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Stefano Maglia

La disciplina dei fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue

di Stefano Maglia

Categoria: Acqua


 
In tema di gestione dei fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue assume rilievo l’articolo 127, c. 1, D.L.vo 152/06, che nell’attuale formulazione – come risultante a seguito delle modifiche apportate dal D.L.vo 4/08 – così recita:
 
1. Ferma restando la disciplina di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile e alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato.

  1. E’ vietato lo smaltimento dei fanghi nelle acque superficiali dolci e salmastre”.

La disposizione, originariamente, era contenuta nell’articolo 48 dell’ormai abrogato D.L.vo 152/99 che stabiliva:

“Ferma restando la disciplina di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99 e successive modifiche, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta ciò risulti appropriato”.
 
La stessa veniva sostanzialmente riproposta nell’art. 127 del D.L.vo 152/06, nell’originaria formulazione, con un’ulteriore specificazione:
 
Ferma restando la disciplina di cui al D.L.vo 27 gennaio 1992, n. 99, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato”.
 
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Veniva altresì aggiunto il divieto di smaltimento dei fanghi nelle acque superficiali dolci e salmastre.
 
Sul punto si concorda con chi all’epoca sottolineò come “la nuova formulazione dell’articolo 127 non sembra aver creato particolari problemi interpretativi. L’innovazione introdotta … è stata generalmente letta per quello che era e, cioè, una mera precisazione, peraltro ridondante poiché non è dato comprendere come possano assoggettarsi i fanghi alla disciplina sui rifiuti quando questa non sia applicabile …[1].
 
Le modifiche apportate all’art. 127 dal II Correttivo al D.L.vo 152/06 hanno spostato, dunque, il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi al termine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione, ragion per cui è essenziale individuare il momento finale di tale trattamento.
 
Sul punto, però, si premette che – a quanto risulta dall’esame normativo, dottrinale e giurisprudenziale – nulla è dato rilevare dalle disposizioni in materia: ciò in quanto “le fonti normative in materia apparentemente non forniscono un criterio certo, espresso e univoco per identificare il momento nel quale i materiali derivanti dal processo di depurazione “transitano” nell’ambito della normativa sui rifiuti[2].
 
L’art. 2 del D.L.vo 99/92 definisce i fanghi come residui derivanti dai processi di depurazione e si riferisce ai “fanghi trattati” avendo riguardo ad una fase successiva alla depurazione, come sembra potersi desumere dal tenore dell’art. 3, che indica il trattamento tra le condizioni per l’utilizzazione e dell’art. 11, c. 2, il quale prevede per i fanghi sottoposti a trattamento e ad altre procedure ulteriori analisi rispetto a quelle previste dal comma precedente.
 
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Niente di essenziale si rinviene, inoltre, nel D.L.vo 152/06 che definisce, nell’art. 74, c. 1, lett. bb). “fanghi: i fanghi residui, trattati o non trattati, provenienti dagli impianti di trattamento delle acque reflue urbane”, mentre l’art. 101, ultimo comma, si riferisce al “recupero come materia prima dei fanghi di depurazione”.
 
L’art. 184, c. 3, lettera g) individua tra i rifiuti speciali “… i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi”[3], mentre l’art. 208, c. 15, cita gli “impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, ad esclusione della sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee …”
 
La Corte di Cassazione Penale, sez. III, con la sentenza n. 36096 del 5 ottobre 2011 ha precisato che “anche un sommario esame del materiale svolgimento del processo depurativo non appare particolarmente utile – sebbene possa certamente ritenersi che alcune operazioni riguardanti i fanghi quali, ad esempio, l’ispessimento, la disidratazione, l’essiccazione rientrino senz’altro nella fase finale del complessivo ciclo di depurazione – poiché la collocazione temporale dell’effettivo completamento del processo può dipendere da fattori diversi … Possono inoltre influire altri fattori, quali le effettive modalità di gestione dell’impianto o altri comportamenti specifici”.
 
Peraltro, assume rilievo anche la modalità di trattamento dei fanghi medesimi che deve essere adeguata e tecnicamente corretta. In definitiva, quindi, è impossibile determinare a priori un momento finale certo, ma – come prosegue la S.C. – è necessario un accertamento concreto della natura dei fanghi e delle modalità di trattamento degli stessi[4].
 
In accordo con la pronuncia sopraccitata, “può dunque affermarsi il principio secondo il quale l’articolo 127 D.L.vo 152/06, nell’attuale stesura, ha fornito una ulteriore indicazione per meglio stabilire il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi e che viene individuato nella fine del complessivo trattamento, il quale è effettuato presso l’impianto e finalizzato a predisporre i fanghi medesimi per la destinazione finale – smaltimento o riutilizzo – in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi. Tale precisazione determina, come ulteriore conseguenza, l’applicabilità della disciplina sui rifiuti in tutti i casi in cui il trattamento non venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo incompleto, inappropriato o fittizio”[5].
 
Il fango da depurazione, quindi, “è il rifiuto risultante da uno specifico, per quanto singolare, processo produttivo, consistente appunto nella depurazione. Le fasi intermedie del processo non possono essere, quindi, considerate autonomamente al fine della valutazione sul determinarsi del rifiuto, che, quindi, dovrà necessariamente essere effettuata al termine del predetto ciclo[6].
 
A ciò si aggiunga un’ulteriore riflessione: l’art. 127, c. 1, ultimo capoverso, precisa che “i fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato”. Tale obbligo di riutilizzo, non meglio specificato, se vale per i fanghi giunti alla fine del complessivo processo di trattamento (che sono, quindi, rifiuti), si ritiene che a maggior ragione debba valere per quei fanghi (come quelli di cui al presente parere) che vengono prelevati in una fase ancora intermedia.
 
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Per estremo, si potrebbe persino considerare che una gestione dei fanghi attivi (utili e preziosi per l’attivazione degli impianti di depurazione) quali rifiuti contravviene a quanto stabilito dall’art. 127, c. 1, ultimo capoverso.
 
Ad avviso di chi scrive, quindi, si ritiene che sia importante – ai fini del presente quesito – spingere proprio in questa direzione con gli Enti di controllo, valorizzando l’appropriatezza del reimpiego dei fanghi attivi per l’inoculo piuttosto che la loro gestione quali rifiuti.
 
D’altro canto, gli enti di controllo potrebbero sollevare perplessità in ordine ai documenti di accompagnamento del trasporto dei fanghi in questione. Ad avviso di chi scrive, si ritiene consigliabile evitare l’utilizzo di formulari “finti” (nel senso di formulari che accompagnano il trasporto di non-rifiuti), e di contro si suggerisce di ipotizzare – in accordo con i suddetti enti di controllo – un documento di tracciabilità che accompagni il D.D.T. Ciò, ovviamente, deve essere preceduto da una condivisione con i suddetti enti di una procedura, un nulla osta o simili, che soddisfi le esigenze di entrambe le parti: corretta gestione dei fanghi attivi, rispetto della norma, garanzia di tracciabilità, non aggravio burocratico/documentale.

 

 

[1] Così L. RAMACCI, La disciplina dei fanghi da depurazione dopo il D. Lgs. n. 4/2008, in Ambiente&Sviluppo, n. 5/2008, p. 464 e s.

[2] Così C. PARODI, Gestione dei fanghi da depurazione: quali responsabilità?, in Ambiente & Sicurezza, n. 6 del 26 marzo 2013, p. 93

Anche in L. RAMACCI, La disciplina dei fanghi da depurazione dopo il D. Lgs. n. 4/2008, op. cit., p. 466, si legge che “con minore chiarezza è stata invece affrontata la questione relativa all’individuazione del momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi”.

[3] A questo proposito corre l’obbligo di segnalare che attualmente i rifiuti di cui all’art. 184, c. 3, lett. g) si vedono riservata una disciplina particolare ai sensi della Parte IV: ai sensi dell’art. 189, c. 3 (versione vigente) i loro produttori devono fare il Mud, ai sensi dell’art. 190, c. 1 (versione vigente), nonché dell’art. 190, c. 1 (versione che entrerà in vigore a far data dalla piena operatività del SISTRI) devono anche tenere il registro C/S, ma ai sensi del D.M. 24 aprile 2014, che ha ridisegnato l’ambito soggettivo di applicazione del SISTRI, i loro produttori non figurano tra gli obbligati al sistema di tracciabilità informatica.

[4] Conf. Cass. III Pen., n. 5356 del 14 febbraio 2011, che ha annullato l’ordinanza del Tribunale di Rieti per mancanza del suddetto accertamento.

[5] Conf. anche Cass. III Pen., n. 38051 del 17 settembre 2013.

[6] Così C. PARODI, Fanghi da depurazione: quale disciplina applicabile?, op. cit., p. 99

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