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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Il fenomeno del rumore è da qualche tempo oggetto – finalmente ed opportunamente – di preoccupata considerazione non solo da parte di tecnici e studiosi, ma anche del comune cittadino, in quanto lo si colloca, oramai con certezza, nel quadro delle turbative dell`equilibrio ecologico, pericoloso fattore di insalubrità ambientale, e quindi minaccia per la salute. Ovviamente non ogni emissione sonora è idonea a ledere “l`ambiente salubre”, ma solo quelle aventi determinate caratteristiche (in relazione alla loro natura, tipologia, frequenza, intensità, durata, ecc.) che comportino il superamento della soglia del mero “disturbo”. Appare allora opportuno distinguere dalla semplice “emissione sonora”, che realizza comunque un`interruzione del silenzio, il “rumore”, inteso come una perturbazione della quiete, ed infine il vero e proprio “inquinamento acustico o fonico”, fenomeno ben più ampio e complesso che potrebbe definirsi come l`insieme dei rumori prodotti in un determinato contesto spazio-temporale, idoneo a porre in pericolo la salute di chi li percepisce ed a compromettere la qualità dell`ambiente; fenomeno, quindi, tanto importante da giustificare, ed anzi provocare – da parte della società – una correlativa domanda di protezione necessariamente più affinata ed organizzata. La distinzione proposta è divenuta però meno attuale a seguito dell`emanazione del D.P.C.M. 1 marzo 1991, prima, e della legge-quadro sul rumore (L. 26 ottobre 1995, n. 447), successivamente, delle quali si dirà appresso. Il decreto, fornendo finalmente (nell`Allegato A) la definizione di “rumore”, lo ha in sostanza quasi identificato con l`”inquinamento fonico”, come sopra individuato. Infatti è considerato rumore: “qualunque emissione sonora che provochi sull`uomo effetti indesiderati, disturbanti o dannosi o che determini un qualsiasi deterioramento qualitativo dell`ambiente”. La legge n. 447/1995 fornisce addirittura (art. 2) la definizione di inquinamento acustico: “l`introduzione di rumore nell`ambiente abitativo o nell`ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo e alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell`ambiente abitativo o dell`ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi”. La semplice emissione sonora, quindi, diventa rumore soltanto quando produce determinate conseguenze negative sull`uomo o sull`ambiente, e cioè quando alla fine compromette la qualità della vita. A voler ben guardare la definizione del D.P.C.M. appare ridondante giacché gli effetti indesiderati in quanto tali sono sempre disturbanti e viceversa; inoltre essi finiscono con l`essere in ogni caso dannosi per la persona, non potendosi limitare, com`è pacifico, il concetto di danno a quello riguardante esclusivamente l`integrità fisica del soggetto. Comunque è sicuramente utile che il nostro ordinamento giuridico disponga finalmente di una definizione ufficiale di “rumore”, quantunque non perfetta. La stessa considerazione vale per la riportata definizione di inquinamento acustico, certamente attualissima in quanto cerca di tener presente ogni possibile situazione di degrado (o anche semplicemente di sgradita e dannosa interferenza) cagionata dal rumore. È stato osservato con perspicacia che l`inquinamento sonoro, come quello atmosferico, aggredisce “direttamente” il bene-salute, differenziandosi pertanto dall`inquinamento dell`acqua e del suolo, che invece arrecano danno allo stesso soltanto nella misura in cui l`acqua o i prodotti della terra vengano usati per l`alimentazione. Maggiore la pericolosità, quindi, dell`inquinamento acustico, anche a causa della particolare natura del rumore – destinato a diffondersi, propagarsi, riverberarsi ben oltre i confini spaziali del luogo di emissione – nonché per l`impossibilità dell`uomo di bloccare la funzione uditiva, a differenza delle altre strutture sensoriali (occhi, bocca ecc.), finanche durante il sonno, allorquando entra in azione il sistema di vigilanza (neuro-vegetativo), che reagisce allo stimolo rumore indipendentemente dalla volontà del soggetto. Il rumore, come si diceva, può assumere gradazioni che nuocciono all`integrità fisica e psichica non solo dell`uomo, ma di qualsiasi animale, ed infatti la psicoacustica, benché ancora ai primi passi, studiando le complesse reazioni fisiche e psico-biologiche che si verificano tra esseri viventi ed il mondo del suono, ha accertato come sovente l`esposizione al rumore provochi il sovvertimento delle più varie attività organiche e ghiandolari, con evidenti e determinanti modificazioni delle increzioni ormonali. Per quanto concerne l`uomo, la scienza medica è da tempo concorde nell`affermare che gli eccessi di rumore, oltre a danneggiare l`apparato uditivo, possono arrecare notevoli pregiudizi al sistema nervoso, all`apparato cardiovascolare nonché a quelli digerente e respiratorio, ovviamente sempre in relazione alla recettività dell`individuo. In ogni caso, comunque, compromettono la capacità di concentrazione e di lavoro, dunque – come si è detto – la qualità della vita. Quindi l`inquinamento sonoro, ed il rumore in generale, rappresentano una concreta e grave minaccia alla salute, da intendersi in senso ampio come l`equilibrio psico-fisico e sociale di un soggetto. Tale principio ha trovato riscontro nell`indirizzo di questi ultimi anni della Corte di cassazione che, per successive approssimazioni, ha finito col riconoscere l`inviolabilità e l`indisponibilità del diritto alla salute, qualificandolo vero e proprio diritto soggettivo primario ed assoluto, e precisando che esso non ha ad oggetto solo l`incolumità fisica, ma si identifica – anche e soprattutto – col diritto ad un “ambiente salubre”. La Suprema Corte ha osservato, inoltre, che tale diritto non è suscettibile di compressione ad opera di interessi di ordine collettivo o generale, per cui non può nemmeno configurarsi un potere ablatorio dello Stato, che lo faccia degradare ad interesse legittimo. Orbene a questo punto è indispensabile appurare se questo diritto, di rango costituzionale in quanto espressamente riconosciuto (dall`art. 32 Cost.) come fondamentale diritto dell`individuo e interesse della collettività, sia munito – in relazione alle aggressioni del rumore – di tutela adeguata o non sia piuttosto, come è stato definito da qualcuno, un diritto “disarmato”. Scopo che ci si prefigge, quindi, è quello di individuare ed esaminare la normativa vigente per accertare se, ed entro quali limiti, essa consenta di difendere la nostra salute dall`inquinamento sonoro o, più genericamente, dal rumore.
Disciplina comunitaria
L`aumento globale dell`inquinamento acustico e le gravi conseguenze di esso, sopra accennate, non potevano lasciare indifferenti gli organismi comunitari, atteso che uno degli obiettivi della CEE è la protezione dell`ambiente e la qualità della vita (art. 2 del trattato istitutivo, ratificato con L. 14 ottobre 1957, n. 1203). Il notevole sviluppo tecnologico europeo, infatti non è stato prontamente seguito dall`adozione di soluzioni idonee a ridurre la rumorosità dell`ambiente di lavoro; inoltre è andata aumentando progressivamente anche quella dell`ambiente extra-lavorativo, causata dal traffico (automobilistico, ferroviario ed aereo), dall`esercizio di attività produttive nonché dalle varie estrinsecazioni della vita di relazione. Basta pensare che anche alcuni svaghi o passatempi si accompagnano ad elevati livelli di rumorosità (discoteche, caccia, tiro a segno, uso di motociclette, motoscafi ecc.). Occorre poi considerare che i provvedimenti adottati a livello nazionale, per ridurre gli effetti del rumore, devono necessariamente nascere in un`ottica comunitaria, avendo dirette ripercussioni sul funzionamento del mercato comune. Infatti, normative differenti degli Stati membri potrebbero creare ostacoli tecnici agli scambi di impianti o prodotti assoggettati da alcuni di essi a disposizioni antirumore oppure, a causa dei diversi costi, potrebbero far sorgere condizioni di concorrenza tra gli Stati stessi. La CEE ha cominciato ad occuparsi espressamente della problematica del rumore da circa un ventennio. Del resto l`inizio di una vera e propria politica ecologica di carattere organico da parte della Comunità coincide con l`adozione delle specifico “Programma d`azione” per la protezione dell`ambiente, allegato alla “dichiarazione” del Consiglio delle C.E. e dei rappresentanti degli Stati membri del 22 novembre 1973. Tale programma, nel definire obiettivi principi ed azioni della Comunità, individuava come scopo precipuo il miglioramento della “qualità e la scena della vita, l`ambiente e le condizioni di vita dei popoli che ne fanno parte”, al fine di “contribuire a porre l`espansione a servizio dell`uomo”, coordinandola e conciliandola con “la necessità sempre più imperiosa di preservare l`ambiente naturale”. Alla scadenza del menzionato “Programma”, che prevedeva una durata triennale poi prorogata di un anno, il Consiglio ha adottato (risoluzione 17 maggio 1977) un secondo Programma, stavolta quinquennale (1977 – 1981), naturale proseguimento del primo, nel quale particolare e nuovo rilievo assumeva la lotta contro il rumore, sia per motivi di carattere economico, sia per salvaguardare la qualità della vita. Successivamente l`”Atto unico europeo” – ratificato dall`Italia con L. 22 dicembre 1986, n. 909 ed entrato in vigore l`1 luglio 1987 – ha aggiunto tre articoli (130 r, 130 s, 130 t) alla parte III del trattato, inserendo il tema della protezione dell`ambiente a livello di norme fondamentali. Prima degli anni settanta, dunque, la Comunità si è limitata (con due raccomandazioni del 23 luglio 1962 e 20 luglio 1966) a segnalare agli Stati membri il rumore quale causa di ipoacusia o sordità, e quindi di malattia professionale, ed a considerarlo sotto il profilo infortunistico previdenziale e assicurativo, raccomandando di adattare le liste nazionali delle malattie professionali ad una unica lista standard europea, e successivamente di eliminare la “tassatività degli elenchi” di dette malattie professionali. Dal ’70, sensibilizzata dalla problematica della tutela ambientale, la CEE, con numerose direttive, ha cominciato invece – come si è detto – a considerare ex professo il rumore, continuando a seguire tale politica fino ai giorni nostri. Di volta in volta ha, quindi: – stabilito limiti massimi ammissibili di livello sonoro dei veicoli a motore, nonché strumenti, condizioni e metodi per la misurazione di tale livello (direttive nn. 70/157 del 6 febbraio 1970; 70/388 del 27 luglio 1970; 73/350 del 7 novembre 1973; 74/151 del 4 marzo 1974; 77/212 dell`8 marzo 1977; 77/311 del 29 marzo 1977; 78/315; 78/1015 del 23 novembre 1978; 81/334 del 13 aprile 1981; 84/372 del 3 luglio 1984; 84/424; 87/56 del 18 dicembre 1986); – dettato limitazioni alle emissioni sonore degli aeromobili subsonici (direttive n. 80/51 del 20 dicembre 1979, modificata da dir. n. 83/206 del 21 aprile 1983, n. 89/629 del 4 dicembre 1989 e 92/14 del 2 marzo 1992); – determinato quelle delle macchine e dei materiali per cantieri (direttive nn. 79/113 del 19 dicembre 1978; 81/1051 del 7 dicembre 1981; 85/405 dell`11 luglio 1985); – individuato il livello di potenza acustica ammesso per una serie di macchine o attrezzature, quali – ad esempio – motocompressori, martelli demolitori, tosaerba, apparecchi domestici, escavatori, apripista ecc. (direttive nn. 84/533-534-535-536-537-538 del 17 settembre 1984; 85/406-407-408-409 dell`11 luglio 1985; 86/594 dell`1 dicembre 1986; 86/662 del 22 dicembre 1986; 87/405 del 10 giugno 1987; 88/180-181 del 22 marzo 1988; 89/514 del 2 agosto 1989; 95/27 del 29 giugno 1995); – valutato i rischi derivanti dall`esposizione al rumore o ad agenti chimici fisici e biologici durante il lavoro (direttive nn. 80/1107 del 27 novembre 1980; 86/188 del 12 maggio 1986; 383/91 del 25 giugno 1991); – dettato disposizioni concernenti la valutazione dell`impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (direttiva 85/337 del 27 giugno 1985); – fissato un quadro generale per la prevenzione e la riduzione integrate dell`inquinamento, al fine di raggiungere un elevato livello di protezione dell`ambiente nel suo complesso (direttiva 96/61 del 24 settembre 1996). Il legislatore nazionale, dal canto suo, purtroppo non sempre tempestivamente, ha dato attuazione a molte delle indicate direttive CEE in materia di rumore con i DD.MM. 14 giugno 1974; 5 agosto 1974; 5 maggio 1979; 12 gennaio 1982; 30 settembre 1984; 6 dicembre 1984; 28 novembre 1987, n. 588; con quest`ultimo, attinente a ben dodici direttive, subordina l`immissione in commercio di determinate attrezzature “rumorose” al possesso, tra l`altro, della “certificazione CEE”. Recentemente con il D.L.vo 15 agosto 1991, n. 277 si è data finalmente attuazione, tra le altre, alle specifiche direttive dianzi richiamate (n. 80/1107 e n. 86/188), concernenti la protezione dei lavoratori subordinati durante il lavoro. Il detto decreto, sul quale torneremo in seguito, s`inquadra tra i provvedimenti delegati al Governo con la L. 30 luglio 1990, n. 212, per l`attuazione di direttive delle C.E. in materia di sanità e di protezione dei lavoratori. A questo punto appare pertinente ed opportuno un breve cenno all`annoso problema dei rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamenti interni degli Stati membri, con particolare riguardo all`applicabilità immediata di regolamenti e direttive CEE. Per la prevalente dottrina e giurisprudenza, sulla base dell`espresso disposto dell`art. 189 del Trattato CEE, mentre i regolamenti sono atti aventi contenuto normativo generale al pari delle leggi statuali, forniti di efficacia obbligatoria in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, senza necessità di norme interne di adattamento o recezione, le direttive vincolano, invece, solo lo Stato membro cui sono rivolte e limitatamente al risultato da raggiungere, lasciando alla competenza degli organi nazionali la scelta di forma e mezzi di attuazione, per cui richiederebbero in ogni caso atti di adattamento ad hoc (legge, decreto legislativo, decreto legge, atto amministrativo). Una svolta significativa, per una più concreta e tempestiva attuazione degli indirizzi delle C.E., ha rappresentato la costituzione del “Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie” (con L. 16 aprile 1987, n. 183), cui tra l`altro è stato delegato l`adeguamento della normativa nazionale alle direttive comunitarie ed assegnato un fondo di dotazione – con amministrazione autonoma e gestione fuori bilancio – per l`erogazione, a favore delle amministrazioni pubbliche e degli operatori interessati, di finanziamenti e anticipazioni per l`attuazione di programmi di politica comunitaria. La legge istitutiva del menzionato “Dipartimento” ha espressamente disciplinato peraltro, agli artt. 11 e 12, l`efficacia delle raccomandazioni e direttive comunitarie nell`ambito nazionale, distinguendole a seconda che esse riguardino o meno materia regolata con legge o coperta da riserva di legge. Nel primo caso, o qualora comunque ritenga di conformare alla raccomandazione o direttiva l`ordinamento interno con norme di legge, il Governo dovrà predisporre il relativo disegno di legge “nel più breve tempo possibile” (attuazione legislativa). Se, invece, l`atto normativo comunitario riguarda materia non regolata con legge né coperta da riserva di legge, il Governo o le regioni lo attuano direttamente con regolamenti o altri atti amministrativi generali (attuazione amministrativa). È auspicabile che la costituzione di tale Dipartimento possa davvero contribuire in modo determinante a risolvere molti dei problemi connessi alla pronta applicazione del diritto comunitario nel nostro Paese. Di indubbio interesse è stata a tale proposito la L. 29 dicembre 1990, n. 428 (Disposizioni per l`adempimento di obblighi derivanti dall`appartenenza dell`Italia alla Comunità Europea – Legge comunitaria 1990) che ha dettato le regole generali per i procedimenti di attuazione degli obblighi comunitari, conferendo al Governo una delega ad emanare – entro un anno dall`entrata in vigore – una serie di “decreti legislativi” per ottemperare ad altrettante direttive della C.E., nonché ad “attuare in via regolamentare” altre specifiche e diverse direttive. La stessa legge contiene, infatti, disposizioni particolari di adempimento diretto e criteri speciali di delega legislativa in relazione a dodici specifiche materie, tra cui quella della tutela dell`ambiente. In applicazione di essa sono stati emanati il 27 gennaio 1992 quattro decreti legislativi (nn. 134-135-136-137) con i quali si è data attuazione alle citate direttive relative al rumore di particolari macchinari o attrezzature: apparecchi domestici (86/594); escavatori idraulici e a funi, apripista e pale caricatrici (86/662 e 89/514); tosaerba (88/180 e 181); gru a torre (87/405). Di qualche interesse per la materia in questione, sebbene minore rispetto alla citata L. n. 428/1990, sono le successive leggi comunitarie per il 1991 ed il 1993, rispettivamente la L. 19 febbraio 1992, n. 142 e la L. 22 febbraio 1994, n. 146 (Disposizioni per l`adempimento di obblighi derivanti dall`appartenenza dell`Italia alle Comunità europee). Entrambe dedicano un certo spazio alla tutela dell`ambiente, quindi anche al problema dell`inquinamento fonico. Non così la legge comunitaria 1994 (L. 6 febbraio 1996, n. 52), nella quale non figura alcun accenno alla problematica in questione. Nella comunitaria 1995-1997 (L. 24 aprile 1998, n. 128), invece, tra le altre cui dare attuazione attraverso decreti legislativi, particolare attenzione (art. 21) viene riservata alla menzionata direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e riduzione dell`inquinamento. Si segnala infine il D.L.vo 19 settembre 1994, n. 626 con cui è stata data attuazione alle direttive comunitarie 89/391, 89/654-655-656, 90/269-270, 90/394 e 90/679 riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. Tale importante decreto, che reca anche modifiche di una certa portata alle norme del D.P.R. n. 547/1955 e del D.P.R. n. 303/1956, prescrive misure per la tutela di tutti i lavoratori operanti sia nel settore privato che pubblico.
La tutela civilistica
Passando all`analisi del panorama normativo interno, si ritiene opportuno partire dall`esame dell`art. 844 c.c. che, da qualche tempo, viene accreditato da molti studiosi delle maggiori “chances” per realizzare una concreta tutela del diritto alla salute. La cennata norma, infatti, disciplinando le immissioni nel contesto dei rapporti di vicinato tra proprietà fondiarie, contempla espressamente, tra queste, i rumori. E’ opportuno ricordare, comunque, che l`art. 844 c.c. – come è ormai pacificamente riconosciuto – fu voluto dal legislatore del `42 – nell`ottica di industrializzazione in cui si muoveva la società preminentemente agricola di quegli anni – per tutt`altri fini, e cioè come uno strumento destinato alla soluzione dei conflitti tra proprietari di fondi vicini “per le influenze negative derivanti da attività svolte nei rispettivi fondi” (Corte cost. 23 luglio 1974, n. 247), ed è altrettanto chiaro che la norma in esame – proprio perché manifestazione della detta ratio – privilegia la forma della proprietà dinamica e produttiva (e cioè chi effettua l`immissione) rispetto a quella statica (che si limita al godimento del proprio immobile). L`art. 844, partendo dalla considerazione che il proprietario di un fondo non può in assoluto impedire determinate immissioni provenienti dal fondo del vicino, adotta il criterio della “normale tollerabilità” di esse, inteso come limite alla loro liceità. Inoltre la norma prescrive che deve aversi riguardo anche alla “condizione dei luoghi”, introducendo così – come criterio sussidiario – la rilevanza della destinazione di fatto della zona ove si producono le immissioni, con la conseguenza che la “normale tollerabilità” delle stesse è diversa a seconda che la zona sia industriale ovvero rurale o cittadina. Il legislatore del `42, non individuando il livello “normale” delle immissioni sonore, riconosce poi al giudice ampia discrezionalità nell`applicazione dell`art. 844, facendogli carico – ovviamente qualora accerti la oggettiva intollerabilità delle stesse – del contemperamento delle “esigenze della produzione con le ragioni della proprietà” ed autorizzandolo a tener conto della priorità di un determinato uso. La giurisprudenza ha adottato in proposito diversi successivi criteri di valutazione, pervenendo quindi a risultati differenti. Dapprima, accogliendo il criterio “assoluto” – che contempla la semplice rilevazione del rumore (in phon o in decibel) – ha fissato in genere la soglia di “tollerabilità” intorno ai 40-50 phon. Più recentemente, sulla base del criterio “comparativo o relativo”, si è affermata la tendenza ad assumere come punto di riferimento il c.d. rumore di fondo presente in una determinata zona, e a ritenere intollerabili solo quelle immissioni sonore che si aggiungono allo stesso, provocando un altro rumore non inferiore ai 3 decibel. Tale criterio, che è quello attualmente seguito, conduce però a risultati evidentemente iniqui in quanto si finisce col tutelare maggiormente le zone meno inquinate rispetto a quelle ad alta degradazione ambientale, ed inoltre il meccanismo innesca una procedura di progressiva dilatazione dei rumori. Come già si è accennato, sulla base della ratio e della collocazione codicistica della norma, fino a circa venti anni fa, il contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà si è sempre risolto, per concorde interpretazione giurisprudenziale sia di legittimità che di merito, col sacrificio di queste ultime rispetto alle prime, per cui le immissioni, benché eccedenti la normale tollerabilità e quindi dannose, erano consentite ope iudicis tutte le volte che il proibirle avrebbe pregiudicato l`attività produttiva, elevata così a rango di interesse generale della collettività. Al proprietario del fondo limitrofo si riconosceva soltanto il diritto al compenso per il danno conseguente ad un`attività lecita, simile a quello derivante dall`esproprio o dalla costituzione di servitù coattiva. Trionfo, quindi, dell`ideologia economico-produttivistica in auge ai tempi della codificazione, e come tale giustificabile. La situazione descritta non è mutata però, e ciò costituisce – a mio avviso – un fenomeno allarmante, con l`evento della Costituzione che, pur tutelando l`attività produttiva – quale manifestazione dell`iniziativa economica privata – la subordina non solo all`utilità sociale, ma anche alla sicurezza, libertà e dignità umana (art. 41), ed inoltre riconosce la salute come “fondamentale diritto dell`individuo e interesse della collettività” (art. 32). Non richiamo il concetto della “funzione sociale” della proprietà, di cui all`art. 42/2 Cost., non ritenendolo – per quello che ci riguarda – di univoca interpretazione; infatti anche per il legislatore del `42 l`istituto della proprietà era pervaso del “principio di socialità” (v. par. 412 della Relazione preliminare al codice civile) ma, come si è visto, nel nome di esso si giustificavano scelte di tipo eminentemente produttivistico. Neppure l`adozione delle note leggi ecologiche (L. 31 dicembre 1962, n. 1860; L. 13 luglio 1966, n. 615; L. 10 maggio 1976, n. 319 e, da ultimo, la L. 26 ottobre 1995, n. 447), che privilegiano l`interesse alla preservazione dell`ambiente rispetto a quello della produzione, sembra aver inciso in maniera determinante sull`interpretazione dell`art. 844 c.c. Infatti la giurisprudenza di legittimità, in ciò sorretta dall`orientamento della Corte costituzionale, non ha ancora mutato indirizzo e continua a fornire un`interpretazione tradizionale e restrittiva dell`articolo in esame, ritenendo che il criterio della normale tollerabilità a quello del contemperamento con le esigenze della produzione siano utilizzabili unicamente a tutela del diritto di proprietà e non del diritto all`integrità dell`ambiente e quindi alla salute, la cui protezione sarebbe invece affidata dall`ordinamento a norme diverse dall`art. 844, quali ad esempio l`art. 2043 c.c., il Testo Unico Leggi Sanitarie (R.D. 27 luglio 1934, n. 1265), o le citate leggi ecologiche. Questo orientamento è tuttora seguito da una parte della dottrina che, pur ammettendo l`assoluta inidoneità del rimedio risarcitorio a tutela del diritto alla salute, concorda nel ritenere non percorribile tecnicamente a tali fini la strada dell`art. 844. A fronte di questa anelastica posizione soprattutto dei giudici della Cassazione e della Consulta, deve però segnalarsi – dagli anni settanta in poi – una nouvelle vague interpretativa, seguita oltre che da buona parte della dottrina, anche dalla prevalente giurisprudenza di merito. Decisivo contributo a questa tendenza hanno apportato i guidici di Vigevano, tanto da far parlare di una “via vigevanese” alla tutela della salute dei cittadini nei confronti del rumore. Difatti, con una serie di decisioni, pretore e tribunale della città lombarda hanno in sostanza coraggiosamente affermato che, nell`operazione di comparazione e contemperamento degli interessi, delegata dal legislatore al giudice con l`art. 844, secondo comma, la salute, intesa quale bene primario dell`individuo, non può essere posta sullo stesso piano della produzione, anche perché l`incremento di questa sarebbe inutile se dovesse determinare il peggioramento o la perdita del bene supremo, irrinunciabile e non monetizzabile, della salute da parte dei cittadini. In definitiva, la salute non può formare oggetto di inammissibili comparazioni, per cui le ragioni dello sviluppo industriale e finanche quelle dell`occupazione devono essere sacrificate ad essa, dovendosi ritenere incondizionata ed assoluta la sua posizione di preminenza nell`ordinamento. Coerentemente con tale impostazione, i predetti giudici e gli altri dello stesso orientamento hanno dovuto affrontare e cercare di superare gli ostacoli “tecnici” a tale interpretazione, annidati nella norma in esame, quali i concetti di “vicinanza” e di “proprietà”, e così hanno affermato che la vicinanza dei fondi, nell`art. 844, va intesa in senso lato, con riferimento ai fondi che in concreto possono essere danneggiati, anche se non contigui o limitrofi, e che – nell`ottica di un art. 844 garante del diritto alla salute – si deve prescindere dalla tradizionale nozione di proprietà, considerando quindi legittimati ad agire anche soggetti non titolari di alcun diritto di proprietà sui fondi vicini. Altrimenti la norma contrasterebbe quantomeno con l`art. 3 Cost., violando il principio di uguaglianza dei cittadini colpiti dalle immissioni intollerabili, giacché sarebbero legittimati ad agire solo i proprietari dei fondi limitrofi e non gli altri. Inoltre si è iniziato a riconoscere – ma stavolta per merito anche dei giudici di legittimità – la risarcibilità del danno (definito “biologico”) che deriva dalla violazione del diritto alla salute (intesa non solo come integrità fisica, ma anche come benessere psichico e comprendente altresì la qualità della vita ed i valori della persona), danno consistente nella lesione dell`integrità psico-fisica in sé considerata, senza tener conto cioè della sua incidenza sulla capacità di produrre reddito ed indipendentemente dall`ammontare di questo. Per quanto concerne, poi, la prova di questo danno “biologico”, si è affermato che – in presenza di immissioni che superano abbondantemente il limite di tollerabilità – lo stesso può addirittura presumersi in assenza di specifici elementi probatori. Relativamente alla sua monetizzazione, il danno viene generalmente liquidato attraverso il criterio equitativo, assecondando un indirizzo ormai costante nella giurisprudenza di legittimità e di merito. In definitiva, questo orientamento tendente a disancorare l`art. 844 dalla sua originaria ratio e dalla collocazione codicistica, propone una rilettura della norma, alla luce dei valori costituzionali e di quelli accolti dall`ordinamento nel suo complesso, e quindi un`interpretazione integratrice di essa, riconoscendole così un ruolo importante nella strategia di tutela civilistica della salute. In questa direzione si muovono peraltro tutte quelle decisioni di merito che, ritenendo legittimo il ricorso all`azione inibitoria prevista dall`art. 700 c.p.c., considerano l`art. 844 anche come specifico mezzo di tutela preventiva del diritto alla salute.
Tale giurisprudenza infatti esclude – come si è già detto – la possibilità di contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà tutte le volte che le immissioni superino la normale tollerabilità. In definitiva è la salute dell`uomo che finisce con l`essere l`unico criterio per decidere della tollerabilità o meno di una immissione rumorosa.
Importante ed ulteriore conseguenza pratica dell`impostazione sopra indicata è che il risarcimento del danno viene a perdere quella connotazione indennizzatoria proiettata essenzialmente verso il pregiudizio futuro (essendo escluso – per il futuro – qualsiasi patteggiamento riguardante il diritto alla salute), e assume invece rilevanza solo per il passato, e cioè per il periodo delle subite immissioni.
Questa interpretazione evolutiva dell`art. 844 c.c. non è però l`unica strada percorribile per assicurare una tutela civilistica del diritto alla salute.
Non può ignorarsi infatti che alcuni autori, in genere quelli che sostengono l`assoluta inidoneità strutturale e funzionale dell`art. 844 a salvaguardare il menzionato diritto, sulla base della più autorevole giurisprudenza di legittimità, ritengono che la protezione del diritto alla salute possa essere autonomamente e direttamente invocata in giudizio, ricorrendo all`art. 32, secondo comma, Cost., norma da considerarsi precettiva e non programmatica, e quindi tale da attribuire all`individuo un vero e proprio diritto soggettivo – come si è già detto – immediatamente operativo nei rapporti interprivati, oltre che in quelli cittadini – Stato, non necessitante pertanto di alcuna mediazione se non da parte dell`operatore del diritto.
Comunque, sia facendo ricorso l`interprete ad una forma di costituzionalizzazione del diritto privato, sia reputando direttamente applicabile – nelle relazioni intersoggettive private – l`art. 32 Cost., può ritenersi oggi sufficientemente garantita nel nostro ordinamento la tutela civilistica del diritto alla salute, anche se si avverte l`esigenza di un intervento legislativo ad hoc, che dia corpo ad una puntuale e specifica tutela di natura preventiva.
Per completare il quadro degli strumenti civilistici utilizzabili dall`operatore al fine di una concreta difesa dal rumore, è d`uopo un accenno agli artt. 1170, 1172, 2043, 2087 c.c. Più volte, infatti, è stato affermato che il perdurare di immissioni sonore eccedenti la normale tollerabilità può costituire “molestia nel possesso di un immobile”, tutelabile – ove ricorrano le condizioni previste dalla norma – con l`azione di manutenzione (art. 1170) e talvolta, quando dalle immissioni si tema un danno grave e prossimo al bene posseduto, anche con la denuncia di danno temuto (art. 1172).
Dell`art. 2043 già si è detto, seppure incidentalmente. La norma – che disciplina il risarcimento del danno “ingiusto” cagionato da fatto illecito – offre un rimedio, forse accattivante sotto il profilo economico (con tutte le riserve già fatte sulla “commerciabilità” della salute umana), ma certamente insufficiente ad assicurare la tutela del diritto alla salute, posto che implica – oltre tutto – una non facile indagine sull`elemento psicologico del “produttore”.
Infine l`art. 2087 – che impone al datore di lavoro di eliminare qualsiasi tipo di minaccia all`integrità fisica e morale dei lavoratori (e quindi anche quella rappresentata da rumori eccedenti la normale tollerabilità) – ha un campo d`azione più limitato e specifico, riferendosi esclusivamente agli ambienti di lavoro, dunque alle situazioni originate da un rapporto di lavoro subordinato e riguardanti i soggetti di tale rapporto.
La norma riconosce a ciascun lavoratore un diritto “individuale” alla salubrità dell`ambiente in cui opera, direttamente azionabile nei confronti del datore di lavoro (anche attraverso i provvedimenti di urgenza ex art. 700 c.p.c.) ed un correlativo obbligo di adempimento di questi.
Altro efficace mezzo di controllo dell`attività imprenditoriale – sotto il profilo che qui interessa – devoluto però alla collettività dei lavoratori, e non a ciascuno di essi singolarmente, è quello introdotto dall`art. 9, L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori).
La situazione è, peraltro, decisamente mutata, prima a seguito dell`emanazione del menzionato D.P.C.M. 1 marzo 1991, che ha stabilito i limiti massimi di esposizione al rumore, anche se limitatamente agli ambienti abitativi e – con diverse esclusioni – all`ambiente esterno, e, successivamente alla tanto sospirata legge quadro sull`inquinamento acustico (n. 447/1995), con l`emanazione del D.P.C.M. 14 novembre 1997 che, in parte abrogando il precedente, determina i valori limite delle sorgenti sonore in genere, con la sola eccezione delle infrastrutture dei trasporti (stradali, ferroviarie, marittime, aeroportuali) all`interno delle rispettive fasce di pertinenza, nonché con l`emanazione dei due D.P.C.M. 18 settembre 1997 e 5 dicembre 1997, che individuano rispettivamente i requisiti delle sorgenti sonore nei luoghi di intrattenimento danzante ed i requisiti acustici passivi degli edifici.
Dopo oltre dodici anni dalla delega contenuta nella legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (art. 4 u.c. 833/78) e dopo circa cinque anni dalla specifica previsione della legge istitutiva del Ministero dell`ambiente (art. 2, comma 14, L. n. 349 del 1986), si è così finalmente ripreso l`importante cammino della difesa dal rumore, seppure con fonti normative secondarie, quali devono ritenersi i detti decreti. Il primo di questi, innanzitutto, fa carico ai Comuni di individuare, nell`ambito del proprio territorio, sei distinte zone (aree particolarmente protette; aree destinate ad uso prevalentemente residenziale; aree di tipo misto; aree di intensa attività umana; aree prevalentemente industriali; aree esclusivamente industriali) e stabilisce per ciascuna di esse dei limiti massimi del livello sonoro – per il giorno e la notte – in considerazione della loro diversa destinazione d`uso (criterio assoluto). Inoltre, per le aree non esclusivamente industriali, impone che anche la differenza tra “rumore ambientale” e quello “residuo” non superi un determinato livello (criterio differenziale).
In attesa della disciplina definitiva, che ovviamente presupponeva l`emanazione della menzionata legge-quadro, il D.P.C.M. del 1991 prevedeva una disciplina provvisoria, sempre “a doppio vincolo”, e cioè contemplando un limite assoluto ed uno differenziale; quest`ultimo, identico a quello previsto per il regime definitivo (5 decibel A diurni e notturni), mentre il primo molto più blando.
Alla detta disciplina provvisoria fa riferimento anche il recente D.P.C.M. 14 novembre 1997, “in attesa che i Comuni provvedano agli adempimenti previsti dall`art. 6, comma 1, lettera a), della legge 26 ottobre 1995, n. 447” (zonizzazione del territorio).
Detto decreto, tenendo conto della distinzione operata dall`art. 2 dalla menzionata legge-quadro, individua specificatamente: i valori limite di emissione (con riferimento alle sorgenti fisse ed alle sorgenti mobili), quelli di immissione (sia assoluti che differenziali), i valori di attenzione e quelli di qualità.
Per quanto concerne il D.P.C.M. 1 marzo 1991 – espressamente abrogato dal successivo D.P.C.M. del `97 solo con riferimento ai commi 1 e 3 dell`art. 1 – è opportuno tener presente, inoltre, che ben tre dei complessivi sei articoli (il terzo parzialmente, il quarto ed il quinto integralmente) sono stati dichiarati incostituzionali con sentenza n. 517 del 30 dicembre 1991, contestandosi il potere del Governo, in mancanza di idonea copertura legislativa, di adottare – con lo strumento del D.P.C.M. – disposizioni di organizzazione ed indirizzo per le regioni in materia di piani regionali di bonifica dell`inquinamento acustico e di piani comunali di risanamento, nonché di fissare termini, per l`esame e l`approvazione dei piani di risanamento delle imprese, ed oneri, per le imprese richiedenti la concessione edilizia per la costruzione di nuovi impianti industriali.
Trattandosi, infatti, di una disciplina che interferisce sull`autonomia regionale e comunale, le relative prescrizioni possono essere validamente disposte soltanto con un atto legislativo o, comunque, con un atto amministrativo adottato sulla base di una legge.
Il maggior limite del D.P.C.M. era certamente quello di subordinare il regime definitivo alla zonizzazione delegata ai Comuni, senza però prevedere alcun termine per tale incombenza né la possibilità per l`autorità centrale di sostituirsi a quella locale in caso di inerzia della stessa. Pertanto la durata del regime provvisorio dipende sostanzialmente dalla volontà ed efficienza dei singoli Comuni con l`inevitabile conseguenza di una difformità di standards sul territorio nazionale, in aperto contrasto con una delle finalità della L. n. 833/1978 (art. 4), quella di assicurare condizioni e garanzie di salute uniformi nell`ambito del predetto territorio.
Questo inconveniente non sembra essere stato eliminato neppure dalla legge-quadro n. 447/1995, quantunque – all`art. 4 – essa abbia imposto alle Regioni di provvedere, entro un anno dalla sua entrata in vigore, a definire con legge “modalità, scadenze e sanzioni per l`obbligo di classificazione delle zone” da parte dei Comuni, se il D.P.C.M. del `97 ha dovuto prevedere – come si è detto – una disciplina provvisoria in attesa dell`adempimento del menzionato obbligo.
I “rimedi“ di carattere penale
Nel nostro ordinamento la tutela penale contro il rumore è attuabile principalmente attraverso l`art. 659 c.p., collocato tra le contravvenzioni lesive dell`ordine pubblico e la tranquillità pubblica, intesa quest`ultima come particolare aspetto del primo.
La sistemazione codicistica rivela, quindi, pure per quanto riguarda questa norma (come già si è visto per l`art. 844 c.c.) che la voluntas legis non era apertamente diretta alla tutela della salute dei cittadini, anche se, in concreto, garantendo la pubblica tranquillità, ed in particolare la quiete pubblica in essa compresa, si finisce col salvaguardare mediatamente il bene salute.
La pubblica quiete – definita dal MANZINI “elemento essenziale d`ogni ordinamento civile, nel quale la libertà individuale non può essere illimitata e devono venir garantite le condizioni necessarie perché la convivenza si svolga in modo soddisfacente per la popolazione” – è, dunque, l`interesse direttamente protetto dalla norma in esame, e la sua offesa si concreta nel disturbo arrecato alle persone, considerate non individualmente ma come collettività. La concreta determinazione del concetto di disturbo è stata lasciata dal legislatore alla discrezionalità del giudice. L`orientamento giurisprudenziale prevalente è, comunque, nel senso di ravvisarlo non in qualsiasi azione fastidiosa, ma soltanto allorquando si realizzi una sensibile alterazione della normale condizione di quiete.
Non è necessario, peraltro, che il disturbo sia arrecato ad un elevato numero di persone, ma semplicemente ad un numero indeterminato di esse.
L`art. 659 prevede due distinte ipotesi contravvenzionali, entrambe quindi di competenza pretorile, procedibili di ufficio ed ascrivibili all`agente indifferentemente a titolo di dolo o colpa: la prima (primo comma) punisce il disturbo della pubblica quiete (occupazione o riposo delle persone, spettacoli ritrovi o trattenimenti pubblici) cagionato con modalità espressamente e tassativamente indicate; la seconda (secondo comma), che configura – come si è detto – un titolo autonomo di reato e non una circostanza di quello previsto al primo comma, punisce le attività rumorose (professioni o mestieri) esercitate “contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell`autorità”, tra le quali rientrano, secondo l`unanime dottrina e giurisprudenza, anche le attività lavorative organizzate in forma industriale.
In definitiva si può affermare che la prima mira ad impedire i rumori ingiustificati e comunque evitabili, la seconda a colpire quelle attività lavorative, per loro natura rumorose, tutte le volte che non siano effettuate nel rispetto della normativa che le disciplina.
Le differenze tra le due contravvenzioni sono notevoli, talché desta qualche perplessità la loro riunione sotto il medesimo nomen iuris.
Innanzi tutto la prima può essere commessa da “chiunque” (reato comune), mentre la seconda soltanto da chi esercita una professione o un mestiere rumoroso (reato proprio); poi, l`evento, consistente nel disturbo della quiete pubblica, nella prima deve effettivamente verificarsi, nel senso che quantomeno occorre accertare in concreto una effettiva attitudine delle emissioni rumorose a disturbare un numero indeterminato di persone (reato di pericolo concreto), mentre nella seconda si presume senza possibilità di prova contraria (iuris et de iure) dall`illegittimo o irregolare esercizio dell`attività rumorosa (reato di pericolo presunto).
La contravvenzione prevista dal comma secondo è generalmente inquadrata, dunque, tra i reati formali o di mera condotta in quanto solo questa andrebbe presa in considerazione, ai fini della sussistenza di esso, non dovendosi accertare se l`esercizio dell`attività abbia arrecato effettivo disturbo, ma soltanto se sia stato attuato contro una disposizione di legge o un comando dell`autorità.
Per quanto riguarda l`effettiva rumorosità dell`attività lavorativa, si segnala in dottrina e giurisprudenza un vivo contrasto, almeno fino all`emanazione del D.P.C.M. 1 marzo 1991 tra chi difende l`insindacabilità delle scelte della P.A. da parte del giudice ordinario, e chi, invece, afferma la possibilità di quest`ultimo di valutare autonomamente la detta rumorosità senza che ciò realizzi sconfinamento nel campo riservato alla P.A. In questa direzione è stato osservato (Cass., sez. I, 9 aprile 1985, Ghidini) che “spetta all`autorità comunale regolare le modalità di esercizio delle professioni o mestieri rumorosi, ma il presupposto di tale disciplina – rumore eccedente la normale tollerabilità secondo l`accezione dell`art. 844 c.c. – rientra nella competenza del giudice, il quale può anche disapplicare l`atto amministrativo illegittimo, pronunziando conseguentemente sulla penale responsabilità dell`imputato”.
Questo indirizzo, che pare determinato da un apprezzabile scrupolo di valutare le singole attività in concreto per la loro effettiva rumorosità, prescindendo cioè dall`inquadramento di esse operato in via generale ed astratta dagli organi della P.A., suscita però notevoli perplessità quando si scende sul campo attuativo, giacché un`indagine del genere rischia in pratica sovente di ledere il principio della separazione dei poteri. Infatti le scelte della P.A., nel considerare una determinata attività rumorosa, contemperano (o dovrebbero farlo), svariati interessi – che vanno dalle esigenze produttive, economiche, turistiche locali alla particolare utilità che può derivare ad una collettività dall`esercizio di una specifica attività lavorativa – e sono espressione di quella “opportunità amministrativa”, insindacabile da parte del giudice ordinario.
Si verifica però spesso che i regolamenti comunali e le ordinanze del sindaco si limitano a circoscrivere nel tempo le attività rumorose, senza indicarle analiticamente. In casi del genere, trattandosi evidentemente di una omissione degli organi della P.A. e non di una loro meditata scelta, riteniamo possa sostenersi l`opportunità e la legittimità di un`indagine del giudice circa il carattere rumoroso o meno dell`attività esercitata, al fine di accertare la sussistenza della contravvenzione.
Sarebbe però auspicabile (pur ravvisandosene le concrete difficoltà) che il magistrato, nella suddetta valutazione, non rimanesse ancorato al criterio semplicistico di considerare rumorose tutte quelle attività idonee a molestare il “senso auditivo dei terzi” (secondo l`insegnamento della Suprema Corte), ma tenesse conto di quel complesso di interessi (diritto al lavoro, esigenze della produzione, vantaggi per l`economia, utilità per i consociati ecc.) alla cui tutela deve essere improntata l`azione della P.A.; altrimenti fattispecie simili finirebbero con l`essere regolate diversamente a seconda che la valutazione sulla rumorosità sia effettuata da organi amministrativi o, in via sostitutiva, dal giudice ordinario.
Questa diatriba non dovrebbe avere più giustificazione con l`introduzione nel nostro ordinamento – da parte del menzionato D.P.C.M. del `91 e di quelli emanati nel `97 in attuazione della legge-quadro sull`inquinamento acustico – degli standars massimi di tollerabilità delle emissioni sonore, avendo detto decreto operato, in via generale ed astratta, quel contemperamento dei diversi interessi confliggenti precedentemente devoluto alle Autorità locali o al giudice.
Pacificamente si ritiene, poi, che la contravvenzione di cui al cpv. dell`art. 659 sia da inquadrare nella categoria delle c.d. norme penali in bianco, in quanto incompleta o imperfetta, contenendo unicamente la sanzione e non il precetto, per il quale occorre far riferimento ad altre disposizioni di legge o a provvedimenti amministrativi.
Logica conseguenza è che, in assenza di specifici divieti relativi ad una determinata attività rumorosa (integranti appunto il precetto della suddetta norma penale), non si possa applicare la prevista sanzione, e quindi il reato non sussiste; l`esercizio dell`attività rumorosa, quantunque cagioni un effettivo disturbo per la pubblica quiete, deve, infatti, ritenersi legittimo in applicazione del fondamentale principio della libertà del lavoro, fatta salva comunque la tutela civilistica di cui si è parlato prima. Ovviamente, qualora l`esercente produca rumori estranei all`attività, o volutamente sproporzionati rispetto all`esercizio normale o consuetudinario di essa, dovrà rispondere del reato di cui al primo comma dell`articolo in esame che, come si è detto, può essere commesso da “chiunque”, quindi anche da lui.
A questo proposito è opportuno ricordare che la menzionata contravvenzione deve ritenersi sussistente non solo quando nell`ambito di un`attività lavorativa siano prodotti rumori estranei o comunque esorbitanti dalla stessa, ma anche quando siano causati rumori inerenti all`attività, che però siano eliminabili col ricorso ad opportuni accorgimenti tecnici, elaborati dalla più progredita scienza.
Come si diceva, il precetto della norma di cui al cpv. dell`art. 659 c.p. deve ricercarsi altrove, in “disposizioni di legge” o “prescrizioni dell`Autorità”.
Tra le prime non può annoverarsi, secondo l`insegnamento della Suprema Corte, l`art. 844 c.c., ma certamente rientrano i precetti dettati dal T.U. delle leggi sanitarie (R.D. 27 luglio 1934, n. 1265) con gli artt. 216, 217 e 218, in quanto la categoria delle industrie insalubri comprende senza dubbio quelle rumorose.
Tra le “prescrizioni dell`Autorità” sono stati sempre posti in prima linea i regolamenti comunali e le ordinanze del sindaco. Infatti il Regolamento di attuazione della legge comunale e provinciale del 1908 (R.D. 12 febbraio 1911, n. 297), indicava all`art. 109 (n. 10), tra le materie la cui disciplina veniva delegata ai comuni attraverso i regolamenti di polizia urbana, “l`esercizio delle professioni e dei mestieri rumorosi” inoltre, l`art. 66 del T.U. leggi di pubblica sicurezza (R.D. 19 giugno 1931, n. 733) sanciva che l`esercizio delle dette attività doveva “essere sospeso nelle ore determinate dai regolamenti locali o dalle ordinanze del sindaco”.
Senonché entrambe le dette norme sono state recentemente abrogate: la prima dalla L. 8 giugno 1990, n. 142 (art. 64, lett. a); la seconda dal D.L.vo 13 luglio 1994, n. 480 (art. 13).
Di certo, invece, rientra a pieno titolo tra “le prescrizioni dell`Autorità”, che integrano il precetto dell`art. 659 cpv. in questione, il D.P.C.M. 1 marzo 1991, sia che lo si consideri regolamento generale, sia che lo si ritenga atto generale della P.A., per cui la violazione delle sue disposizioni deve intendersi sanzionata con l`ammenda prevista dalla suddetta norma codicistica.
Per quanto concerne, invece, la contravvenzione di cui al primo comma dell`art. 659, le prescrizioni del D.P.C.M. costituiscono soltanto un utile parametro di riferimento, potendosi configurare disturbo della pubblica quiete anche nell`ipotesi di emissioni rumorose contenute nei limiti di accettabilità del decreto.
Tra le contravvenzioni previste dall`art. 659 è ipotizzabile, peraltro, il concorso, ad esempio quando l`attività rumorosa venga effettuata fuori dagli orari consentiti e con produzione di rumori non inerenti o necessari al suo svolgimento.
La norma in esame, per quanto concerne il regime sanzionatorio, prevede la pena alternativa (arresto fino a tre mesi o ammenda fino a lire 600.000) relativamente alla contravvenzione del primo comma, mentre la sola pena pecuniaria (ammenda da lire 200.000 a lire 1.000.000) per quella prevista dal capoverso. Entrambe le ipotesi di reato sono, quindi, estinguibili per oblazione: la seconda, per effetto di quella “comune” (art. 162 c.p.), che prevede il pagamento di un terzo del massimo della pena edittale (cioè lire 333.333) prima dell`apertura del dibattimento o dell`emissione del decreto penale di condanna; l`altra, invece, per effetto della c.d. oblazione “speciale” (art. 162 bis, c.p.), con il pagamento – entro il medesimo termine – della metà del massimo dell`ammenda (cioè lire 300.000).
Com`è noto, la differenza saliente tra le due forme di oblazione non è però da individuare tanto nella misura della somma da pagare da parte del contravventore, quanto nella “discrezionalità” o meno del giudice di consentirla. Infatti, contrariamente all`altra, l`oblazione c.d. speciale può non essere ammessa dal pretore, avuto riguardo alla gravità del fatto, alla personalità dell`imputato, o quando questi – pur avendone la possibilità – non abbia eliminato gli effetti dannosi o pericolosi del reato.
Il diverso regime sanzionatorio delle due contravvenzioni suddette, e le conseguenze pratiche da esso derivanti, danno la misura della differente valutazione – da parte del legislatore del`31 – della loro gravità, i cui effetti tuttora permangono nel nostro ordinamento.
Qualcuno, a tal proposito, ha ipotizzato de iure condendo l`unificazione delle due fattispecie incriminatrici ed il riconoscimento di rilevanza penale solo a quella fenomenologia rumorosa idonea a pregiudicare le condizioni psico-fisiche di più persone.
E’ importante evidenziare che la legge-quadro sul rumore (n. 477/1995), ripetutamente richiamata, mette ora in discussione la sussistenza stessa del reato di cui al secondo comma dell`art. 659 c.p., in quanto l`art. 10, comma 2, commina la semplice sanzione amministrativa per “chiunque nell`esercizio o nell`impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, superi i valori limite di emissione o di immissione”. Tale norma – peraltro di contenuto più ampio della prima, riferendosi a “chiunque” e non solo a chi eserciti professioni o mestieri per loro natura fonti di rumore – avrebbe depenalizzato, in forza del principio di specialità di cui all`art. 9, L. n. 689/1981, la previsione codicistica. In tal senso è il prevalente orientamento della Corte Suprema di cassazione (sez. I, 21 gennaio 1997, n. 2359, Marasco Petromilli; 19 giugno 1997, n. 4199, Sansalone; 10 novembre 1997, n. 11113, Antonazzo; 26 marzo 1998, n. 1789, Girolimetti). Contrasta con tale orientamento una isolata decisione della stessa I sezione (29 novembre 1996, n. 2646, P.M. in proc. Giacomelli), che esclude detta depenalizzazione. Secondo altre sentenze (sez. I, 4 luglio 1997, n. 8589, Vita; 3 marzo 1998, n. 1295, Herpel), la norma della L. n. 447/1995 non può considerarsi abrogatrice in toto dell`art. 659, comma 2, c.p., che conseva comunque un ambito di applicazione più ristretto, comprendendo ogni violazione diversa da quella riguardante la regolamentazione dell`inquinamento acustico.
Un`altra norma della legge-quadro suddetta (art. 9) prevede, poi, la possibilità di emanare “ordinanze contingibili e urgenti” – da parte di sindaco, presidente della provincia, presidente della giunta regionale, prefetto, Ministro dell`ambiente, Presidente del Consiglio dei Ministri – al fine di contenere o abbattere emissioni sonore, anche ricorrendo all`inibitoria parziale o totale di determinate attività. In caso di inottemperanza ad ordinanze del genere, evidentemente, potrà configurarsi, ove ne ricorrano le condizioni, la contravvenzione di cui all`art. 650 c.p.
Ulteriori disposizioni del codice penale in qualche modo utilizzabili per combattere il fenomeno rumore, seppure non specificamente destinate a tale scopo, sono gli artt. 437, 451, 590, sul pacifico presupposto che da un`attività lavorativa rumorosa possono derivare lesioni personali di varia portata agli “addetti ai lavori”.
Le prime due norme – che trovano collocazione codicistica tra i delitti contro l`incolumità pubblica – riguardano le ipotesi, rispettivamente dolosa e colposa, di rimozione od omissione di cautele o difese contro gli infortuni sul lavoro, con la differenza che la prima è finalizzata a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, mentre la seconda semplicemente a minimizzare i danni derivanti da un evento già verificatosi.
I detti reati, tutelando l`incolumità pubblica nell`ambiente di lavoro, sussistono solo quando il pericolo di infortuni minacci non singoli lavoratori ma un numero indeterminato di essi, anche se settorialmente delimitato. Infine deve segnalarsi che parte di dottrina e giurisprudenza, ancorandosi alla lettera della legge, non ritiene applicabili le due norme in questione alle malattie professionali, giacché queste non rientrerebbero nella categoria degli infortuni sul lavoro.
L`art. 590 c.p. contempla, invece, il reato di lesioni personali colpose.
Esso ricorre – per quanto concerne la nostra problematica – tutte le volte che al datore di lavoro (dirigente o preposto) sia addebitabile – per negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline – una malattia professionale collegabile al rumore, riportata da un dipendente. Generalmente si tratta di ipoacusia o sordità, ma il reato può ipotizzarsi anche in relazione alla lesione di altri organi o funzioni, compromessi da un ambiente lavorativo particolarmente rumoroso.
Non sempre però è agevole stabilire la responsabilità dell`imputato in ordine al reato in questione, essendo delicato e problematico l`accertamento in concreto del nesso causale tra l`attività lavorativa rumorosa ed in particolare il danno auditivo, in quanto nella produzione della morbilità confluiscono sovente altre concause (ad esempio precedenti esposizioni in altri ambienti di lavoro, fattori extraprofessionali, socioacusia, ecc.).
Tra gli specifici rimedi penali contro il rumore, posti da leggi speciali, devono menzionarsi gli artt. 19 e 24 del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l`igiene del lavoro).
Con la prima si prescrive, infatti, il maggior isolamento possibile per le lavorazioni insalubri, tra cui rientrano quelle rumorose; con la seconda si impone ai datori di lavoro di adottare – anche nelle lavorazioni rumorose – gli accorgimenti suggeriti dal progresso tecnologico per attenuarne le conseguenze dannose.
Entrambi i precetti sono sanzionati dal successivo art. 58, lett. b), con l`ammenda da lire 500.000 a lire 1.000.000, configurandosi così due tipiche ipotesi contravvenzionali, la cui portata ovviamente è limitata alla tutela dal rumore negli ambienti di lavoro (sia a favore dei lavoratori che dei terzi estranei in essi occasionalmente presenti).
Il citato art. 24 è stato, negli ultimi tempi, ripetutamente tracciato di incostituzionalità, e denunciato alla Consulta da giudici di merito, per pretesa violazione sia del principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.) sia di quello di uguaglianza (art. 3 Cost). Infatti, dalla mancata previsione nel nostro ordinamento dei limiti massimi di tollerabilità dei rumori negli ambienti di lavoro, discenderebbe – ad avviso dei giudici rimettenti – sotto il primo profilo, l`impossibilità per gli imputati, che non conoscono i limiti di accettabilità, di adeguare la propria condotta alla volontà della legge, e, sotto il secondo profilo, una “posizione deteriore” dei giudicabili rispetto a coloro che, invece, possono esattamente conoscere la chiara e precisa volontà delle disposizioni normative. In definitiva è stata evidenziata l`impossibilità per il cittadino, destinatario della norma, di desumere da essa una precisa regola di condotta, nonché quella di supplire alla detta omissione del legislatore, ad opera del giudice, senza incorrere nella violazione degli artt. 70 e 101 Cost.
Si ricorda incidentalmente, a tal proposito, che la fissazione (e la revisione periodica) dei limiti massimi di accettabilità delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro – delegata dalla legge istitutiva del Servizio sanitario (L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 4, u.c.) al Presidente del Consiglio – non è stata finora effettuata, se non indirettamente, con il citato recente D.L.vo n. 277 del 1991 (artt. 38-49). Così pure non è stato ancora emanato il testo unico in materia di sicurezza del lavoro da parte del Governo, che avrebbe dovuto provvedervi entro il 31 dicembre 1979, ai sensi dell`art. 24/I della medesima legge.
Tornando all`art. 24 del D.P.R. n. 303/1956, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 475 del 20-27 aprile 1988, ha confermato la legittimità della norma, rilevando che la stessa non può considerarsi “in bianco” giacché “delibera compiutamente” il precetto, pur rimandando ai suggerimenti della tecnica, da intendersi quali “elementi normativi della fattispecie”. Inoltre, la decisione richiama il D.P.R. 5 maggio 1975, n. 146 che, seppure ad altri fini, individua – come pregiudizievole alla salute – l`esposizione a rumori superiori a 95 decibel in luogo aperto o ad 85 decibel in luogo chiuso, per sottolineare che il nostro ordinamento giuridico non è, al postutto, completamente privo di indicazioni in materia, tanto da consentire al giudice di “orientare il suo giudizio ed esprimere il suo prudente apprezzamento, sia pure con l`ausilio di consulenza o perizia”, ed all`imprenditore di adottare gli accorgimenti del caso.
Meritano un richiamo, infine, le contravvenzioni previste dagli artt. 374 e 377 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), che impongono al datore di lavoro rispettivamente di mantenere in buono stato di conservazione ed efficienza impianti, macchine, apparecchi ecc. e di “mettere a disposizione dei lavoratori mezzi personali di protezione appropriati ai rischi inerenti alle operazioni effettuate, qualora manchino o siano insufficienti mezzi tecnici di protezione”.
Il menzionato art. 24 del D.P.R. n. 305/1956, come pure gli artt. 4 e 5 dello stesso decreto, sono stati però espressamente abrogati (limitatamente al danno uditivo il primo, ed all`esposizione al rumore gli altri) dall`art. 56, lett. c) del D.L.vo n. 277/1991.
Ne discende che la contravvenzione prevista dall`art. 24 resta ancora in vigore non solo per le lavorazioni che producono scuotimenti e vibrazioni, ma anche – relativamente al rumore – per i danni provocati ad organi diversi da quello dell`udito.
Il successore, comunque, della citata norma è l`art. 41 del D.L.vo n. 277/1991 che impone (sanzionando l`inosservanza con l`ammenda da lire 15.000.000 a lire 50.000.000) al datore di lavoro di ridurre al minimo “in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dall`esposizione al rumore mediante misure tecniche organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte”. Tale norma ha destato notevoli perplessità proprio per l`inciso “concretamente attuabili”, tanto da far definire “decreto antisicurezza” il provvedimento in questione, che segna un deciso passo indietro sotto il profilo della tutela del lavoratore. E’ stato, infatti, osservato che, mentre l`art. 24, D.P.R. n. 303/56 si proponeva di diminuire l`intensità del rumore, l`art. 41 in esame è soltanto finalizzato a minimizzare i rischi da esposizione allo stesso, pur privilegiando gli interventi alla fonte, per cui il minimo rischio è considerato in termini relativi e non assoluti. Pertanto, alla luce della nuova normativa, è da ritenersi superato il rigoroso indirizzo giurisprudenziale affermatosi in precedenza secondo cui l`impossibilità materiale di adottare misure idonee a ridurre oltre un certo limite l`intensità del rumore non può che portare a rinunciare alla lavorazione pericolosa.
Si segnala, però, in proposito una recente e confortante decisione della Suprema Corte (Cass. pen., sez. III, 17 febbraio 1995, n. 3437), secondo cui, quando la legge parla di “concreta attualità”, non intende riferirsi al parametro dei costi effettivi che l`azienda dovrebbe sostenere, bensì a quello delle conoscenze tecnico-scientifiche raggiunte, in funzione della primaria tutela della salute del lavoratore.
Il decreto n. 277 pone poi una serie di obblighi (concernenti la formazione e l`informazione dei dipendenti, la protezione degli stessi, i controlli sanitari, la progettazione, costruzione e realizzazione di nuovi impianti o fabbriche, ecc.) a carico di datori di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori, medici, produttori e commercianti, creando numerose ipotesi di reato (contravvenzioni) in caso di inosservanza di essi.
Si richiama, infine, il già menzionato D.L.vo 19 settembre 1994, n. 626, modificato dal D.L.vo 19 marzo 1996, n. 242 (ved. sub voce “Lavoro”) che, prescrivendo misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro in tutti i settori di attività privati o pubblici, riguarda ovviamente anche il problema del rumore e prevede ulteriori contravvenzioni di differente gravità (artt. 89-93), con pena in genere alternativa, a carico delle medesime categorie prese in considerazione dal D.L.vo n. 277/1991 (datori di lavoro e dirigenti, preposti, commercianti e installatori, medici competenti, lavoratori).
Il “rumore“ del traffico
Indagini esperite qualche anno fa nei principali centri urbani nazionali, con adeguata strumentazione tecnica, rivelarono che il c.d. rumore stradale mediamente raggiungeva i 75/80 decibel.
In qualche caso tale soglia figurava anche abbondantemente superata, come ad esempio a Messina, con oltre 106 decibel.
Analoghi accertamenti svolti in altre città europee, con elevato traffico stradale, hanno dato risultati non di molto migliori.
In effetti il problema è particolarmente grave nelle città della vecchia Europa, in quanto le strade “centrali” con traffico intenso sono mediamente più strette ed attraversano zone residenziali; inoltre i propulsori delle automobili europee hanno generalmente una coppia motrice minore per cui vengono impiegati a numeri di giri più alti.
Ora se si pensa che, per star bene, l`uomo non dovrebbe essere esposto a rumori comunque superiori ai 60 decibel, si comprende la gravità della situazione per la salute collettiva, tanto che qualcuno ha previsto, catastroficamente, una futura generazione di sordi.
Per fortuna non tutti vivono in grandi centri urbani!
Le sorgenti di rumore normali in un autoveicolo in moto sono costituite principalmente dal motore, dai pneumatici, dall`impatto della carrozzeria con l`aria, nonché dai freni, quando vengono azionati. E’ stato osservato al proposito che l`intensità del rumore del motore alla massima potenza è superata da quella del rumore di rotolamento dei pneumatici, per velocità superiori agli 80 km/h, e da quella del rumore derivante dalla turbolenza dell`aria sulla superficie del veicolo, per velocità superiori ai 100 km/h.
Compongono il rumore stradale, però, anche le emissioni sonore prodotte dai dispositivi di segnalazione acustica. Questo senza considerare i rumori causati da comportamenti incivili degli utenti della strada, con inutili accelerazioni o stridii di pneumatici, eliminazione di marmitte a solo scopo esibizionistico ecc.
Abbiamo già visto come il legislatore comunitario abbia preso coscienza della gravità del fenomeno, seppure negli ultimi tempi, cercando di ovviarvi.
Per quanto riguarda la normativa nazionale, occorre far riferimento in un primo luogo, ovviamente, al codice della strada (v. voce “Veicoli”).
Come il vecchio T.U. 15 giugno 1959, n. 393, anche il nuovo codice (D.L.vo 30 aprile 1992, n. 285) e relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495) dedicano particolare attenzione al problema della limitazione dei rumori connessi al traffico veicolare, quantunque con la previsione di semplici violazioni amministrative. Devono poi segnalarsi la L. 27 dicembre 1973, n. 942, riguardante l`omologazione dei veicoli a motore, nonché i vari decreti ministeriali attuativi della disciplina comunitaria.
L`art. 72 del codice della strada, concernente l`equipaggiamento dei veicoli a motore, prescrive l`adozione di dispositivi di segnalazione acustica e di dispositivi silenziatori omologati dal Ministero dei trasporti, Direzione generale della M.C.T.C., nel rispetto delle direttive comunitarie.
L`art. 155, comma 1, in parte ripetendo il vecchio art. 112, pone la regola generale: “durante la circolazione si devono evitare rumori molesti causati dal modo di guidare i veicoli, specialmente se a motore, sia dal modo in cui è sistemato il carico e sia da altri atti connessi con la circolazione stessa”.
E’ evidente il riferimento a quelle condotte di guida incivili di cui sopra si è detto, ad esempio di chi porta il motore ad un numero di giri eccessivamente elevato, fa stridere freni o pneumatici, ecc. I commi successivi impongono specificamente di mantenere in buone condizioni di efficienza e di non alterare il dispositivo silenziatore; di regolare gli apparecchi radiofonici o di riproduzione sonora di bordo entro i limiti massimi fissati dal regolamento; di tarare i dispositivi di allarme acustico in modo da impedire la prolungata emissione di suoni. I limiti sonori massimi, sia degli apparecchi radio e di riproduzione che dei dispositivi di allarme, sono poi fissati dall`art. 350 del regolamento di attuazione.
L`art. 156 impone ai guidatori, ricalcando l`art. 113 del vecchio codice, la massima moderazione nell`uso dei dispositivi di segnalazione acustica, cui può farsi ricorso soltanto ai fini della sicurezza stradale e per il minor tempo possibile. La norma distingue, poi, a seconda che ci si trovi in centro abitato o meno. Nel primo caso, vieta le dette segnalazioni, tranne che per “effettivo e immediato pericolo”; nell`altro caso le consente “ogni qualvolta le condizioni ambientali o del traffico lo richiedano al fine di evitare incidenti, in particolare durante le manovre di sorpasso”. Infine, sono esonerati dai divieti di uso dei dispositivi acustici i conducenti di veicoli che trasportano feriti o ammalati gravi. La norma, quindi, cerca di contemperare l`esigenza di impedire rumori molesti con quella della sicurezza del traffico, privilegiando in genere la prima, tranne casi eccezionali.
Interessante e innovativo, infine, il disposto dell`art. 227 che impone agli enti proprietari delle strade di installare, ove necessario, dispositivi di monitoraggio anche per il rilevamento dell`inquinamento acustico.
Per tutta la normativa riguardante il rumore da traffico, si veda la voce “Veicoli (e aree urbane)”.
Per quanto concerne il traffico aereo, occorre ricordare che il c.d. rumore da sorvolo, che interessa soprattutto le zone aeroportuali e le aereovie maggiormente frequentate, si presenta in continua crescita e supera di gran lunga il valore di LAeq della pressione sonora ambientale derivante dall`insieme di sorgenti sonore presenti sul territorio. L`art. 9 della L. 13 maggio 1983, n. 213, modificando l`art. 771 del codice della navigazione, ha introdotto, tra i documenti di bordo obbligatori per tutti i velivoli ad eccezione degli alianti, il “certificato acustico”, i cui requisiti e le modalità per ottenerlo sono stati fissati dal D.M. 3 dicembre 1983 (Certificazione acustica dei velivoli), attuativo della predetta legge e delle direttive comunitarie in materia.
Il menzionato decreto ha in sostanza subordinato “l`impiego di qualsiasi velivolo subsonico civile a reazione o velivolo civile ad elica” al possesso del certificato acustico, rilasciato dal R.A.I. (Registro aeronautico italiano) ai velivoli aventi determinate caratteristiche tecniche.
Merita un cenno, altresì, il D.P.R. 4 luglio 1985, n. 461 (con cui sono stati recepiti nell`ordinamento interno i principi generali contenuti negli allegati alla convenzione di Chicago del 1944, relativa all`aviazione civile internazionale) per il contenuto dell`art. 18: “Al fine di fornire all`ambiente naturale ed umano una adeguata protezione dalle emissioni sonore degli aeromobili…. il Ministro dei trasporti con proprio decreto…. emanerà le conseguenti disposizioni tecniche, idonee a dare attuazione al principio generale sopra delineato, tenuto conto di quanto previsto dall`allegato 16 “protezione dell`ambiente” alla convenzione relativa all`aviazione civile internazionale…., nonché dal decreto del Ministro dei trasporti in data 3 dicembre 1983 concernente la “certificazione acustica dei velivoli”“.
Con la legge 26 giugno 1990, n. 165 (art. 10), poi, è stata istituita un`imposta erariale per gli aeromobili, in aggiunta ai diritti di approdo e partenza, commisurata alla rumorosità degli stessi. Tale imposta è destinata in buona parte ai Ministeri dei trasporti e dell`ambiente per il disinquinamento acustico soprattutto delle zone aeroportuali ed il potenziamento dei servizi tecnici di controllo dello stato dell`ambiente. Inoltre, un`imposta erariale regionale sulle emissioni sonore – da destinarsi, tramite i competenti assessorati regionali, a sovvenzioni ed indennizzi alle amministrazioni ed ai soggetti residenti nelle zone limitrofe agli aeroscali – è stata recentemente istituita dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449 (art. 18).
Si segnala, ancora, il D.M. 19 dicembre 1994 del Ministero dei trasporti e della navigazione, che pone ulteriori limitazioni per i veicoli subsonici a reazione, in conformità del programma di azione della CEE in materia ambientale ed in attuazione della menzionata direttiva comunitaria n. 89/629 del 4 dicembre 1989, nonché il D.M. 31 ottobre 1997, che stabilisce la metodologia di misura del rumore aeroportuale, limitatamente al traffico civile nella fase di movimentazione.
A tale proposito deve evidenziarsi il D.P.R. 11 dicembre 1997, n. 496, modificato dal D.P.R. 9 novembre 1999, n. 476 – emanato in attuazione dell`art. 11, L. n. 447/1995 – con cui sono state fissate le modalità per il contenimento e l`abbattimento del rumore prodotto dagli aeromobili civili nelle attività aeroportuali, tra cui spicca: il divieto di voli notturni (dalle ore 23 alle ore 6 locali), tranne tassative eccezioni sottoposte comunque a maggiori cautele; la verifica, con cadenza almeno biennale, dei limiti di emissione degli aeromobili; la previsione di sanzioni amministrative per la violazione di procedure antirumore; la presentazione ai Comuni interessati di piani di abbattimento e contenimento del rumore da parte degli enti gestori degli aeroporti.
Si segnalano altresì il D.M. (Ambiente) 20 maggio 1999 ed il D.M. 3 dicembre 1999. Col primo si stabiliscono i criteri per la progettazione dei sistemi di monitoraggio per il controllo dei livelli di inquinamento acustico in prossimità degli aeroporti, nonché i criteri per la classificazione degli aeroporti in relazione al livello di inquinamento acustico; col secondo si definiscono i criteri delle procedure antirumore ed i confini delle aree di rispetto negli aeroporti. A tal proposito è interessante sottolineare che i nuovi insediamenti abitativi realizzati nelle suddette aree di rispetto sono stati espressamente assoggettati alle prescrizioni del menzionato D.P.C.M. 5 dicembre 1997 recante “Determinazione dei requisiti acustici passivi degli edifici”.
Con Decreto 28 marzo 1995, il Ministro dei trasporti e della navigazione, di concerto con il Ministro dell`ambiente, ha dato attuazione alla menzionata direttiva CEE 92/14 in tema di limitazione delle emissioni sonore dei velivoli subsonici a reazione, introducendo ulteriori e più rigorose prescrizioni soprattutto con decorrenza 1 aprile 2001.
Relativamente al traffico ferroviario, si ricorda innanzitutto che il regolamento delle ferrovie dello Stato non consente fischi acuti, ma moderati, vietandone comunque l`abuso in prossimità dell`abitato (art. 8).
Nel gennaio 1999 è stato finalmente pubblicato il Regolamento di esecuzione in materia di inquinamento acustico derivante da traffico ferroviario (emanato con D.P.R. 18 novembre 1998, n. 459, anch`esso in attuazione dell`art. 11, L. n. 447/1995 sopra menzionato), che stabilisce le norme per la prevenzione ed il contenimento dell`inquinamento da rumore avente origine dall`esercizio delle infrastrutture (materiale rotabile, binari, stazioni, scali, parchi, piazzali e sottostazioni elettriche) delle ferrovie e delle linee metropolitane di superficie, con esclusione delle tramvie e delle funicolari. Il decreto individua le fasce territoriali di pertinenza delle infrastrutture esistenti e di nuova realizzazione, stabilendo valori limite assoluti di immissione del rumore, anche in relazione alle infrastrutture del sistema c.d. “ad alta velocità”, con un trattamento privilegiato per scuole, ospedali, case di cura e case di riposo.
Con D.M. (Ambiente) 16 marzo 1998, inoltre, sono state stabilite le tecniche di rilevamento e di misurazione dell`inquinamento da rumore – in attuazione dell`art. 3, comma 1, lett. c), L. n. 447/1995 – con previsione di distinte metodologie per misurare il rumore ferroviario e quello stradale.
Per finire, si richiama l`art. 10 del R.D.L. 9 maggio 1932, n. 813 (Disposizioni sulla circolazione dei motoscafi e delle imbarcazioni a motore) che prescrive l`adozione di “almeno un apparecchio silenziatore o di un dispositivo atto ad eliminare o ad attenuare i rumori”, vietando “qualsiasi alterazione od applicazione di dispositivi che annulli o riduca gli effetti dell`apparecchio silenziatore”.
Importante senz`altro, a proposito di traffico, è ancora una volta la legge-quadro sul rumore (L. n. 447/1995), in quanto, tra i provvedimenti per la limitazione delle emissioni sonore di cui al comma 5 dell`art. 2, inserisce anche i piani dei trasporti urbani ed extraurbani e i piani urbani del traffico, la pianificazione e gestione del traffico stradale, aeroportuale, ferroviario e marittimo.
La tutela dell`inquinamento acustico viene così finalmente assunta tra i fattori concorrenti alla formazione delle scelte di pianificazione e governo del territorio.
Conclusioni
Questa panoramica dell`attuale “disponibilità normativa” in materia di rumore e inquinamento sonoro, certamente non esaustiva, vuole essere un contributo giuridico “pratico” alla difesa dell`ambiente e quindi della salute, offrendo agli interessati una bussola che – indicando quanto meno i punti cardinali – consenta loro un orientamento più agevole tra le varie disposizioni vigenti.
La difficoltà di orizzontarsi deriva essenzialmente dal fatto che, nel nostro ordinamento, come si è visto, mancava – fino a poco fa – una normativa specifica contro il fenomeno rumore correlato al danno alla salute, per cui si era costretti a far riferimento ad altre disposizioni “polivalenti”, adattandole alla bisogna. Tra qualche anno, quando sarà finalmente operativa la legge-quadro sul rumore, che però necessita di tanti (forse troppi) provvedimenti attuativi, e delle indispensabili norme di finanziamento, la situazione dovrebbe, radicalmente mutare. Con la legge n. 447/1995 si è, infatti, raggiunta finalmente la consapevolezza della necessità di un`efficace e decisa azione preventiva sulle potenziali sorgenti di degrado ambientale nonché dell`esigenza di considerare le sorgenti sonore (di qualsiasi natura: impianti fissi, infrastrutture stradali, linee di trasporto, ecc.) quali punti di riferimento imprescindibili nella pianificazione ed organizzazione del territorio destinato ad ospitarle.
Ritengo, comunque, che anche attualmente gli strumenti utilizzabili per raggiungere soddisfacenti risultati nella lotta al rumore ed all`inquinamento sonoro siano, tutto sommato, sufficienti.
Oltre alla normativa citata, meritano particolare attenzione, a tal proposito: L. 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell`ambiente (artt. 2, 6, 18); L. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario nazionale (artt. 4, 14, 20); D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, sul decentramento amministrativo (artt. 101, 102, 104).
Nel frattempo sarebbe auspicabile una più decisa azione dell`autorità amministrativa, che ha al suo arco molte frecce, troppo spesso inutilizzate. Infatti, attraverso l`adeguato esercizio da parte dei Comuni della potestà regolamentare in materia di igiene, riconosciuta dall`ordinamento come espressione dell`autonomia normativa comunale; mediante l`applicazione delle richiamate disposizioni del T.U.L.S. nei confronti di manifatture o fabbriche insalubri; e soprattutto con l`adozione, nei casi consentiti, dei provvedimenti contingibili ed urgenti da parte del sindaco, quale ufficiale di Governo, o del prefetto, in funzione surrogatoria, potrebbero essere eliminate sul nascere molte sorgenti di rumore, senza attendere l`intervento, solitamente repressivo, dell`autorità giudiziaria.
Questa è, del resto, la strada individuata ed indicata, già molti anni orsono, dalla Corte costituzionale secondo la quale “la eliminazione delle cause che ledono e pongono in pericolo la salute pubblica non è compito dell`autorità giudiziaria e non può essere affidata al pronto intervento della stessa”, ma è “affidata dalla Costituzione ad organi amministrativi”.
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L’inquinamento acustico
di Carlo Maria Grillo
Il fenomeno del rumore è da qualche tempo oggetto – finalmente ed opportunamente – di preoccupata considerazione non solo da parte di tecnici e studiosi, ma anche del comune cittadino, in quanto lo si colloca, oramai con certezza, nel quadro delle turbative dell`equilibrio ecologico, pericoloso fattore di insalubrità ambientale, e quindi minaccia per la salute.
Ovviamente non ogni emissione sonora è idonea a ledere “l`ambiente salubre”, ma solo quelle aventi determinate caratteristiche (in relazione alla loro natura, tipologia, frequenza, intensità, durata, ecc.) che comportino il superamento della soglia del mero “disturbo”. Appare allora opportuno distinguere dalla semplice “emissione sonora”, che realizza comunque un`interruzione del silenzio, il “rumore”, inteso come una perturbazione della quiete, ed infine il vero e proprio “inquinamento acustico o fonico”, fenomeno ben più ampio e complesso che potrebbe definirsi come l`insieme dei rumori prodotti in un determinato contesto spazio-temporale, idoneo a porre in pericolo la salute di chi li percepisce ed a compromettere la qualità dell`ambiente; fenomeno, quindi, tanto importante da giustificare, ed anzi provocare – da parte della società – una correlativa domanda di protezione necessariamente più affinata ed organizzata.
La distinzione proposta è divenuta però meno attuale a seguito dell`emanazione del D.P.C.M. 1 marzo 1991, prima, e della legge-quadro sul rumore (L. 26 ottobre 1995, n. 447), successivamente, delle quali si dirà appresso. Il decreto, fornendo finalmente (nell`Allegato A) la definizione di “rumore”, lo ha in sostanza quasi identificato con l`”inquinamento fonico”, come sopra individuato. Infatti è considerato rumore: “qualunque emissione sonora che provochi sull`uomo effetti indesiderati, disturbanti o dannosi o che determini un qualsiasi deterioramento qualitativo dell`ambiente”.
La legge n. 447/1995 fornisce addirittura (art. 2) la definizione di inquinamento acustico: “l`introduzione di rumore nell`ambiente abitativo o nell`ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo e alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell`ambiente abitativo o dell`ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi”.
La semplice emissione sonora, quindi, diventa rumore soltanto quando produce determinate conseguenze negative sull`uomo o sull`ambiente, e cioè quando alla fine compromette la qualità della vita. A voler ben guardare la definizione del D.P.C.M. appare ridondante giacché gli effetti indesiderati in quanto tali sono sempre disturbanti e viceversa; inoltre essi finiscono con l`essere in ogni caso dannosi per la persona, non potendosi limitare, com`è pacifico, il concetto di danno a quello riguardante esclusivamente l`integrità fisica del soggetto. Comunque è sicuramente utile che il nostro ordinamento giuridico disponga finalmente di una definizione ufficiale di “rumore”, quantunque non perfetta.
La stessa considerazione vale per la riportata definizione di inquinamento acustico, certamente attualissima in quanto cerca di tener presente ogni possibile situazione di degrado (o anche semplicemente di sgradita e dannosa interferenza) cagionata dal rumore.
È stato osservato con perspicacia che l`inquinamento sonoro, come quello atmosferico, aggredisce “direttamente” il bene-salute, differenziandosi pertanto dall`inquinamento dell`acqua e del suolo, che invece arrecano danno allo stesso soltanto nella misura in cui l`acqua o i prodotti della terra vengano usati per l`alimentazione. Maggiore la pericolosità, quindi, dell`inquinamento acustico, anche a causa della particolare natura del rumore – destinato a diffondersi, propagarsi, riverberarsi ben oltre i confini spaziali del luogo di emissione – nonché per l`impossibilità dell`uomo di bloccare la funzione uditiva, a differenza delle altre strutture sensoriali (occhi, bocca ecc.), finanche durante il sonno, allorquando entra in azione il sistema di vigilanza (neuro-vegetativo), che reagisce allo stimolo rumore indipendentemente dalla volontà del soggetto.
Il rumore, come si diceva, può assumere gradazioni che nuocciono all`integrità fisica e psichica non solo dell`uomo, ma di qualsiasi animale, ed infatti la psicoacustica, benché ancora ai primi passi, studiando le complesse reazioni fisiche e psico-biologiche che si verificano tra esseri viventi ed il mondo del suono, ha accertato come sovente l`esposizione al rumore provochi il sovvertimento delle più varie attività organiche e ghiandolari, con evidenti e determinanti modificazioni delle increzioni ormonali.
Per quanto concerne l`uomo, la scienza medica è da tempo concorde nell`affermare che gli eccessi di rumore, oltre a danneggiare l`apparato uditivo, possono arrecare notevoli pregiudizi al sistema nervoso, all`apparato cardiovascolare nonché a quelli digerente e respiratorio, ovviamente sempre in relazione alla recettività dell`individuo. In ogni caso, comunque, compromettono la capacità di concentrazione e di lavoro, dunque – come si è detto – la qualità della vita. Quindi l`inquinamento sonoro, ed il rumore in generale, rappresentano una concreta e grave minaccia alla salute, da intendersi in senso ampio come l`equilibrio psico-fisico e sociale di un soggetto.
Tale principio ha trovato riscontro nell`indirizzo di questi ultimi anni della Corte di cassazione che, per successive approssimazioni, ha finito col riconoscere l`inviolabilità e l`indisponibilità del diritto alla salute, qualificandolo vero e proprio diritto soggettivo primario ed assoluto, e precisando che esso non ha ad oggetto solo l`incolumità fisica, ma si identifica – anche e soprattutto – col diritto ad un “ambiente salubre”. La Suprema Corte ha osservato, inoltre, che tale diritto non è suscettibile di compressione ad opera di interessi di ordine collettivo o generale, per cui non può nemmeno configurarsi un potere ablatorio dello Stato, che lo faccia degradare ad interesse legittimo.
Orbene a questo punto è indispensabile appurare se questo diritto, di rango costituzionale in quanto espressamente riconosciuto (dall`art. 32 Cost.) come fondamentale diritto dell`individuo e interesse della collettività, sia munito – in relazione alle aggressioni del rumore – di tutela adeguata o non sia piuttosto, come è stato definito da qualcuno, un diritto “disarmato”.
Scopo che ci si prefigge, quindi, è quello di individuare ed esaminare la normativa vigente per accertare se, ed entro quali limiti, essa consenta di difendere la nostra salute dall`inquinamento sonoro o, più genericamente, dal rumore.
Disciplina comunitaria
L`aumento globale dell`inquinamento acustico e le gravi conseguenze di esso, sopra accennate, non potevano lasciare indifferenti gli organismi comunitari, atteso che uno degli obiettivi della CEE è la protezione dell`ambiente e la qualità della vita (art. 2 del trattato istitutivo, ratificato con L. 14 ottobre 1957, n. 1203).
Il notevole sviluppo tecnologico europeo, infatti non è stato prontamente seguito dall`adozione di soluzioni idonee a ridurre la rumorosità dell`ambiente di lavoro; inoltre è andata aumentando progressivamente anche quella dell`ambiente extra-lavorativo, causata dal traffico (automobilistico, ferroviario ed aereo), dall`esercizio di attività produttive nonché dalle varie estrinsecazioni della vita di relazione. Basta pensare che anche alcuni svaghi o passatempi si accompagnano ad elevati livelli di rumorosità (discoteche, caccia, tiro a segno, uso di motociclette, motoscafi ecc.).
Occorre poi considerare che i provvedimenti adottati a livello nazionale, per ridurre gli effetti del rumore, devono necessariamente nascere in un`ottica comunitaria, avendo dirette ripercussioni sul funzionamento del mercato comune. Infatti, normative differenti degli Stati membri potrebbero creare ostacoli tecnici agli scambi di impianti o prodotti assoggettati da alcuni di essi a disposizioni antirumore oppure, a causa dei diversi costi, potrebbero far sorgere condizioni di concorrenza tra gli Stati stessi.
La CEE ha cominciato ad occuparsi espressamente della problematica del rumore da circa un ventennio. Del resto l`inizio di una vera e propria politica ecologica di carattere organico da parte della Comunità coincide con l`adozione delle specifico “Programma d`azione” per la protezione dell`ambiente, allegato alla “dichiarazione” del Consiglio delle C.E. e dei rappresentanti degli Stati membri del 22 novembre 1973.
Tale programma, nel definire obiettivi principi ed azioni della Comunità, individuava come scopo precipuo il miglioramento della “qualità e la scena della vita, l`ambiente e le condizioni di vita dei popoli che ne fanno parte”, al fine di “contribuire a porre l`espansione a servizio dell`uomo”, coordinandola e conciliandola con “la necessità sempre più imperiosa di preservare l`ambiente naturale”.
Alla scadenza del menzionato “Programma”, che prevedeva una durata triennale poi prorogata di un anno, il Consiglio ha adottato (risoluzione 17 maggio 1977) un secondo Programma, stavolta quinquennale (1977 – 1981), naturale proseguimento del primo, nel quale particolare e nuovo rilievo assumeva la lotta contro il rumore, sia per motivi di carattere economico, sia per salvaguardare la qualità della vita.
Successivamente l`”Atto unico europeo” – ratificato dall`Italia con L. 22 dicembre 1986, n. 909 ed entrato in vigore l`1 luglio 1987 – ha aggiunto tre articoli (130 r, 130 s, 130 t) alla parte III del trattato, inserendo il tema della protezione dell`ambiente a livello di norme fondamentali.
Prima degli anni settanta, dunque, la Comunità si è limitata (con due raccomandazioni del 23 luglio 1962 e 20 luglio 1966) a segnalare agli Stati membri il rumore quale causa di ipoacusia o sordità, e quindi di malattia professionale, ed a considerarlo sotto il profilo infortunistico previdenziale e assicurativo, raccomandando di adattare le liste nazionali delle malattie professionali ad una unica lista standard europea, e successivamente di eliminare la “tassatività degli elenchi” di dette malattie professionali.
Dal ’70, sensibilizzata dalla problematica della tutela ambientale, la CEE, con numerose direttive, ha cominciato invece – come si è detto – a considerare ex professo il rumore, continuando a seguire tale politica fino ai giorni nostri. Di volta in volta ha, quindi:
– stabilito limiti massimi ammissibili di livello sonoro dei veicoli a motore, nonché strumenti, condizioni e metodi per la misurazione di tale livello (direttive nn. 70/157 del 6 febbraio 1970; 70/388 del 27 luglio 1970; 73/350 del 7 novembre 1973; 74/151 del 4 marzo 1974; 77/212 dell`8 marzo 1977; 77/311 del 29 marzo 1977; 78/315; 78/1015 del 23 novembre 1978; 81/334 del 13 aprile 1981; 84/372 del 3 luglio 1984; 84/424; 87/56 del 18 dicembre 1986);
– dettato limitazioni alle emissioni sonore degli aeromobili subsonici (direttive n. 80/51 del 20 dicembre 1979, modificata da dir. n. 83/206 del 21 aprile 1983, n. 89/629 del 4 dicembre 1989 e 92/14 del 2 marzo 1992);
– determinato quelle delle macchine e dei materiali per cantieri (direttive nn. 79/113 del 19 dicembre 1978; 81/1051 del 7 dicembre 1981; 85/405 dell`11 luglio 1985);
– individuato il livello di potenza acustica ammesso per una serie di macchine o attrezzature, quali – ad esempio – motocompressori, martelli demolitori, tosaerba, apparecchi domestici, escavatori, apripista ecc. (direttive nn. 84/533-534-535-536-537-538 del 17 settembre 1984; 85/406-407-408-409 dell`11 luglio 1985; 86/594 dell`1 dicembre 1986; 86/662 del 22 dicembre 1986; 87/405 del 10 giugno 1987; 88/180-181 del 22 marzo 1988; 89/514 del 2 agosto 1989; 95/27 del 29 giugno 1995);
– valutato i rischi derivanti dall`esposizione al rumore o ad agenti chimici fisici e biologici durante il lavoro (direttive nn. 80/1107 del 27 novembre 1980; 86/188 del 12 maggio 1986; 383/91 del 25 giugno 1991);
– dettato disposizioni concernenti la valutazione dell`impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (direttiva 85/337 del 27 giugno 1985);
– fissato un quadro generale per la prevenzione e la riduzione integrate dell`inquinamento, al fine di raggiungere un elevato livello di protezione dell`ambiente nel suo complesso (direttiva 96/61 del 24 settembre 1996).
Il legislatore nazionale, dal canto suo, purtroppo non sempre tempestivamente, ha dato attuazione a molte delle indicate direttive CEE in materia di rumore con i DD.MM. 14 giugno 1974; 5 agosto 1974; 5 maggio 1979; 12 gennaio 1982; 30 settembre 1984; 6 dicembre 1984; 28 novembre 1987, n. 588; con quest`ultimo, attinente a ben dodici direttive, subordina l`immissione in commercio di determinate attrezzature “rumorose” al possesso, tra l`altro, della “certificazione CEE”.
Recentemente con il D.L.vo 15 agosto 1991, n. 277 si è data finalmente attuazione, tra le altre, alle specifiche direttive dianzi richiamate (n. 80/1107 e n. 86/188), concernenti la protezione dei lavoratori subordinati durante il lavoro. Il detto decreto, sul quale torneremo in seguito, s`inquadra tra i provvedimenti delegati al Governo con la L. 30 luglio 1990, n. 212, per l`attuazione di direttive delle C.E. in materia di sanità e di protezione dei lavoratori.
A questo punto appare pertinente ed opportuno un breve cenno all`annoso problema dei rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamenti interni degli Stati membri, con particolare riguardo all`applicabilità immediata di regolamenti e direttive CEE.
Per la prevalente dottrina e giurisprudenza, sulla base dell`espresso disposto dell`art. 189 del Trattato CEE, mentre i regolamenti sono atti aventi contenuto normativo generale al pari delle leggi statuali, forniti di efficacia obbligatoria in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, senza necessità di norme interne di adattamento o recezione, le direttive vincolano, invece, solo lo Stato membro cui sono rivolte e limitatamente al risultato da raggiungere, lasciando alla competenza degli organi nazionali la scelta di forma e mezzi di attuazione, per cui richiederebbero in ogni caso atti di adattamento ad hoc (legge, decreto legislativo, decreto legge, atto amministrativo).
Una svolta significativa, per una più concreta e tempestiva attuazione degli indirizzi delle C.E., ha rappresentato la costituzione del “Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie” (con L. 16 aprile 1987, n. 183), cui tra l`altro è stato delegato l`adeguamento della normativa nazionale alle direttive comunitarie ed assegnato un fondo di dotazione – con amministrazione autonoma e gestione fuori bilancio – per l`erogazione, a favore delle amministrazioni pubbliche e degli operatori interessati, di finanziamenti e anticipazioni per l`attuazione di programmi di politica comunitaria.
La legge istitutiva del menzionato “Dipartimento” ha espressamente disciplinato peraltro, agli artt. 11 e 12, l`efficacia delle raccomandazioni e direttive comunitarie nell`ambito nazionale, distinguendole a seconda che esse riguardino o meno materia regolata con legge o coperta da riserva di legge. Nel primo caso, o qualora comunque ritenga di conformare alla raccomandazione o direttiva l`ordinamento interno con norme di legge, il Governo dovrà predisporre il relativo disegno di legge “nel più breve tempo possibile” (attuazione legislativa). Se, invece, l`atto normativo comunitario riguarda materia non regolata con legge né coperta da riserva di legge, il Governo o le regioni lo attuano direttamente con regolamenti o altri atti amministrativi generali (attuazione amministrativa).
È auspicabile che la costituzione di tale Dipartimento possa davvero contribuire in modo determinante a risolvere molti dei problemi connessi alla pronta applicazione del diritto comunitario nel nostro Paese.
Di indubbio interesse è stata a tale proposito la L. 29 dicembre 1990, n. 428 (Disposizioni per l`adempimento di obblighi derivanti dall`appartenenza dell`Italia alla Comunità Europea – Legge comunitaria 1990) che ha dettato le regole generali per i procedimenti di attuazione degli obblighi comunitari, conferendo al Governo una delega ad emanare – entro un anno dall`entrata in vigore – una serie di “decreti legislativi” per ottemperare ad altrettante direttive della C.E., nonché ad “attuare in via regolamentare” altre specifiche e diverse direttive.
La stessa legge contiene, infatti, disposizioni particolari di adempimento diretto e criteri speciali di delega legislativa in relazione a dodici specifiche materie, tra cui quella della tutela dell`ambiente.
In applicazione di essa sono stati emanati il 27 gennaio 1992 quattro decreti legislativi (nn. 134-135-136-137) con i quali si è data attuazione alle citate direttive relative al rumore di particolari macchinari o attrezzature: apparecchi domestici (86/594); escavatori idraulici e a funi, apripista e pale caricatrici (86/662 e 89/514); tosaerba (88/180 e 181); gru a torre (87/405).
Di qualche interesse per la materia in questione, sebbene minore rispetto alla citata L. n. 428/1990, sono le successive leggi comunitarie per il 1991 ed il 1993, rispettivamente la L. 19 febbraio 1992, n. 142 e la L. 22 febbraio 1994, n. 146 (Disposizioni per l`adempimento di obblighi derivanti dall`appartenenza dell`Italia alle Comunità europee). Entrambe dedicano un certo spazio alla tutela dell`ambiente, quindi anche al problema dell`inquinamento fonico.
Non così la legge comunitaria 1994 (L. 6 febbraio 1996, n. 52), nella quale non figura alcun accenno alla problematica in questione.
Nella comunitaria 1995-1997 (L. 24 aprile 1998, n. 128), invece, tra le altre cui dare attuazione attraverso decreti legislativi, particolare attenzione (art. 21) viene riservata alla menzionata direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e riduzione dell`inquinamento.
Si segnala infine il D.L.vo 19 settembre 1994, n. 626 con cui è stata data attuazione alle direttive comunitarie 89/391, 89/654-655-656, 90/269-270, 90/394 e 90/679 riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. Tale importante decreto, che reca anche modifiche di una certa portata alle norme del D.P.R. n. 547/1955 e del D.P.R. n. 303/1956, prescrive misure per la tutela di tutti i lavoratori operanti sia nel settore privato che pubblico.
La tutela civilistica
Passando all`analisi del panorama normativo interno, si ritiene opportuno partire dall`esame dell`art. 844 c.c. che, da qualche tempo, viene accreditato da molti studiosi delle maggiori “chances” per realizzare una concreta tutela del diritto alla salute.
La cennata norma, infatti, disciplinando le immissioni nel contesto dei rapporti di vicinato tra proprietà fondiarie, contempla espressamente, tra queste, i rumori.
E’ opportuno ricordare, comunque, che l`art. 844 c.c. – come è ormai pacificamente riconosciuto – fu voluto dal legislatore del `42 – nell`ottica di industrializzazione in cui si muoveva la società preminentemente agricola di quegli anni – per tutt`altri fini, e cioè come uno strumento destinato alla soluzione dei conflitti tra proprietari di fondi vicini “per le influenze negative derivanti da attività svolte nei rispettivi fondi” (Corte cost. 23 luglio 1974, n. 247), ed è altrettanto chiaro che la norma in esame – proprio perché manifestazione della detta ratio – privilegia la forma della proprietà dinamica e produttiva (e cioè chi effettua l`immissione) rispetto a quella statica (che si limita al godimento del proprio immobile).
L`art. 844, partendo dalla considerazione che il proprietario di un fondo non può in assoluto impedire determinate immissioni provenienti dal fondo del vicino, adotta il criterio della “normale tollerabilità” di esse, inteso come limite alla loro liceità. Inoltre la norma prescrive che deve aversi riguardo anche alla “condizione dei luoghi”, introducendo così – come criterio sussidiario – la rilevanza della destinazione di fatto della zona ove si producono le immissioni, con la conseguenza che la “normale tollerabilità” delle stesse è diversa a seconda che la zona sia industriale ovvero rurale o cittadina.
Il legislatore del `42, non individuando il livello “normale” delle immissioni sonore, riconosce poi al giudice ampia discrezionalità nell`applicazione dell`art. 844, facendogli carico – ovviamente qualora accerti la oggettiva intollerabilità delle stesse – del contemperamento delle “esigenze della produzione con le ragioni della proprietà” ed autorizzandolo a tener conto della priorità di un determinato uso.
La giurisprudenza ha adottato in proposito diversi successivi criteri di valutazione, pervenendo quindi a risultati differenti. Dapprima, accogliendo il criterio “assoluto” – che contempla la semplice rilevazione del rumore (in phon o in decibel) – ha fissato in genere la soglia di “tollerabilità” intorno ai 40-50 phon.
Più recentemente, sulla base del criterio “comparativo o relativo”, si è affermata la tendenza ad assumere come punto di riferimento il c.d. rumore di fondo presente in una determinata zona, e a ritenere intollerabili solo quelle immissioni sonore che si aggiungono allo stesso, provocando un altro rumore non inferiore ai 3 decibel.
Tale criterio, che è quello attualmente seguito, conduce però a risultati evidentemente iniqui in quanto si finisce col tutelare maggiormente le zone meno inquinate rispetto a quelle ad alta degradazione ambientale, ed inoltre il meccanismo innesca una procedura di progressiva dilatazione dei rumori.
Come già si è accennato, sulla base della ratio e della collocazione codicistica della norma, fino a circa venti anni fa, il contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà si è sempre risolto, per concorde interpretazione giurisprudenziale sia di legittimità che di merito, col sacrificio di queste ultime rispetto alle prime, per cui le immissioni, benché eccedenti la normale tollerabilità e quindi dannose, erano consentite ope iudicis tutte le volte che il proibirle avrebbe pregiudicato l`attività produttiva, elevata così a rango di interesse generale della collettività.
Al proprietario del fondo limitrofo si riconosceva soltanto il diritto al compenso per il danno conseguente ad un`attività lecita, simile a quello derivante dall`esproprio o dalla costituzione di servitù coattiva.
Trionfo, quindi, dell`ideologia economico-produttivistica in auge ai tempi della codificazione, e come tale giustificabile.
La situazione descritta non è mutata però, e ciò costituisce – a mio avviso – un fenomeno allarmante, con l`evento della Costituzione che, pur tutelando l`attività produttiva – quale manifestazione dell`iniziativa economica privata – la subordina non solo all`utilità sociale, ma anche alla sicurezza, libertà e dignità umana (art. 41), ed inoltre riconosce la salute come “fondamentale diritto dell`individuo e interesse della collettività” (art. 32).
Non richiamo il concetto della “funzione sociale” della proprietà, di cui all`art. 42/2 Cost., non ritenendolo – per quello che ci riguarda – di univoca interpretazione; infatti anche per il legislatore del `42 l`istituto della proprietà era pervaso del “principio di socialità” (v. par. 412 della Relazione preliminare al codice civile) ma, come si è visto, nel nome di esso si giustificavano scelte di tipo eminentemente produttivistico.
Neppure l`adozione delle note leggi ecologiche (L. 31 dicembre 1962, n. 1860; L. 13 luglio 1966, n. 615; L. 10 maggio 1976, n. 319 e, da ultimo, la L. 26 ottobre 1995, n. 447), che privilegiano l`interesse alla preservazione dell`ambiente rispetto a quello della produzione, sembra aver inciso in maniera determinante sull`interpretazione dell`art. 844 c.c.
Infatti la giurisprudenza di legittimità, in ciò sorretta dall`orientamento della Corte costituzionale, non ha ancora mutato indirizzo e continua a fornire un`interpretazione tradizionale e restrittiva dell`articolo in esame, ritenendo che il criterio della normale tollerabilità a quello del contemperamento con le esigenze della produzione siano utilizzabili unicamente a tutela del diritto di proprietà e non del diritto all`integrità dell`ambiente e quindi alla salute, la cui protezione sarebbe invece affidata dall`ordinamento a norme diverse dall`art. 844, quali ad esempio l`art. 2043 c.c., il Testo Unico Leggi Sanitarie (R.D. 27 luglio 1934, n. 1265), o le citate leggi ecologiche.
Questo orientamento è tuttora seguito da una parte della dottrina che, pur ammettendo l`assoluta inidoneità del rimedio risarcitorio a tutela del diritto alla salute, concorda nel ritenere non percorribile tecnicamente a tali fini la strada dell`art. 844.
A fronte di questa anelastica posizione soprattutto dei giudici della Cassazione e della Consulta, deve però segnalarsi – dagli anni settanta in poi – una nouvelle vague interpretativa, seguita oltre che da buona parte della dottrina, anche dalla prevalente giurisprudenza di merito.
Decisivo contributo a questa tendenza hanno apportato i guidici di Vigevano, tanto da far parlare di una “via vigevanese” alla tutela della salute dei cittadini nei confronti del rumore.
Difatti, con una serie di decisioni, pretore e tribunale della città lombarda hanno in sostanza coraggiosamente affermato che, nell`operazione di comparazione e contemperamento degli interessi, delegata dal legislatore al giudice con l`art. 844, secondo comma, la salute, intesa quale bene primario dell`individuo, non può essere posta sullo stesso piano della produzione, anche perché l`incremento di questa sarebbe inutile se dovesse determinare il peggioramento o la perdita del bene supremo, irrinunciabile e non monetizzabile, della salute da parte dei cittadini.
In definitiva, la salute non può formare oggetto di inammissibili comparazioni, per cui le ragioni dello sviluppo industriale e finanche quelle dell`occupazione devono essere sacrificate ad essa, dovendosi ritenere incondizionata ed assoluta la sua posizione di preminenza nell`ordinamento.
Coerentemente con tale impostazione, i predetti giudici e gli altri dello stesso orientamento hanno dovuto affrontare e cercare di superare gli ostacoli “tecnici” a tale interpretazione, annidati nella norma in esame, quali i concetti di “vicinanza” e di “proprietà”, e così hanno affermato che la vicinanza dei fondi, nell`art. 844, va intesa in senso lato, con riferimento ai fondi che in concreto possono essere danneggiati, anche se non contigui o limitrofi, e che – nell`ottica di un art. 844 garante del diritto alla salute – si deve prescindere dalla tradizionale nozione di proprietà, considerando quindi legittimati ad agire anche soggetti non titolari di alcun diritto di proprietà sui fondi vicini. Altrimenti la norma contrasterebbe quantomeno con l`art. 3 Cost., violando il principio di uguaglianza dei cittadini colpiti dalle immissioni intollerabili, giacché sarebbero legittimati ad agire solo i proprietari dei fondi limitrofi e non gli altri.
Inoltre si è iniziato a riconoscere – ma stavolta per merito anche dei giudici di legittimità – la risarcibilità del danno (definito “biologico”) che deriva dalla violazione del diritto alla salute (intesa non solo come integrità fisica, ma anche come benessere psichico e comprendente altresì la qualità della vita ed i valori della persona), danno consistente nella lesione dell`integrità psico-fisica in sé considerata, senza tener conto cioè della sua incidenza sulla capacità di produrre reddito ed indipendentemente dall`ammontare di questo. Per quanto concerne, poi, la prova di questo danno “biologico”, si è affermato che – in presenza di immissioni che superano abbondantemente il limite di tollerabilità – lo stesso può addirittura presumersi in assenza di specifici elementi probatori.
Relativamente alla sua monetizzazione, il danno viene generalmente liquidato attraverso il criterio equitativo, assecondando un indirizzo ormai costante nella giurisprudenza di legittimità e di merito.
In definitiva, questo orientamento tendente a disancorare l`art. 844 dalla sua originaria ratio e dalla collocazione codicistica, propone una rilettura della norma, alla luce dei valori costituzionali e di quelli accolti dall`ordinamento nel suo complesso, e quindi un`interpretazione integratrice di essa, riconoscendole così un ruolo importante nella strategia di tutela civilistica della salute.
In questa direzione si muovono peraltro tutte quelle decisioni di merito che, ritenendo legittimo il ricorso all`azione inibitoria prevista dall`art. 700 c.p.c., considerano l`art. 844 anche come specifico mezzo di tutela preventiva del diritto alla salute.
Tale giurisprudenza infatti esclude – come si è già detto – la possibilità di contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà tutte le volte che le immissioni superino la normale tollerabilità. In definitiva è la salute dell`uomo che finisce con l`essere l`unico criterio per decidere della tollerabilità o meno di una immissione rumorosa.
Importante ed ulteriore conseguenza pratica dell`impostazione sopra indicata è che il risarcimento del danno viene a perdere quella connotazione indennizzatoria proiettata essenzialmente verso il pregiudizio futuro (essendo escluso – per il futuro – qualsiasi patteggiamento riguardante il diritto alla salute), e assume invece rilevanza solo per il passato, e cioè per il periodo delle subite immissioni.
Questa interpretazione evolutiva dell`art. 844 c.c. non è però l`unica strada percorribile per assicurare una tutela civilistica del diritto alla salute.
Non può ignorarsi infatti che alcuni autori, in genere quelli che sostengono l`assoluta inidoneità strutturale e funzionale dell`art. 844 a salvaguardare il menzionato diritto, sulla base della più autorevole giurisprudenza di legittimità, ritengono che la protezione del diritto alla salute possa essere autonomamente e direttamente invocata in giudizio, ricorrendo all`art. 32, secondo comma, Cost., norma da considerarsi precettiva e non programmatica, e quindi tale da attribuire all`individuo un vero e proprio diritto soggettivo – come si è già detto – immediatamente operativo nei rapporti interprivati, oltre che in quelli cittadini – Stato, non necessitante pertanto di alcuna mediazione se non da parte dell`operatore del diritto.
Comunque, sia facendo ricorso l`interprete ad una forma di costituzionalizzazione del diritto privato, sia reputando direttamente applicabile – nelle relazioni intersoggettive private – l`art. 32 Cost., può ritenersi oggi sufficientemente garantita nel nostro ordinamento la tutela civilistica del diritto alla salute, anche se si avverte l`esigenza di un intervento legislativo ad hoc, che dia corpo ad una puntuale e specifica tutela di natura preventiva.
Per completare il quadro degli strumenti civilistici utilizzabili dall`operatore al fine di una concreta difesa dal rumore, è d`uopo un accenno agli artt. 1170, 1172, 2043, 2087 c.c. Più volte, infatti, è stato affermato che il perdurare di immissioni sonore eccedenti la normale tollerabilità può costituire “molestia nel possesso di un immobile”, tutelabile – ove ricorrano le condizioni previste dalla norma – con l`azione di manutenzione (art. 1170) e talvolta, quando dalle immissioni si tema un danno grave e prossimo al bene posseduto, anche con la denuncia di danno temuto (art. 1172).
Dell`art. 2043 già si è detto, seppure incidentalmente. La norma – che disciplina il risarcimento del danno “ingiusto” cagionato da fatto illecito – offre un rimedio, forse accattivante sotto il profilo economico (con tutte le riserve già fatte sulla “commerciabilità” della salute umana), ma certamente insufficiente ad assicurare la tutela del diritto alla salute, posto che implica – oltre tutto – una non facile indagine sull`elemento psicologico del “produttore”.
Infine l`art. 2087 – che impone al datore di lavoro di eliminare qualsiasi tipo di minaccia all`integrità fisica e morale dei lavoratori (e quindi anche quella rappresentata da rumori eccedenti la normale tollerabilità) – ha un campo d`azione più limitato e specifico, riferendosi esclusivamente agli ambienti di lavoro, dunque alle situazioni originate da un rapporto di lavoro subordinato e riguardanti i soggetti di tale rapporto.
La norma riconosce a ciascun lavoratore un diritto “individuale” alla salubrità dell`ambiente in cui opera, direttamente azionabile nei confronti del datore di lavoro (anche attraverso i provvedimenti di urgenza ex art. 700 c.p.c.) ed un correlativo obbligo di adempimento di questi.
Altro efficace mezzo di controllo dell`attività imprenditoriale – sotto il profilo che qui interessa – devoluto però alla collettività dei lavoratori, e non a ciascuno di essi singolarmente, è quello introdotto dall`art. 9, L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori).
La situazione è, peraltro, decisamente mutata, prima a seguito dell`emanazione del menzionato D.P.C.M. 1 marzo 1991, che ha stabilito i limiti massimi di esposizione al rumore, anche se limitatamente agli ambienti abitativi e – con diverse esclusioni – all`ambiente esterno, e, successivamente alla tanto sospirata legge quadro sull`inquinamento acustico (n. 447/1995), con l`emanazione del D.P.C.M. 14 novembre 1997 che, in parte abrogando il precedente, determina i valori limite delle sorgenti sonore in genere, con la sola eccezione delle infrastrutture dei trasporti (stradali, ferroviarie, marittime, aeroportuali) all`interno delle rispettive fasce di pertinenza, nonché con l`emanazione dei due D.P.C.M. 18 settembre 1997 e 5 dicembre 1997, che individuano rispettivamente i requisiti delle sorgenti sonore nei luoghi di intrattenimento danzante ed i requisiti acustici passivi degli edifici.
Dopo oltre dodici anni dalla delega contenuta nella legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (art. 4 u.c. 833/78) e dopo circa cinque anni dalla specifica previsione della legge istitutiva del Ministero dell`ambiente (art. 2, comma 14, L. n. 349 del 1986), si è così finalmente ripreso l`importante cammino della difesa dal rumore, seppure con fonti normative secondarie, quali devono ritenersi i detti decreti. Il primo di questi, innanzitutto, fa carico ai Comuni di individuare, nell`ambito del proprio territorio, sei distinte zone (aree particolarmente protette; aree destinate ad uso prevalentemente residenziale; aree di tipo misto; aree di intensa attività umana; aree prevalentemente industriali; aree esclusivamente industriali) e stabilisce per ciascuna di esse dei limiti massimi del livello sonoro – per il giorno e la notte – in considerazione della loro diversa destinazione d`uso (criterio assoluto). Inoltre, per le aree non esclusivamente industriali, impone che anche la differenza tra “rumore ambientale” e quello “residuo” non superi un determinato livello (criterio differenziale).
In attesa della disciplina definitiva, che ovviamente presupponeva l`emanazione della menzionata legge-quadro, il D.P.C.M. del 1991 prevedeva una disciplina provvisoria, sempre “a doppio vincolo”, e cioè contemplando un limite assoluto ed uno differenziale; quest`ultimo, identico a quello previsto per il regime definitivo (5 decibel A diurni e notturni), mentre il primo molto più blando.
Alla detta disciplina provvisoria fa riferimento anche il recente D.P.C.M. 14 novembre 1997, “in attesa che i Comuni provvedano agli adempimenti previsti dall`art. 6, comma 1, lettera a), della legge 26 ottobre 1995, n. 447” (zonizzazione del territorio).
Detto decreto, tenendo conto della distinzione operata dall`art. 2 dalla menzionata legge-quadro, individua specificatamente: i valori limite di emissione (con riferimento alle sorgenti fisse ed alle sorgenti mobili), quelli di immissione (sia assoluti che differenziali), i valori di attenzione e quelli di qualità.
Per quanto concerne il D.P.C.M. 1 marzo 1991 – espressamente abrogato dal successivo D.P.C.M. del `97 solo con riferimento ai commi 1 e 3 dell`art. 1 – è opportuno tener presente, inoltre, che ben tre dei complessivi sei articoli (il terzo parzialmente, il quarto ed il quinto integralmente) sono stati dichiarati incostituzionali con sentenza n. 517 del 30 dicembre 1991, contestandosi il potere del Governo, in mancanza di idonea copertura legislativa, di adottare – con lo strumento del D.P.C.M. – disposizioni di organizzazione ed indirizzo per le regioni in materia di piani regionali di bonifica dell`inquinamento acustico e di piani comunali di risanamento, nonché di fissare termini, per l`esame e l`approvazione dei piani di risanamento delle imprese, ed oneri, per le imprese richiedenti la concessione edilizia per la costruzione di nuovi impianti industriali.
Trattandosi, infatti, di una disciplina che interferisce sull`autonomia regionale e comunale, le relative prescrizioni possono essere validamente disposte soltanto con un atto legislativo o, comunque, con un atto amministrativo adottato sulla base di una legge.
Il maggior limite del D.P.C.M. era certamente quello di subordinare il regime definitivo alla zonizzazione delegata ai Comuni, senza però prevedere alcun termine per tale incombenza né la possibilità per l`autorità centrale di sostituirsi a quella locale in caso di inerzia della stessa. Pertanto la durata del regime provvisorio dipende sostanzialmente dalla volontà ed efficienza dei singoli Comuni con l`inevitabile conseguenza di una difformità di standards sul territorio nazionale, in aperto contrasto con una delle finalità della L. n. 833/1978 (art. 4), quella di assicurare condizioni e garanzie di salute uniformi nell`ambito del predetto territorio.
Questo inconveniente non sembra essere stato eliminato neppure dalla legge-quadro n. 447/1995, quantunque – all`art. 4 – essa abbia imposto alle Regioni di provvedere, entro un anno dalla sua entrata in vigore, a definire con legge “modalità, scadenze e sanzioni per l`obbligo di classificazione delle zone” da parte dei Comuni, se il D.P.C.M. del `97 ha dovuto prevedere – come si è detto – una disciplina provvisoria in attesa dell`adempimento del menzionato obbligo.
I “rimedi“ di carattere penale
Nel nostro ordinamento la tutela penale contro il rumore è attuabile principalmente attraverso l`art. 659 c.p., collocato tra le contravvenzioni lesive dell`ordine pubblico e la tranquillità pubblica, intesa quest`ultima come particolare aspetto del primo.
La sistemazione codicistica rivela, quindi, pure per quanto riguarda questa norma (come già si è visto per l`art. 844 c.c.) che la voluntas legis non era apertamente diretta alla tutela della salute dei cittadini, anche se, in concreto, garantendo la pubblica tranquillità, ed in particolare la quiete pubblica in essa compresa, si finisce col salvaguardare mediatamente il bene salute.
La pubblica quiete – definita dal MANZINI “elemento essenziale d`ogni ordinamento civile, nel quale la libertà individuale non può essere illimitata e devono venir garantite le condizioni necessarie perché la convivenza si svolga in modo soddisfacente per la popolazione” – è, dunque, l`interesse direttamente protetto dalla norma in esame, e la sua offesa si concreta nel disturbo arrecato alle persone, considerate non individualmente ma come collettività. La concreta determinazione del concetto di disturbo è stata lasciata dal legislatore alla discrezionalità del giudice. L`orientamento giurisprudenziale prevalente è, comunque, nel senso di ravvisarlo non in qualsiasi azione fastidiosa, ma soltanto allorquando si realizzi una sensibile alterazione della normale condizione di quiete.
Non è necessario, peraltro, che il disturbo sia arrecato ad un elevato numero di persone, ma semplicemente ad un numero indeterminato di esse.
L`art. 659 prevede due distinte ipotesi contravvenzionali, entrambe quindi di competenza pretorile, procedibili di ufficio ed ascrivibili all`agente indifferentemente a titolo di dolo o colpa: la prima (primo comma) punisce il disturbo della pubblica quiete (occupazione o riposo delle persone, spettacoli ritrovi o trattenimenti pubblici) cagionato con modalità espressamente e tassativamente indicate; la seconda (secondo comma), che configura – come si è detto – un titolo autonomo di reato e non una circostanza di quello previsto al primo comma, punisce le attività rumorose (professioni o mestieri) esercitate “contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell`autorità”, tra le quali rientrano, secondo l`unanime dottrina e giurisprudenza, anche le attività lavorative organizzate in forma industriale.
In definitiva si può affermare che la prima mira ad impedire i rumori ingiustificati e comunque evitabili, la seconda a colpire quelle attività lavorative, per loro natura rumorose, tutte le volte che non siano effettuate nel rispetto della normativa che le disciplina.
Le differenze tra le due contravvenzioni sono notevoli, talché desta qualche perplessità la loro riunione sotto il medesimo nomen iuris.
Innanzi tutto la prima può essere commessa da “chiunque” (reato comune), mentre la seconda soltanto da chi esercita una professione o un mestiere rumoroso (reato proprio); poi, l`evento, consistente nel disturbo della quiete pubblica, nella prima deve effettivamente verificarsi, nel senso che quantomeno occorre accertare in concreto una effettiva attitudine delle emissioni rumorose a disturbare un numero indeterminato di persone (reato di pericolo concreto), mentre nella seconda si presume senza possibilità di prova contraria (iuris et de iure) dall`illegittimo o irregolare esercizio dell`attività rumorosa (reato di pericolo presunto).
La contravvenzione prevista dal comma secondo è generalmente inquadrata, dunque, tra i reati formali o di mera condotta in quanto solo questa andrebbe presa in considerazione, ai fini della sussistenza di esso, non dovendosi accertare se l`esercizio dell`attività abbia arrecato effettivo disturbo, ma soltanto se sia stato attuato contro una disposizione di legge o un comando dell`autorità.
Per quanto riguarda l`effettiva rumorosità dell`attività lavorativa, si segnala in dottrina e giurisprudenza un vivo contrasto, almeno fino all`emanazione del D.P.C.M. 1 marzo 1991 tra chi difende l`insindacabilità delle scelte della P.A. da parte del giudice ordinario, e chi, invece, afferma la possibilità di quest`ultimo di valutare autonomamente la detta rumorosità senza che ciò realizzi sconfinamento nel campo riservato alla P.A. In questa direzione è stato osservato (Cass., sez. I, 9 aprile 1985, Ghidini) che “spetta all`autorità comunale regolare le modalità di esercizio delle professioni o mestieri rumorosi, ma il presupposto di tale disciplina – rumore eccedente la normale tollerabilità secondo l`accezione dell`art. 844 c.c. – rientra nella competenza del giudice, il quale può anche disapplicare l`atto amministrativo illegittimo, pronunziando conseguentemente sulla penale responsabilità dell`imputato”.
Questo indirizzo, che pare determinato da un apprezzabile scrupolo di valutare le singole attività in concreto per la loro effettiva rumorosità, prescindendo cioè dall`inquadramento di esse operato in via generale ed astratta dagli organi della P.A., suscita però notevoli perplessità quando si scende sul campo attuativo, giacché un`indagine del genere rischia in pratica sovente di ledere il principio della separazione dei poteri. Infatti le scelte della P.A., nel considerare una determinata attività rumorosa, contemperano (o dovrebbero farlo), svariati interessi – che vanno dalle esigenze produttive, economiche, turistiche locali alla particolare utilità che può derivare ad una collettività dall`esercizio di una specifica attività lavorativa – e sono espressione di quella “opportunità amministrativa”, insindacabile da parte del giudice ordinario.
Si verifica però spesso che i regolamenti comunali e le ordinanze del sindaco si limitano a circoscrivere nel tempo le attività rumorose, senza indicarle analiticamente. In casi del genere, trattandosi evidentemente di una omissione degli organi della P.A. e non di una loro meditata scelta, riteniamo possa sostenersi l`opportunità e la legittimità di un`indagine del giudice circa il carattere rumoroso o meno dell`attività esercitata, al fine di accertare la sussistenza della contravvenzione.
Sarebbe però auspicabile (pur ravvisandosene le concrete difficoltà) che il magistrato, nella suddetta valutazione, non rimanesse ancorato al criterio semplicistico di considerare rumorose tutte quelle attività idonee a molestare il “senso auditivo dei terzi” (secondo l`insegnamento della Suprema Corte), ma tenesse conto di quel complesso di interessi (diritto al lavoro, esigenze della produzione, vantaggi per l`economia, utilità per i consociati ecc.) alla cui tutela deve essere improntata l`azione della P.A.; altrimenti fattispecie simili finirebbero con l`essere regolate diversamente a seconda che la valutazione sulla rumorosità sia effettuata da organi amministrativi o, in via sostitutiva, dal giudice ordinario.
Questa diatriba non dovrebbe avere più giustificazione con l`introduzione nel nostro ordinamento – da parte del menzionato D.P.C.M. del `91 e di quelli emanati nel `97 in attuazione della legge-quadro sull`inquinamento acustico – degli standars massimi di tollerabilità delle emissioni sonore, avendo detto decreto operato, in via generale ed astratta, quel contemperamento dei diversi interessi confliggenti precedentemente devoluto alle Autorità locali o al giudice.
Pacificamente si ritiene, poi, che la contravvenzione di cui al cpv. dell`art. 659 sia da inquadrare nella categoria delle c.d. norme penali in bianco, in quanto incompleta o imperfetta, contenendo unicamente la sanzione e non il precetto, per il quale occorre far riferimento ad altre disposizioni di legge o a provvedimenti amministrativi.
Logica conseguenza è che, in assenza di specifici divieti relativi ad una determinata attività rumorosa (integranti appunto il precetto della suddetta norma penale), non si possa applicare la prevista sanzione, e quindi il reato non sussiste; l`esercizio dell`attività rumorosa, quantunque cagioni un effettivo disturbo per la pubblica quiete, deve, infatti, ritenersi legittimo in applicazione del fondamentale principio della libertà del lavoro, fatta salva comunque la tutela civilistica di cui si è parlato prima. Ovviamente, qualora l`esercente produca rumori estranei all`attività, o volutamente sproporzionati rispetto all`esercizio normale o consuetudinario di essa, dovrà rispondere del reato di cui al primo comma dell`articolo in esame che, come si è detto, può essere commesso da “chiunque”, quindi anche da lui.
A questo proposito è opportuno ricordare che la menzionata contravvenzione deve ritenersi sussistente non solo quando nell`ambito di un`attività lavorativa siano prodotti rumori estranei o comunque esorbitanti dalla stessa, ma anche quando siano causati rumori inerenti all`attività, che però siano eliminabili col ricorso ad opportuni accorgimenti tecnici, elaborati dalla più progredita scienza.
Come si diceva, il precetto della norma di cui al cpv. dell`art. 659 c.p. deve ricercarsi altrove, in “disposizioni di legge” o “prescrizioni dell`Autorità”.
Tra le prime non può annoverarsi, secondo l`insegnamento della Suprema Corte, l`art. 844 c.c., ma certamente rientrano i precetti dettati dal T.U. delle leggi sanitarie (R.D. 27 luglio 1934, n. 1265) con gli artt. 216, 217 e 218, in quanto la categoria delle industrie insalubri comprende senza dubbio quelle rumorose.
Tra le “prescrizioni dell`Autorità” sono stati sempre posti in prima linea i regolamenti comunali e le ordinanze del sindaco. Infatti il Regolamento di attuazione della legge comunale e provinciale del 1908 (R.D. 12 febbraio 1911, n. 297), indicava all`art. 109 (n. 10), tra le materie la cui disciplina veniva delegata ai comuni attraverso i regolamenti di polizia urbana, “l`esercizio delle professioni e dei mestieri rumorosi” inoltre, l`art. 66 del T.U. leggi di pubblica sicurezza (R.D. 19 giugno 1931, n. 733) sanciva che l`esercizio delle dette attività doveva “essere sospeso nelle ore determinate dai regolamenti locali o dalle ordinanze del sindaco”.
Senonché entrambe le dette norme sono state recentemente abrogate: la prima dalla L. 8 giugno 1990, n. 142 (art. 64, lett. a); la seconda dal D.L.vo 13 luglio 1994, n. 480 (art. 13).
Di certo, invece, rientra a pieno titolo tra “le prescrizioni dell`Autorità”, che integrano il precetto dell`art. 659 cpv. in questione, il D.P.C.M. 1 marzo 1991, sia che lo si consideri regolamento generale, sia che lo si ritenga atto generale della P.A., per cui la violazione delle sue disposizioni deve intendersi sanzionata con l`ammenda prevista dalla suddetta norma codicistica.
Per quanto concerne, invece, la contravvenzione di cui al primo comma dell`art. 659, le prescrizioni del D.P.C.M. costituiscono soltanto un utile parametro di riferimento, potendosi configurare disturbo della pubblica quiete anche nell`ipotesi di emissioni rumorose contenute nei limiti di accettabilità del decreto.
Tra le contravvenzioni previste dall`art. 659 è ipotizzabile, peraltro, il concorso, ad esempio quando l`attività rumorosa venga effettuata fuori dagli orari consentiti e con produzione di rumori non inerenti o necessari al suo svolgimento.
La norma in esame, per quanto concerne il regime sanzionatorio, prevede la pena alternativa (arresto fino a tre mesi o ammenda fino a lire 600.000) relativamente alla contravvenzione del primo comma, mentre la sola pena pecuniaria (ammenda da lire 200.000 a lire 1.000.000) per quella prevista dal capoverso. Entrambe le ipotesi di reato sono, quindi, estinguibili per oblazione: la seconda, per effetto di quella “comune” (art. 162 c.p.), che prevede il pagamento di un terzo del massimo della pena edittale (cioè lire 333.333) prima dell`apertura del dibattimento o dell`emissione del decreto penale di condanna; l`altra, invece, per effetto della c.d. oblazione “speciale” (art. 162 bis, c.p.), con il pagamento – entro il medesimo termine – della metà del massimo dell`ammenda (cioè lire 300.000).
Com`è noto, la differenza saliente tra le due forme di oblazione non è però da individuare tanto nella misura della somma da pagare da parte del contravventore, quanto nella “discrezionalità” o meno del giudice di consentirla. Infatti, contrariamente all`altra, l`oblazione c.d. speciale può non essere ammessa dal pretore, avuto riguardo alla gravità del fatto, alla personalità dell`imputato, o quando questi – pur avendone la possibilità – non abbia eliminato gli effetti dannosi o pericolosi del reato.
Il diverso regime sanzionatorio delle due contravvenzioni suddette, e le conseguenze pratiche da esso derivanti, danno la misura della differente valutazione – da parte del legislatore del`31 – della loro gravità, i cui effetti tuttora permangono nel nostro ordinamento.
Qualcuno, a tal proposito, ha ipotizzato de iure condendo l`unificazione delle due fattispecie incriminatrici ed il riconoscimento di rilevanza penale solo a quella fenomenologia rumorosa idonea a pregiudicare le condizioni psico-fisiche di più persone.
E’ importante evidenziare che la legge-quadro sul rumore (n. 477/1995), ripetutamente richiamata, mette ora in discussione la sussistenza stessa del reato di cui al secondo comma dell`art. 659 c.p., in quanto l`art. 10, comma 2, commina la semplice sanzione amministrativa per “chiunque nell`esercizio o nell`impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, superi i valori limite di emissione o di immissione”. Tale norma – peraltro di contenuto più ampio della prima, riferendosi a “chiunque” e non solo a chi eserciti professioni o mestieri per loro natura fonti di rumore – avrebbe depenalizzato, in forza del principio di specialità di cui all`art. 9, L. n. 689/1981, la previsione codicistica. In tal senso è il prevalente orientamento della Corte Suprema di cassazione (sez. I, 21 gennaio 1997, n. 2359, Marasco Petromilli; 19 giugno 1997, n. 4199, Sansalone; 10 novembre 1997, n. 11113, Antonazzo; 26 marzo 1998, n. 1789, Girolimetti). Contrasta con tale orientamento una isolata decisione della stessa I sezione (29 novembre 1996, n. 2646, P.M. in proc. Giacomelli), che esclude detta depenalizzazione. Secondo altre sentenze (sez. I, 4 luglio 1997, n. 8589, Vita; 3 marzo 1998, n. 1295, Herpel), la norma della L. n. 447/1995 non può considerarsi abrogatrice in toto dell`art. 659, comma 2, c.p., che conseva comunque un ambito di applicazione più ristretto, comprendendo ogni violazione diversa da quella riguardante la regolamentazione dell`inquinamento acustico.
Un`altra norma della legge-quadro suddetta (art. 9) prevede, poi, la possibilità di emanare “ordinanze contingibili e urgenti” – da parte di sindaco, presidente della provincia, presidente della giunta regionale, prefetto, Ministro dell`ambiente, Presidente del Consiglio dei Ministri – al fine di contenere o abbattere emissioni sonore, anche ricorrendo all`inibitoria parziale o totale di determinate attività. In caso di inottemperanza ad ordinanze del genere, evidentemente, potrà configurarsi, ove ne ricorrano le condizioni, la contravvenzione di cui all`art. 650 c.p.
Ulteriori disposizioni del codice penale in qualche modo utilizzabili per combattere il fenomeno rumore, seppure non specificamente destinate a tale scopo, sono gli artt. 437, 451, 590, sul pacifico presupposto che da un`attività lavorativa rumorosa possono derivare lesioni personali di varia portata agli “addetti ai lavori”.
Le prime due norme – che trovano collocazione codicistica tra i delitti contro l`incolumità pubblica – riguardano le ipotesi, rispettivamente dolosa e colposa, di rimozione od omissione di cautele o difese contro gli infortuni sul lavoro, con la differenza che la prima è finalizzata a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, mentre la seconda semplicemente a minimizzare i danni derivanti da un evento già verificatosi.
I detti reati, tutelando l`incolumità pubblica nell`ambiente di lavoro, sussistono solo quando il pericolo di infortuni minacci non singoli lavoratori ma un numero indeterminato di essi, anche se settorialmente delimitato. Infine deve segnalarsi che parte di dottrina e giurisprudenza, ancorandosi alla lettera della legge, non ritiene applicabili le due norme in questione alle malattie professionali, giacché queste non rientrerebbero nella categoria degli infortuni sul lavoro.
L`art. 590 c.p. contempla, invece, il reato di lesioni personali colpose.
Esso ricorre – per quanto concerne la nostra problematica – tutte le volte che al datore di lavoro (dirigente o preposto) sia addebitabile – per negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline – una malattia professionale collegabile al rumore, riportata da un dipendente. Generalmente si tratta di ipoacusia o sordità, ma il reato può ipotizzarsi anche in relazione alla lesione di altri organi o funzioni, compromessi da un ambiente lavorativo particolarmente rumoroso.
Non sempre però è agevole stabilire la responsabilità dell`imputato in ordine al reato in questione, essendo delicato e problematico l`accertamento in concreto del nesso causale tra l`attività lavorativa rumorosa ed in particolare il danno auditivo, in quanto nella produzione della morbilità confluiscono sovente altre concause (ad esempio precedenti esposizioni in altri ambienti di lavoro, fattori extraprofessionali, socioacusia, ecc.).
Tra gli specifici rimedi penali contro il rumore, posti da leggi speciali, devono menzionarsi gli artt. 19 e 24 del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l`igiene del lavoro).
Con la prima si prescrive, infatti, il maggior isolamento possibile per le lavorazioni insalubri, tra cui rientrano quelle rumorose; con la seconda si impone ai datori di lavoro di adottare – anche nelle lavorazioni rumorose – gli accorgimenti suggeriti dal progresso tecnologico per attenuarne le conseguenze dannose.
Entrambi i precetti sono sanzionati dal successivo art. 58, lett. b), con l`ammenda da lire 500.000 a lire 1.000.000, configurandosi così due tipiche ipotesi contravvenzionali, la cui portata ovviamente è limitata alla tutela dal rumore negli ambienti di lavoro (sia a favore dei lavoratori che dei terzi estranei in essi occasionalmente presenti).
Il citato art. 24 è stato, negli ultimi tempi, ripetutamente tracciato di incostituzionalità, e denunciato alla Consulta da giudici di merito, per pretesa violazione sia del principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.) sia di quello di uguaglianza (art. 3 Cost). Infatti, dalla mancata previsione nel nostro ordinamento dei limiti massimi di tollerabilità dei rumori negli ambienti di lavoro, discenderebbe – ad avviso dei giudici rimettenti – sotto il primo profilo, l`impossibilità per gli imputati, che non conoscono i limiti di accettabilità, di adeguare la propria condotta alla volontà della legge, e, sotto il secondo profilo, una “posizione deteriore” dei giudicabili rispetto a coloro che, invece, possono esattamente conoscere la chiara e precisa volontà delle disposizioni normative. In definitiva è stata evidenziata l`impossibilità per il cittadino, destinatario della norma, di desumere da essa una precisa regola di condotta, nonché quella di supplire alla detta omissione del legislatore, ad opera del giudice, senza incorrere nella violazione degli artt. 70 e 101 Cost.
Si ricorda incidentalmente, a tal proposito, che la fissazione (e la revisione periodica) dei limiti massimi di accettabilità delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro – delegata dalla legge istitutiva del Servizio sanitario (L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 4, u.c.) al Presidente del Consiglio – non è stata finora effettuata, se non indirettamente, con il citato recente D.L.vo n. 277 del 1991 (artt. 38-49). Così pure non è stato ancora emanato il testo unico in materia di sicurezza del lavoro da parte del Governo, che avrebbe dovuto provvedervi entro il 31 dicembre 1979, ai sensi dell`art. 24/I della medesima legge.
Tornando all`art. 24 del D.P.R. n. 303/1956, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 475 del 20-27 aprile 1988, ha confermato la legittimità della norma, rilevando che la stessa non può considerarsi “in bianco” giacché “delibera compiutamente” il precetto, pur rimandando ai suggerimenti della tecnica, da intendersi quali “elementi normativi della fattispecie”. Inoltre, la decisione richiama il D.P.R. 5 maggio 1975, n. 146 che, seppure ad altri fini, individua – come pregiudizievole alla salute – l`esposizione a rumori superiori a 95 decibel in luogo aperto o ad 85 decibel in luogo chiuso, per sottolineare che il nostro ordinamento giuridico non è, al postutto, completamente privo di indicazioni in materia, tanto da consentire al giudice di “orientare il suo giudizio ed esprimere il suo prudente apprezzamento, sia pure con l`ausilio di consulenza o perizia”, ed all`imprenditore di adottare gli accorgimenti del caso.
Meritano un richiamo, infine, le contravvenzioni previste dagli artt. 374 e 377 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), che impongono al datore di lavoro rispettivamente di mantenere in buono stato di conservazione ed efficienza impianti, macchine, apparecchi ecc. e di “mettere a disposizione dei lavoratori mezzi personali di protezione appropriati ai rischi inerenti alle operazioni effettuate, qualora manchino o siano insufficienti mezzi tecnici di protezione”.
Il menzionato art. 24 del D.P.R. n. 305/1956, come pure gli artt. 4 e 5 dello stesso decreto, sono stati però espressamente abrogati (limitatamente al danno uditivo il primo, ed all`esposizione al rumore gli altri) dall`art. 56, lett. c) del D.L.vo n. 277/1991.
Ne discende che la contravvenzione prevista dall`art. 24 resta ancora in vigore non solo per le lavorazioni che producono scuotimenti e vibrazioni, ma anche – relativamente al rumore – per i danni provocati ad organi diversi da quello dell`udito.
Il successore, comunque, della citata norma è l`art. 41 del D.L.vo n. 277/1991 che impone (sanzionando l`inosservanza con l`ammenda da lire 15.000.000 a lire 50.000.000) al datore di lavoro di ridurre al minimo “in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dall`esposizione al rumore mediante misure tecniche organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte”. Tale norma ha destato notevoli perplessità proprio per l`inciso “concretamente attuabili”, tanto da far definire “decreto antisicurezza” il provvedimento in questione, che segna un deciso passo indietro sotto il profilo della tutela del lavoratore. E’ stato, infatti, osservato che, mentre l`art. 24, D.P.R. n. 303/56 si proponeva di diminuire l`intensità del rumore, l`art. 41 in esame è soltanto finalizzato a minimizzare i rischi da esposizione allo stesso, pur privilegiando gli interventi alla fonte, per cui il minimo rischio è considerato in termini relativi e non assoluti. Pertanto, alla luce della nuova normativa, è da ritenersi superato il rigoroso indirizzo giurisprudenziale affermatosi in precedenza secondo cui l`impossibilità materiale di adottare misure idonee a ridurre oltre un certo limite l`intensità del rumore non può che portare a rinunciare alla lavorazione pericolosa.
Si segnala, però, in proposito una recente e confortante decisione della Suprema Corte (Cass. pen., sez. III, 17 febbraio 1995, n. 3437), secondo cui, quando la legge parla di “concreta attualità”, non intende riferirsi al parametro dei costi effettivi che l`azienda dovrebbe sostenere, bensì a quello delle conoscenze tecnico-scientifiche raggiunte, in funzione della primaria tutela della salute del lavoratore.
Il decreto n. 277 pone poi una serie di obblighi (concernenti la formazione e l`informazione dei dipendenti, la protezione degli stessi, i controlli sanitari, la progettazione, costruzione e realizzazione di nuovi impianti o fabbriche, ecc.) a carico di datori di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori, medici, produttori e commercianti, creando numerose ipotesi di reato (contravvenzioni) in caso di inosservanza di essi.
Si richiama, infine, il già menzionato D.L.vo 19 settembre 1994, n. 626, modificato dal D.L.vo 19 marzo 1996, n. 242 (ved. sub voce “Lavoro”) che, prescrivendo misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro in tutti i settori di attività privati o pubblici, riguarda ovviamente anche il problema del rumore e prevede ulteriori contravvenzioni di differente gravità (artt. 89-93), con pena in genere alternativa, a carico delle medesime categorie prese in considerazione dal D.L.vo n. 277/1991 (datori di lavoro e dirigenti, preposti, commercianti e installatori, medici competenti, lavoratori).
Il “rumore“ del traffico
Indagini esperite qualche anno fa nei principali centri urbani nazionali, con adeguata strumentazione tecnica, rivelarono che il c.d. rumore stradale mediamente raggiungeva i 75/80 decibel.
In qualche caso tale soglia figurava anche abbondantemente superata, come ad
esempio a Messina, con oltre 106 decibel.
Analoghi accertamenti svolti in altre città europee, con elevato traffico stradale, hanno dato risultati non di molto migliori.
In effetti il problema è particolarmente grave nelle città della vecchia Europa, in quanto le strade “centrali” con traffico intenso sono mediamente più strette ed attraversano zone residenziali; inoltre i propulsori delle automobili europee hanno generalmente una coppia motrice minore per cui vengono impiegati a numeri di giri più alti.
Ora se si pensa che, per star bene, l`uomo non dovrebbe essere esposto a rumori comunque superiori ai 60 decibel, si comprende la gravità della situazione per la salute collettiva, tanto che qualcuno ha previsto, catastroficamente, una futura generazione di sordi.
Per fortuna non tutti vivono in grandi centri urbani!
Le sorgenti di rumore normali in un autoveicolo in moto sono costituite principalmente dal motore, dai pneumatici, dall`impatto della carrozzeria con l`aria, nonché dai freni, quando vengono azionati. E’ stato osservato al proposito che l`intensità del rumore del motore alla massima potenza è superata da quella del rumore di rotolamento dei pneumatici, per velocità superiori agli 80 km/h, e da quella del rumore derivante dalla turbolenza dell`aria sulla superficie del veicolo, per velocità superiori ai 100 km/h.
Compongono il rumore stradale, però, anche le emissioni sonore prodotte dai dispositivi di segnalazione acustica. Questo senza considerare i rumori causati da comportamenti incivili degli utenti della strada, con inutili accelerazioni o stridii di pneumatici, eliminazione di marmitte a solo scopo esibizionistico ecc.
Abbiamo già visto come il legislatore comunitario abbia preso coscienza della gravità del fenomeno, seppure negli ultimi tempi, cercando di ovviarvi.
Per quanto riguarda la normativa nazionale, occorre far riferimento in un primo luogo, ovviamente, al codice della strada (v. voce “Veicoli”).
Come il vecchio T.U. 15 giugno 1959, n. 393, anche il nuovo codice (D.L.vo 30 aprile 1992, n. 285) e relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495) dedicano particolare attenzione al problema della limitazione dei rumori connessi al traffico veicolare, quantunque con la previsione di semplici violazioni amministrative. Devono poi segnalarsi la L. 27 dicembre 1973, n. 942, riguardante l`omologazione dei veicoli a motore, nonché i vari decreti ministeriali attuativi della disciplina comunitaria.
L`art. 72 del codice della strada, concernente l`equipaggiamento dei veicoli a motore, prescrive l`adozione di dispositivi di segnalazione acustica e di dispositivi silenziatori omologati dal Ministero dei trasporti, Direzione generale della M.C.T.C., nel rispetto delle direttive comunitarie.
L`art. 155, comma 1, in parte ripetendo il vecchio art. 112, pone la regola generale: “durante la circolazione si devono evitare rumori molesti causati dal modo di guidare i veicoli, specialmente se a motore, sia dal modo in cui è sistemato il carico e sia da altri atti connessi con la circolazione stessa”.
E’ evidente il riferimento a quelle condotte di guida incivili di cui sopra si è detto, ad esempio di chi porta il motore ad un numero di giri eccessivamente elevato, fa stridere freni o pneumatici, ecc. I commi successivi impongono specificamente di mantenere in buone condizioni di efficienza e di non alterare il dispositivo silenziatore; di regolare gli apparecchi radiofonici o di riproduzione sonora di bordo entro i limiti massimi fissati dal regolamento; di tarare i dispositivi di allarme acustico in modo da impedire la prolungata emissione di suoni. I limiti sonori massimi, sia degli apparecchi radio e di riproduzione che dei dispositivi di allarme, sono poi fissati dall`art. 350 del regolamento di attuazione.
L`art. 156 impone ai guidatori, ricalcando l`art. 113 del vecchio codice, la massima moderazione nell`uso dei dispositivi di segnalazione acustica, cui può farsi ricorso soltanto ai fini della sicurezza stradale e per il minor tempo possibile. La norma distingue, poi, a seconda che ci si trovi in centro abitato o meno. Nel primo caso, vieta le dette segnalazioni, tranne che per “effettivo e immediato pericolo”; nell`altro caso le consente “ogni qualvolta le condizioni ambientali o del traffico lo richiedano al fine di evitare incidenti, in particolare durante le manovre di sorpasso”. Infine, sono esonerati dai divieti di uso dei dispositivi acustici i conducenti di veicoli che trasportano feriti o ammalati gravi. La norma, quindi, cerca di contemperare l`esigenza di impedire rumori molesti con quella della sicurezza del traffico, privilegiando in genere la prima, tranne casi eccezionali.
Interessante e innovativo, infine, il disposto dell`art. 227 che impone agli enti proprietari delle strade di installare, ove necessario, dispositivi di monitoraggio anche per il rilevamento dell`inquinamento acustico.
Per tutta la normativa riguardante il rumore da traffico, si veda la voce “Veicoli (e aree urbane)”.
Per quanto concerne il traffico aereo, occorre ricordare che il c.d. rumore da sorvolo, che interessa soprattutto le zone aeroportuali e le aereovie maggiormente frequentate, si presenta in continua crescita e supera di gran lunga il valore di LAeq della pressione sonora ambientale derivante dall`insieme di sorgenti sonore presenti sul territorio. L`art. 9 della L. 13 maggio 1983, n. 213, modificando l`art. 771 del codice della navigazione, ha introdotto, tra i documenti di bordo obbligatori per tutti i velivoli ad eccezione degli alianti, il “certificato acustico”, i cui requisiti e le modalità per ottenerlo sono stati fissati dal D.M. 3 dicembre 1983 (Certificazione acustica dei velivoli), attuativo della predetta legge e delle direttive comunitarie in materia.
Il menzionato decreto ha in sostanza subordinato “l`impiego di qualsiasi velivolo subsonico civile a reazione o velivolo civile ad elica” al possesso del certificato acustico, rilasciato dal R.A.I. (Registro aeronautico italiano) ai velivoli aventi determinate caratteristiche tecniche.
Merita un cenno, altresì, il D.P.R. 4 luglio 1985, n. 461 (con cui sono stati recepiti nell`ordinamento interno i principi generali contenuti negli allegati alla convenzione di Chicago del 1944, relativa all`aviazione civile internazionale) per il contenuto dell`art. 18: “Al fine di fornire all`ambiente naturale ed umano una adeguata protezione dalle emissioni sonore degli aeromobili…. il Ministro dei trasporti con proprio decreto…. emanerà le conseguenti disposizioni tecniche, idonee a dare attuazione al principio generale sopra delineato, tenuto conto di quanto previsto dall`allegato 16 “protezione dell`ambiente” alla convenzione relativa all`aviazione civile internazionale…., nonché dal decreto del Ministro dei trasporti in data 3 dicembre 1983 concernente la “certificazione acustica dei velivoli”“.
Con la legge 26 giugno 1990, n. 165 (art. 10), poi, è stata istituita un`imposta erariale per gli aeromobili, in aggiunta ai diritti di approdo e partenza, commisurata alla rumorosità degli stessi. Tale imposta è destinata in buona parte ai Ministeri dei trasporti e dell`ambiente per il disinquinamento acustico soprattutto delle zone aeroportuali ed il potenziamento dei servizi tecnici di controllo dello stato dell`ambiente. Inoltre, un`imposta erariale regionale sulle emissioni sonore – da destinarsi, tramite i competenti assessorati regionali, a sovvenzioni ed indennizzi alle amministrazioni ed ai soggetti residenti nelle zone limitrofe agli aeroscali – è stata recentemente istituita dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449 (art. 18).
Si segnala, ancora, il D.M. 19 dicembre 1994 del Ministero dei trasporti e della navigazione, che pone ulteriori limitazioni per i veicoli subsonici a reazione, in conformità del programma di azione della CEE in materia ambientale ed in attuazione della menzionata direttiva comunitaria n. 89/629 del 4 dicembre 1989, nonché il D.M. 31 ottobre 1997, che stabilisce la metodologia di misura del rumore aeroportuale, limitatamente al traffico civile nella fase di movimentazione.
A tale proposito deve evidenziarsi il D.P.R. 11 dicembre 1997, n. 496, modificato dal D.P.R. 9 novembre 1999, n. 476 – emanato in attuazione dell`art. 11, L. n. 447/1995 – con cui sono state fissate le modalità per il contenimento e l`abbattimento del rumore prodotto dagli aeromobili civili nelle attività aeroportuali, tra cui spicca: il divieto di voli notturni (dalle ore 23 alle ore 6 locali), tranne tassative eccezioni sottoposte comunque a maggiori cautele; la verifica, con cadenza almeno biennale, dei limiti di emissione degli aeromobili; la previsione di sanzioni amministrative per la violazione di procedure antirumore; la presentazione ai Comuni interessati di piani di abbattimento e contenimento del rumore da parte degli enti gestori degli aeroporti.
Si segnalano altresì il D.M. (Ambiente) 20 maggio 1999 ed il D.M. 3 dicembre 1999. Col primo si stabiliscono i criteri per la progettazione dei sistemi di monitoraggio per il controllo dei livelli di inquinamento acustico in prossimità degli aeroporti, nonché i criteri per la classificazione degli aeroporti in relazione al livello di inquinamento acustico; col secondo si definiscono i criteri delle procedure antirumore ed i confini delle aree di rispetto negli aeroporti. A tal proposito è interessante sottolineare che i nuovi insediamenti abitativi realizzati nelle suddette aree di rispetto sono stati espressamente assoggettati alle prescrizioni del menzionato D.P.C.M. 5 dicembre 1997 recante “Determinazione dei requisiti acustici passivi degli edifici”.
Con Decreto 28 marzo 1995, il Ministro dei trasporti e della navigazione, di concerto con il Ministro dell`ambiente, ha dato attuazione alla menzionata direttiva CEE 92/14 in tema di limitazione delle emissioni sonore dei velivoli subsonici a reazione, introducendo ulteriori e più rigorose prescrizioni soprattutto con decorrenza 1 aprile 2001.
Relativamente al traffico ferroviario, si ricorda innanzitutto che il regolamento delle ferrovie dello Stato non consente fischi acuti, ma moderati, vietandone comunque l`abuso in prossimità dell`abitato (art. 8).
Nel gennaio 1999 è stato finalmente pubblicato il Regolamento di esecuzione in materia di inquinamento acustico derivante da traffico ferroviario (emanato con D.P.R. 18 novembre 1998, n. 459, anch`esso in attuazione dell`art. 11, L. n. 447/1995 sopra menzionato), che stabilisce le norme per la prevenzione ed il contenimento dell`inquinamento da rumore avente origine dall`esercizio delle infrastrutture (materiale rotabile, binari, stazioni, scali, parchi, piazzali e sottostazioni elettriche) delle ferrovie e delle linee metropolitane di superficie, con esclusione delle tramvie e delle funicolari. Il decreto individua le fasce territoriali di pertinenza delle infrastrutture esistenti e di nuova realizzazione, stabilendo valori limite assoluti di immissione del rumore, anche in relazione alle infrastrutture del sistema c.d. “ad alta velocità”, con un trattamento privilegiato per scuole, ospedali, case di cura e case di riposo.
Con D.M. (Ambiente) 16 marzo 1998, inoltre, sono state stabilite le tecniche di rilevamento e di misurazione dell`inquinamento da rumore – in attuazione dell`art. 3, comma 1, lett. c), L. n. 447/1995 – con previsione di distinte metodologie per misurare il rumore ferroviario e quello stradale.
Per finire, si richiama l`art. 10 del R.D.L. 9 maggio 1932, n. 813 (Disposizioni sulla circolazione dei motoscafi e delle imbarcazioni a motore) che prescrive l`adozione di “almeno un apparecchio silenziatore o di un dispositivo atto ad eliminare o ad attenuare i rumori”, vietando “qualsiasi alterazione od applicazione di dispositivi che annulli o riduca gli effetti dell`apparecchio silenziatore”.
Importante senz`altro, a proposito di traffico, è ancora una volta la legge-quadro sul rumore (L. n. 447/1995), in quanto, tra i provvedimenti per la limitazione delle emissioni sonore di cui al comma 5 dell`art. 2, inserisce anche i piani dei trasporti urbani ed extraurbani e i piani urbani del traffico, la pianificazione e gestione del traffico stradale, aeroportuale, ferroviario e marittimo.
La tutela dell`inquinamento acustico viene così finalmente assunta tra i fattori concorrenti alla formazione delle scelte di pianificazione e governo del territorio.
Conclusioni
Questa panoramica dell`attuale “disponibilità normativa” in materia di rumore e inquinamento sonoro, certamente non esaustiva, vuole essere un contributo giuridico “pratico” alla difesa dell`ambiente e quindi della salute, offrendo agli interessati una bussola che – indicando quanto meno i punti cardinali – consenta loro un orientamento più agevole tra le varie disposizioni vigenti.
La difficoltà di orizzontarsi deriva essenzialmente dal fatto che, nel nostro ordinamento, come si è visto, mancava – fino a poco fa – una normativa specifica contro il fenomeno rumore correlato al danno alla salute, per cui si era costretti a far riferimento ad altre disposizioni “polivalenti”, adattandole alla bisogna. Tra qualche anno, quando sarà finalmente operativa la legge-quadro sul rumore, che però necessita di tanti (forse troppi) provvedimenti attuativi, e delle indispensabili norme di finanziamento, la situazione dovrebbe, radicalmente mutare. Con la legge n. 447/1995 si è, infatti, raggiunta finalmente la consapevolezza della necessità di un`efficace e decisa azione preventiva sulle potenziali sorgenti di degrado ambientale nonché dell`esigenza di considerare le sorgenti sonore (di qualsiasi natura: impianti fissi, infrastrutture stradali, linee di trasporto, ecc.) quali punti di riferimento imprescindibili nella pianificazione ed organizzazione del territorio destinato ad ospitarle.
Ritengo, comunque, che anche attualmente gli strumenti utilizzabili per raggiungere soddisfacenti risultati nella lotta al rumore ed all`inquinamento sonoro siano, tutto sommato, sufficienti.
Oltre alla normativa citata, meritano particolare attenzione, a tal proposito: L. 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell`ambiente (artt. 2, 6, 18); L. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario nazionale (artt. 4, 14, 20); D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, sul decentramento amministrativo (artt. 101, 102, 104).
Nel frattempo sarebbe auspicabile una più decisa azione dell`autorità amministrativa, che ha al suo arco molte frecce, troppo spesso inutilizzate. Infatti, attraverso l`adeguato esercizio da parte dei Comuni della potestà regolamentare in materia di igiene, riconosciuta dall`ordinamento come espressione dell`autonomia normativa comunale; mediante l`applicazione delle richiamate disposizioni del T.U.L.S. nei confronti di manifatture o fabbriche insalubri; e soprattutto con l`adozione, nei casi consentiti, dei provvedimenti contingibili ed urgenti da parte del sindaco, quale ufficiale di Governo, o del prefetto, in funzione surrogatoria, potrebbero essere eliminate sul nascere molte sorgenti di rumore, senza attendere l`intervento, solitamente repressivo, dell`autorità giudiziaria.
Questa è, del resto, la strada individuata ed indicata, già molti anni orsono, dalla Corte costituzionale secondo la quale “la eliminazione delle cause che ledono e pongono in pericolo la salute pubblica non è compito dell`autorità giudiziaria e non può essere affidata al pronto intervento della stessa”, ma è “affidata dalla Costituzione ad organi amministrativi”.
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