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Stefano Maglia

Quando si può invocare l'ignoranza della legge in campo ambientale?

di Stefano Maglia

Categoria: Responsabilità ambientali

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione Penale offre l’occasione per tornare sul tema della complessità della materia ambientale e della connessa esigenza di rivolgersi ad esperti giuridici per evitare di incorrere nei rischi derivanti da una cattiva gestione dell’attività aziendale.

A tal proposito, già in passato, con sentenza 28126 del 23 giugno 2004, la Corte di Cassazione Penale si era espressa nel senso di ritenere che “la sempre maggiore complessità dell’attività produttiva dell’impresa moderna e delle congerie di norme da osservare, spesso richiedono il possesso di conoscenze tecniche specialistiche non comuni tali da imporre il ricorso ad esperti”[1].

Si badi, però, che, mentre in passato i giudici togati si sono limitati ad una semplice constatazione di fatto che potesse mettere in guardia dai possibili rischi di una scarsa sensibilità ed attenzione ambientale, ancora oggi purtroppo predominante, con la sentenza della Corte di Cassazione Penale, n. 2246 del 18 gennaio 2017, viene sancito un vero e proprio onere di informarsi a capo di chi svolga un’attività nel settore ambientale.

Per comprendere meglio che cosa significhi in concreto tale principio occorre partire dall’art. 5 cod. pen. secondo cui “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale” e dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 24 marzo 1988 che ne ha dichiarato la illegittimità costituzionale nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge l’ignoranza inevitabile.

Tradotto significa che la responsabilità può essere esclusa solo a fronte di un errore inevitabile.

Che cosa debba intendersi per “errore inevitabile” in materia ambientale è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza ed emerge con chiarezza dalla recente sentenza suindicata, la quale ha espresso un principio di diritto utile ad evidenziare l’importanza di ricorrere ad esperti giuridici per adempiere ad un vero e proprio onere di informazione gravante su colui che svolge determinate attività.

Oggetto della pronuncia è il caso di un soggetto privato che, in assenza di necessaria iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali, raccoglieva rifiuti metallici prodotti da terzi per quantitativi eccedenti oltre tre volte quello massimo annuale consentito, operandone la commercializzazione, tramite la consegna ad un operatore professionale.

Ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cuneo per chiedere l’annullamento della sentenza che aveva assolto il soggetto in questione dal reato di cui all’art. 256, D.Lgs. 152/2006 (Attività di gestione rifiuti non autorizzata) ritenendo, tra l’altro, che egli fosse caduto in errore scusabile a causa della complessità della materia che disciplina la gestione dei rifiuti.

Tra i motivi del ricorso vi è, per quanto d’interesse ai presenti fini, quello relativo alla violazione di legge in relazione al citato art. 5 cod. pen., ritenuto fondato dai giudici della S.C..

Prive di valore sono risultate, infatti, le argomentazione del Giudice per le indagini preliminari che ha considerato sussistente la buona fede del soggetto sulla base di una serie di elementi quali la complessità della normativa che disciplina la gestione rifiuti, soggetta a continue modifiche e che ha per naturali destinatari le imprese produttrici dei rifiuti e i professionisti del settore e le imprese che li gestiscono in maniera professionale; il modesto guadagno tratto dalla cessione rifiuti; la qualità del privato cittadino che non è nella condizione di conoscere nel dettaglio la complessa normativa sui rifiuti ed, in particolare, la distinzione tra rifiuto consegnato all’isola ecologica o al centro di raccolta etc.

Viene richiamato a tal proposito il principio consolidato secondo cui in materia di gestione rifiuti la buona fede che esclude nei reati contravvenzionali l’elemento soggettivo può essere determinata da un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole[2], con ciò intendendosi, ad esempio, un atto positivo della pubblica amministrazione da cui sia possibile trarre un convincimento in merito alla correttezza della propria condotta (Cass. Pen., n. 49910/2009).

Secondo i Giudici “i limiti della inevitabilità, e quindi della non colpevolezza, dell’ignoranza della legge penale, che scusa l’autore dell’illecito, debbono essere individuati in relazione allo specifico soggetto agente: mentre per il cittadino comune è sufficiente l’ordinaria diligenza nell’assolvimento di un dovere di informazione di tipo generico, attraverso la corretta utilizzazione dei normali mezzi di informazione, di indagine e di ricerca dei quali disponga, tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica […] Non è quindi consentita un’inerzia del cittadino, il quale è tenuto ad informarsi, facendo sorgere l’obbligo in capo all’organo amministrativo di dare una risposta sul punto ed essendo particolarmente rigoroso il dovere di attivarsi ed informarsi, per l’agente che svolga professionalmente una attività in un determinato settore”.

Ne viene fatto discendere il principio di diritto secondo cui a fronte di una disciplina frammentaria e complessa e sull’applicazione della quale si siano formati diversi orientamenti il soggetto che svolga professionalmente una specifica attività nel settore ambientale può invocare l’ignoranza incolpevole della legge penale facendo venir meno l’elemento soggettivo del reato, solo qualora dimostri “di aver fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari e per informarsi in proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, con ciò adempiendo allo stringente dovere di informazione sullo stesso gravante”.

Obbligo di diligenza che deve essere richiesto anche al privato cittadino che intenda svolgere un’attività di gestione rifiuti. Nel caso di specie la “pura e semplice ignoranza dell’agente sia sulla normativa di settore che sul carattere illecito della propria condotta […] non confortata da provvedimenti espressi dell’autorità amministrativa né da richieste di chiarimenti sul punto, né tantomeno da un orientamento giurisprudenziale incerto” non è stata ritenuta idonea ad escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo.

In conclusione può ben dirsi che la sentenza in oggetto non fa che confermare quanto da tempo sostenuto nell’ambito delle responsabilità ambientali: la tutela dell’ambiente e della gestione aziendale, in un’ottica di contemperamento di contrapposti interessi, passa prima di tutto dalla prevenzione, dalla competenza e dalla formazione autorevoli.

 

 

[1] Si veda in argomento “Le responsabilità ambientali aziendali. Guida pratica per prevenire rischi e sanzioni” di S. MAGLIA e G. GUAGNINI, Edizioni TuttoAmbiente, 2016.

[2] Per un approfondimento sul punto si veda “La buona fede nell’ambito della responsabilità ambientale” di M. TAINA, pubblicato sul sito www.tuttoambiente.it.

 

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