconoscere all’attuale normativa sull’informazione ambientale di assicurare una maggiore trasparenza e partecipazione dei cittadini alle scelte in materia di ambiente e, condividendo quanto affermato dal Commissario Stavros Dimas, che “l’informazione è un potente catalizzatore in grado di favorire un’evoluzione verso una maggiore protezione dell’ambiente. È importante perciò che i cittadini la utilizzino al meglio”.
[1] Legge del 7 agosto 1990 n. 241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” GU del 18 agosto 1990. Modificata dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15.
[2] Articolo 22, definizioni e principi in materia di accesso (modificato dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15 e legge 2009 n. 69), “1. Ai fini del presente capo si intende: b) per “interessati”, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso”.
[3] “Attuazione della Direttiva 1990/313/CEE concernente la libertà di accesso alle informazioni in materia di ambiente”, pubblicato in G.U. del 6 marzo 1997 n. 54 – suppl. ord. n. 48 (abrogato dal decreto legislativo n. 195 del 2005).
[4] Articolo 1 del Decreto – Oggetto – “le disposizioni del presente decreto hanno lo scopo di assicurare a chiunque la libertà di accesso alle informazioni relative all’ambiente in possesso delle autorità pubbliche, nonché la diffusione delle medesime, definendo i termini e le condizioni fondamentali in base ai quali tali informazioni devono essere rese disponibili”.
[5] Articolo 3 del decreto – Ambito di applicazione – 1. “Le autorità pubbliche sono tenute a rendere disponibili le informazioni relative all’ambiente a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse”.
[6] Articolo 1, comma 1, lett. “a) garantire il diritto d’accesso all’informazione ambientale detenuta dalle autorità pubbliche e stabilire i termini, le condizioni fondamentali e le modalità per il suo esercizio”;
[7] Articolo 1, comma 1, lett. b) “garantire, ai fini della più ampia trasparenza, che l’informazione ambientale sia sistematicamente e progressivamente messa a disposizione del pubblico e diffusa, anche attraverso i mezzi di telecomunicazione e gli strumenti informatici, in forme o formati facilmente consultabili, promuovendo a tale fine, in particolare, l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
[8] Articolo 97 della Costituzione, comma 1, “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.
[9] Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni, del 24 gennaio 2001, sul Sesto programma di azione per l’ambiente della Comunità europea “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” [COM(2001) 31 def. – Non pubblicato nella Gazzetta ufficiale].
[10] Nel Preambolo introduttivo del VI piano di azione.
[11] Articolo 2, comma 1, n. 1.
[12] Articolo 2, comma 1, n. 3.
[13] Anche nel caso di queste ultime si è espressa la giurisprudenza giudicando dunque sull’ambito oggetto della Convenzione di Aarhus (in quanto recepita dalla legge n. 108/2001) e del nostro decreto di derivazione ed ha perciò ribadito il TAR Calabria che “(…) non ogni dato inerente l’ecosistema, peraltro, può costituire oggetto dell’istanza di informazione ambientale, ma solo quelle attinenti a valori che l’ordinamento imputa all’ambiente come bene giuridico distinto dalle sue componenti materiali”.
[14] Articolo 2, comma 1, n. 5.
[15] Articolo 2, comma 1, lett. a) par. 6.
[16] L’esempio degli organismi geneticamente modificati rientra in questa ipotesi ovvero sulla possibilità di conoscere di ogni ubicazione dei luoghi su cui sono stati rilasciati gli OGM e ogni documento in possesso della pubblica autorità riguardante l’emissione nell’ambiente degli stessi.
[17] Articolo 3 “accesso all’informazione ambientale su richiesta”, comma 2.
[18] Non è considerata dal TAR Campania richiesta “eccessivamente generica” quella richiesta che comporta comunque l’individuazione di un determinato contesto, che deve essere comunque specificato. Infatti alla richiesta di informazioni sull’ubicazione, installazione e altre questioni in merito a depuratori nell’ambito del territorio del Comune di Acerno, senza ulteriori specifiche, l’amministrazione è stata invitata dal Tribunale a concedere l’accesso (sentenza 11 dicembre 2009 n. 7607).
[19] Articolo 3, comma 3. Si tratta dunque di ipotesi di esclusione del diritto di accesso previsti dall’articolo 5 del decreto.
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