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La regolamentazione degli scarichi e i rapporti con la normativa sui rifiuti
di Luca Prati
Categoria: Acqua
La disciplina dello “scarico” rappresenta da sempre il fulcro della normativa relativa alla tutela della risorsa idrica. È infatti essenzialmente tramite lo scarico che l’attività antropica interagisce in modo negativo con l’ambiente, ed è quindi in larga parte attraverso il controllo e la regolamentazione dell’attività di scarico che viene apprestata, in concreto, la tutela dei corpi recettori dall’inquinamento. Non a caso infatti i due pilastri fondamentali ed irrinunciabili sui quali si poggiava il sistema normativo disegnato dalla L. 10 maggio 1976, n. 319 (legge Merli), venivano ad essere costituiti proprio dalla autorizzazione preventiva allo scarico e dal rispetto dei limiti tabellari. Il D.L.vo n. 152/1999, poi recepito nella Sezione seconda della Parte terza del D.L.vo n. 152/2006, ha indubbiamente ampliato le forme di tutela della risorsa idrica, e ciò nondimeno anche dopo la riforma la disciplina, i controlli e le sanzioni apprestate per gli scarichi rappresentano la chiave di volta del sistema. Dalla esatta definizione di “scarico” dipende in gran parte l’applicazione stessa delle norme della Parte terza, sezione seconda, del D.L.vo n. 152/2006, e l’individuazione della linea di confine tra tale normativa di settore e quella, più generale, sui rifiuti. Entrambi i corpi normativi trattano infatti, alla fin fine, la medesima questione fondamentale, e cioè l’immissione dei residui dell’attività antropica, domestica od industriale, nell’ambiente. Non c’è pertanto da stupirsi delle reciproche e continue interferenze che si sono verificate in passato tra le due normative. Dopo un lungo e sofferto dibattito dottrinale e giurisprudenziale[1] alcuni fondamentali principi sulla controversa materia erano stati posti dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 1995, con la notissima sentenza Forina[2], in cui la Suprema Corte aveva distinto decisamente la fase dello scarico di sostanze liquide (disciplinata all’epoca dalla legge Merli) da quelle relative, invece, allo smaltimento (nelle varie fasi di conferimento, raccolta, stoccaggio, trasporto, ammasso, ecc.) di rifiuti (disciplinate all’epoca dal D.P.R. n. 915). La sentenza Forina poneva quindi, in sintesi, i seguenti principi: – il D.P.R. n. 915 regolava l’intera materia dei rifiuti. In essa, come cerchio concentrico minore, si inserivano la normativa attinente agli scarichi, disciplinati dalla legge Merli; – la L. n. 319 del 1976 mirava a disciplinare il rapporto che insorge tra il refluo e la sua immissione nell’ambiente e pertanto finalizzava tutta la formulazione dell’articolato alla tutela del corpo ricettore; – il decreto n. 915 del 1982 disciplinava tutte le singole operazioni di smaltimento (es.: conferimento, raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio, ecc.) dei rifiuti prodotti da terzi, fossero essi solidi o liquidi, fangosi o sotto forma di liquami, con esclusione di quelle fasi, concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili), attinenti allo scarico e riconducibili alla disciplina stabilita dalla L. n. 319 del 1976, con l’unica eccezione dei fanghi e liquami tossici e nocivi, che restavano, sotto ogni profilo, regolati dal D.P.R. n. 915. Nel quadro normativo e giurisprudenziale sopra descritto si sono quindi inserite le novità introdotte dal D.L.vo n. 152/1999. Dalla riforma del 1999 è uscita rafforzata l’impostazione secondo cui il D.L.vo n. 22/1997 avrebbe rappresentato la normativa quadro sull’inquinamento delle acque, del suolo e del sottosuolo realizzato immettendo i residui dell’attività umana nell’ambiente, all’interno della quale si collocavano, come parziali deroghe, le norme di settore quali quelle sull’inquinamento idrico e le emissioni in atmosfera. Il D. Lgs. 152/2006, dopo il l c.d. “secondo correttivo” (D.L.vo n. 4/2008) ha introdotto la seguente definizione di scarico, all’art. 74, lett. ff): «scarico: qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all’articolo 114». La definizione si incentra essenzialmente su due punti: – l’esistenza di un sistema di “stabile collettamento”; – la continuità tra ciclo di produzione che genera il refluo e il corpo recettore. Se nella maggioranza dei casi rilevanti ai fini interpretativi il “ciclo di produzione” coinciderà con un vero e proprio ciclo produttivo, i due termini non sono tuttavia sinonimi; ed infatti, la definizione di scarico ha portata generalizzata, e non limitata ai casi in cui le acque reflue (domestiche, urbane o industriali) derivino da un “ciclo produttivo” (industriale, artigianale o commerciale) in senso proprio.
[1] Cfr., per la differenza tra scarichi disciplinati dalla L. 319/1976 e sversamento di rifiuti disciplinato dal D.P.R. 915/1982, G. Amendola, La tutela dell’inquinamento idrico, Milano, 1993, p. 56; A. Jazzetti, La normativa in materia di rifiuti, Milano 1993, p. 33. [2] Cassazione sez. unite, 27 settembre 1995, Forina, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 1996, 678, con nota di P. Giampietro, ed in Foro it., 1996, II, c. 150.
Tratto da “Gestione Ambientale”, di Stefano Maglia, Paolo Pipere, Luca Prati, Leonardo Benedusi, Edizioni TuttoAmbiente, 2015.
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La regolamentazione degli scarichi e i rapporti con la normativa sui rifiuti
di Luca Prati
La disciplina dello “scarico” rappresenta da sempre il fulcro della normativa relativa alla tutela della risorsa idrica. È infatti essenzialmente tramite lo scarico che l’attività antropica interagisce in modo negativo con l’ambiente, ed è quindi in larga parte attraverso il controllo e la regolamentazione dell’attività di scarico che viene apprestata, in concreto, la tutela dei corpi recettori dall’inquinamento.
Non a caso infatti i due pilastri fondamentali ed irrinunciabili sui quali si poggiava il sistema normativo disegnato dalla L. 10 maggio 1976, n. 319 (legge Merli), venivano ad essere costituiti proprio dalla autorizzazione preventiva allo scarico e dal rispetto dei limiti tabellari.
Il D.L.vo n. 152/1999, poi recepito nella Sezione seconda della Parte terza del D.L.vo n. 152/2006, ha indubbiamente ampliato le forme di tutela della risorsa idrica, e ciò nondimeno anche dopo la riforma la disciplina, i controlli e le sanzioni apprestate per gli scarichi rappresentano la chiave di volta del sistema.
Dalla esatta definizione di “scarico” dipende in gran parte l’applicazione stessa delle norme della Parte terza, sezione seconda, del D.L.vo n. 152/2006, e l’individuazione della linea di confine tra tale normativa di settore e quella, più generale, sui rifiuti.
Entrambi i corpi normativi trattano infatti, alla fin fine, la medesima questione fondamentale, e cioè l’immissione dei residui dell’attività antropica, domestica od industriale, nell’ambiente. Non c’è pertanto da stupirsi delle reciproche e continue interferenze che si sono verificate in passato tra le due normative.
Dopo un lungo e sofferto dibattito dottrinale e giurisprudenziale[1] alcuni fondamentali principi sulla controversa materia erano stati posti dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 1995, con la notissima sentenza Forina[2], in cui la Suprema Corte aveva distinto decisamente la fase dello scarico di sostanze liquide (disciplinata all’epoca dalla legge Merli) da quelle relative, invece, allo smaltimento (nelle varie fasi di conferimento, raccolta, stoccaggio, trasporto, ammasso, ecc.) di rifiuti (disciplinate all’epoca dal D.P.R. n. 915).
La sentenza Forina poneva quindi, in sintesi, i seguenti principi:
– il D.P.R. n. 915 regolava l’intera materia dei rifiuti. In essa, come cerchio concentrico minore, si inserivano la normativa attinente agli scarichi, disciplinati dalla legge Merli;
– la L. n. 319 del 1976 mirava a disciplinare il rapporto che insorge tra il refluo e la sua immissione nell’ambiente e pertanto finalizzava tutta la formulazione dell’articolato alla tutela del corpo ricettore;
– il decreto n. 915 del 1982 disciplinava tutte le singole operazioni di smaltimento (es.: conferimento, raccolta, trasporto, ammasso, stoccaggio, ecc.) dei rifiuti prodotti da terzi, fossero essi solidi o liquidi, fangosi o sotto forma di liquami, con esclusione di quelle fasi, concernenti i rifiuti liquidi (o assimilabili), attinenti allo scarico e riconducibili alla disciplina stabilita dalla L. n. 319 del 1976, con l’unica eccezione dei fanghi e liquami tossici e nocivi, che restavano, sotto ogni profilo, regolati dal D.P.R. n. 915.
Nel quadro normativo e giurisprudenziale sopra descritto si sono quindi inserite le novità introdotte dal D.L.vo n. 152/1999. Dalla riforma del 1999 è uscita rafforzata l’impostazione secondo cui il D.L.vo n. 22/1997 avrebbe rappresentato la normativa quadro sull’inquinamento delle acque, del suolo e del sottosuolo realizzato immettendo i residui dell’attività umana nell’ambiente, all’interno della quale si collocavano, come parziali deroghe, le norme di settore quali quelle sull’inquinamento idrico e le emissioni in atmosfera.
Il D. Lgs. 152/2006, dopo il l c.d. “secondo correttivo” (D.L.vo n. 4/2008) ha introdotto la seguente definizione di scarico, all’art. 74, lett. ff):
«scarico: qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all’articolo 114».
La definizione si incentra essenzialmente su due punti:
– l’esistenza di un sistema di “stabile collettamento”;
– la continuità tra ciclo di produzione che genera il refluo e il corpo recettore.
Se nella maggioranza dei casi rilevanti ai fini interpretativi il “ciclo di produzione” coinciderà con un vero e proprio ciclo produttivo, i due termini non sono tuttavia sinonimi; ed infatti, la definizione di scarico ha portata generalizzata, e non limitata ai casi in cui le acque reflue (domestiche, urbane o industriali) derivino da un “ciclo produttivo” (industriale, artigianale o commerciale) in senso proprio.
[1] Cfr., per la differenza tra scarichi disciplinati dalla L. 319/1976 e sversamento di rifiuti disciplinato dal D.P.R. 915/1982, G. Amendola, La tutela dell’inquinamento idrico, Milano, 1993, p. 56; A. Jazzetti, La normativa in materia di rifiuti, Milano 1993, p. 33.
[2] Cassazione sez. unite, 27 settembre 1995, Forina, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 1996, 678, con nota di P. Giampietro, ed in Foro it., 1996, II, c. 150.
Tratto da “Gestione Ambientale”, di Stefano Maglia, Paolo Pipere, Luca Prati, Leonardo Benedusi, Edizioni TuttoAmbiente, 2015.
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