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La Cassazione ritorna sulla nozione “oggettiva” di rifiuto

di Giulia Guagnini

Categoria: Rifiuti

Con la sentenza n. 48316 del 16 novembre 2016 la Corte di Cassazione (Sez. III Penale) è tornata, dopo diverso tempo, a pronunciarsi in merito alla corretta individuazione dei confini della nozione di “rifiuto”, attualmente contenuta nell’art. 183, comma 1, lett. a), D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152.

La specifica fattispecie oggetto della pronuncia in esame riguardava, fra l’altro, il reato di cui all’art. 260, D.L.vo n. 152/2006 (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) in relazione alla realizzazione di una discarica di rifiuti speciali, sia pericolosi che non pericolosi, in un’area di 5000 mq. Con riferimento a tale contestazione, l’imputato ha presentato ricorso contro la sentenza di appello rilevando come i materiali presenti (costituiti da terra e pietre da scavi e demolizioni, RAEE, rottami ferrosi e legnosi, giornali, veicoli fuori uso, copertoni, stracci e alimenti) fossero in gran parte riutilizzabili, dovendo quindi ritenersi giustificata la loro presenza nel sito in questione.

Sul punto la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, ritenendo che il giudice di appello abbia correttamente individuato ed indicato gli elementi fattuali sulla base dei quali era stata ritenuta sussistente la natura di rifiuti dei materiali presenti sull’area (es. documentazione fotografica, relazione ARPA, verbale di sequestro).

In particolare, nelle motivazioni della sentenza in esame si legge che “secondo la definizione datane nell’art. 183, comma 1, lettera a) d.lgs. 152\06, nell’attuale formulazione, deve ritenersi rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi» … la corretta individuazione del significato del termine «disfarsi» ha lungamente impegnato dottrina e giurisprudenza, nazionale e comunitaria, la quale ultima ha più volte chiarito alcuni concetti fondamentali, quali, ad esempio, la necessità di procedere ad una interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni inerenti alla loro natura …; di interpretare il verbo «disfarsi» considerando le finalità della normativa comunitaria e, segnatamente, la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti; di assicurare un elevato livello di tutela e l’applicazione dei principi di precauzione e di azione preventiva …”.

Alla luce di quanto sopra, i giudici togati hanno concluso che deve “ritenersi inaccettabile ogni valutazione soggettiva della natura dei materiali da classificare o meno quali rifiuti, poiché è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta ma, piuttosto, ciò che è qualificabile come tale sulla scorta di dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore o un obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto, quello, appunto, di disfarsi del suddetto materiale.”.

Conseguentemente, nel caso oggetto della pronuncia, la natura di rifiuto secondo la Corte è stata correttamente attribuita, avendo riguardo alla eterogeneità dei materiali e delle condizioni in cui venivano detenuti. A ciò deve essere aggiunta la circostanza che, nel caso di specie, l’originario detentore si era disfatto di tali materiali e, dunque, non è stata considerata rilevante la circostanza che detti materiali fossero – almeno in parte – suscettibili di riutilizzazione economica, poiché tale evenienza non escluderebbe comunque la loro natura di rifiuto.

Come fin qui più volte accennato, l’art. 183, comma 1, lett. a), D.L.vo n. 152/2006 reca la definizione giuridica di rifiuto: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.

Tale definizione è stata modificata ad opera del D.L.vo 3 dicembre 2010, n. 205[1]: difatti, l’originaria formulazione recitava “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.

Emerge con evidenza che nella nuova versione non compare più il periodo “che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A alla parte quarta del presente decreto”, sicché la nuova definizione di rifiuto prescinde dal riferimento all’elenco positivo costituito dal catalogo europeo dei rifiuti (CER): quest’ultimo, infatti, è solo lo strumento per giungere ad una “normalizzazione” delle statistiche sui rifiuti a livello comunitario e mantiene integralmente la sua efficacia in tale ambito[2].

Peraltro, la definizione di rifiuto di cui al D.L.vo n. 152/2006, come risultante dalle succitate modifiche apportate dal D.L.vo n. 205/2010, è integralmente mutuata da quella comunitaria, contenuta nell’art. 3, par. 1, Direttiva 2008/98/CE[3].

A tal proposito, nel documento intitolato “Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste[4] a firma della Commissione Europea, sono contenute alcune precisazioni utili al fine di meglio comprendere cosa debba intendersi con il termine “disposal” (ossia “disfarsi” nella traduzione italiana).

La Commissione richiama in merito gli orientamenti giurisprudenziali espressi dalla Corte di giustizia UE, auspicando un approccio flessibile ed un’analisi condotta “caso per caso”, nonché fornendo alcune precisazioni (punto 1.1.2.1):

  • il termine “disfarsi” deve intendersi riferito sia alle attività di recupero che a quelle di smaltimento;
  • può implicare un valore commerciale positivo, neutrale o negativo;
  • può riguardare una condotta intenzionale del produttore/detentore, ovvero un comportamento involontario o addirittura accidentale;
  • il luogo fisico in cui sono collocati i materiali non influenza in alcun modo la circostanza che gli stessi assumano o meno la qualifica di rifiuti.

La Commissione fornisce inoltre degli esempi pratici, ad esempio evidenziando che il conferimento di materiali da parte di una Società ad un soggetto che effettua la raccolta di rifiuti è senz’altro da qualificarsi come una condotta volta a “disfarsi” dei medesimi.

In conclusione, alla luce dei succitati orientamenti interpretativi, è possibile affermare che la nozione di rifiuto comprende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi (o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi), senza che rilevi una possibile riutilizzazione economica, ovvero che la dismissione avvenga attraverso lo smaltimento o il recupero e senza riguardo di un’eventuale riutilizzo[5].

La sentenza n. 48316/2016 della Cassazione si pone dunque in continuità con l’interpretazione maggioritaria, che accoglie una nozione ampia di rifiuto, fondata su risultanze oggettive ed alla quale devono essere ricondotti sostanze od oggetti non più idonei a soddisfare i bisogni cui essi erano originariamente destinati, pur se non ancora privi di valore economico[6].

[1]Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 288 del 10 dicembre 2010 – S.O. n. 269 ed in vigore dal 25 dicembre 2010.
[2] MAGLIA S., “La gestione dei rifiuti dalla A alla Z”, TuttoAmbiente Edizioni, 2015, pag. 129.
[3]Direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008 , relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea n. L312 del 22 novembre 2008.
[4] In http://ec.europa.eu/environment/waste/framework/pdf/guidance_doc.pdf. Tale documento, datato luglio 2012, pur non contenendo disposizioni normative vincolanti costituisce un’interpretazione autorevole delle norme contenute nella Direttiva 2008/98/CE della quale occorrerà necessariamente tenere conto.
[5] MAGLIA S., Op. cit..
[6] Sul punto v. anche Cass. Pen., Sez. III, n. 2717 del 5 giugno 2013.

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