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Modello Organizzativo, OdV, deleghe: la più recente posizione della Cassazione sulla 231 ambiente
di Giulia Guagnini
Categoria: Responsabilità ambientali
Premessa Con la recentissima sentenza n. 9132 del 24 febbraio 2017 la Corte di Cassazione (Sez. III Penale) si è pronunciata in merito all’applicazione della disciplina contenuta nel D.L.vo n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti, per quanto riguarda specificamente la materia ambientale.
La sentenza n. 9132/2017: le argomentazioni dei giudici La sentenza n. 9132/2017 analizza una fattispecie riguardante il reato ex art. 256, comma 4, D.L.vo n. 152/2006 (che sanziona l’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché le ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni), con connessa applicabilità – per quanto riguarda la Società per azioni coinvolta – dell’illecito amministrativo ex art. 25-undecies, comma 1, lett. a) (“Inquinamento ambientale”), e comma 6[1], D.L.vo n. 231/2001.
I consiglieri di amministrazione della Società, in particolare, secondo l’accusa non avevano osservato le prescrizioni autorizzative per l’impianto di gestione rifiuti (autorizzato al recupero in forma semplificata ai sensi dell’art. 216, D.L.vo n. 152/2006) in quanto “non avevano conservato presso l’impianto i referti analitici dei rifiuti … non avevano eseguito una puntuale verifica dei rifiuti in entrata, al fine di catalogarli adeguatamente … avevano omesso di conservare presso l’impianto i registri di carico e scarico dei rifiuti … avevano omesso di apporre la prevista segnaletica nei silos di deposito rifiuti”. La Società rispondeva, invece, dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-undecies, D.L.vo n. 231/2001 perché “aveva reso possibile la consumazione, nel proprio interesse, del reato sopra indicato a causa dell’assenza di un modello organizzativo riguardante le procedure da adottare in materia di rispetto dell’ambiente, sia relativamente alle prassi operativo-decisionali da adottare che relativamente alla designazione di un organo di controllo e vigilanza sulla corretta esecuzione dei piani”.
La Cassazione, con la succitata sentenza, ha inoltre confermato la sussistenza della responsabilità della Società ai sensi del D.L.vo n. 231/2001, in quanto la stessa “… non deduce in alcun modo se e come lo specifico reato per il quale si procede fosse stato previsto nel modello organizzativo e quali specifiche misure fossero state previste per prevenirne la consumazione da parte degli organismi di vertice”, reputando corretta l’applicazione, alla Società stessa, della sanzione pecuniaria pari a 35.000,00 Euro[2]. Peraltro, la Cassazione rileva che la Società non ha provato “quale fosse l’esclusivo interesse perseguito dai suoi legali rappresentanti nella consumazione del reato loro ascritto posto che, oltretutto, l’intera difesa sviluppata con i numerosi motivi di ricorso, presuppone, da parte della società, il dominio delle azioni rivendicate come lecite.”.
A quanto sopra si aggiunga che nella pronuncia in esame è stato preso in considerazione anche l’istituto della delega di funzioniambientale, ed a questo proposito i giudici hanno affermato quanto segue: “Escluso che le dimensioni dell’impresa costituiscano condizione necessaria per l’esercizio della delega … resta comunque il fatto che, proprio perché la legge costituisce la persona giuridica direttamente responsabile della gestione del ciclo del rifiuto da essa trattato, per attribuirsi rilevanza penale all’istituto della delega di funzioni, è necessaria la compresenza di precisi requisiti: a) la delega deve essere puntuale ed espressa, con esclusione in capo al delegante di poteri residuali di tipo discrezionale; b) il delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; c) la delega deve riguardare non solo le funzioni ma anche i correlativi poteri decisionali e di spesa; d) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo … La mancanza di deleghe di funzioni, nei termini sopra indicati, è fatto che di per sé prova la mancanza di un efficace modello organizzativo adeguato a prevenire la consumazione del reato da parte dei vertici societari.”.
Il reato di inosservanza delle prescrizioni autorizzative In via preliminare rispetto alla disamina degli aspetti inerenti la responsabilità amministrativa degli enti ex D.L.vo n. 231/2001 che assumono rilievo nella presente sentenza, si ritiene opportuno evidenziare che la Cassazione ha esaminato, fra l’altro, un motivo di ricorso attinente la presunta incostituzionalità dell’art. 256, comma 4, D.L.vo n. 152/2006 già citato.
Gli imputati hanno infatti eccepito il contrasto della suddetta norma con l’art, 25 Cost., “sotto il duplice profilo della riserva assoluta di legge e della necessaria offensività del reato”. I giudici hanno ritenuto tale questione di incostituzionalità “malposta e manifestamente infondata”, in quanto “in presenza di regime semplificato le prescrizioni e le cautele che debbono essere rispettate coincidono con quanto previsto in sede di iscrizione da parte della ditta richiedente nel registro delle imprese che effettuano recupero di rifiuti non pericolosi … in realtà, l’inosservanza dei requisiti e delle condizioni previsti nella comunicazione di inizio attività si traduce nell’esercizio dell’attività stessa in assenza dei requisiti richiesti per il suo svolgimento, sia perché in base al combinato disposto di cui agli artt. 214, comma 8, d.lgs. n. 152 del 2006 e 19, legge n. 241 del 1990 (richiamato dall’art. 214, cit.), la comunicazione di inizio attività di cui all’art. 216, comma 1, d.lgs. n. 152, cit., sostituisce l’autorizzazione a tutti gli effetti.”. Pertanto, “ne consegue che la violazione delle prescrizioni contenute nella comunicazione di inizio attività di cui all’art. 214, d.lgs. n. 152 del 2006 integra il reato di cui all’art. 256, comma 4, anche sotto il profilo dell’inosservanza delle prescrizioni in essa richiamate.”. Quanto al principio di offensività, invece, la Corte ribadisce il consolidato indirizzo giurisprudenziale per cui il reato di cui all’art. 256, comma 4, D.L.vo n. 152/2006 ha natura di reato di mera condotta, per la cui integrazione non assume rilievo l’idoneità della violazione a recare concreto pregiudizio al bene finale, atteso che il bene protetto è anche quello strumentale del controllo amministrativo da parte della Pubblica Amministrazione.
E’ stato invece ritenuto fondato il motivo di ricorso attinente il fatto che l’art. 256, comma 4, D.L.vo n. 152/2006 non sanziona direttamente la tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti in luogo diverso da ogni impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento (nel caso di specie, tenuti presso la sede legale della Società), in quanto il suddetto articolo sanziona l’omessa tenuta dei registri tour court. La Cassazione ha dunque annullato con rinvio la sentenza del Tribunale di primo grado per tale parte.
La 231 ambiente Con riferimento ai profili di responsabilità amministrativa della Società coinvolta, si rileva innanzitutto che il riferimento operato dai giudici all’art. 25-undecies, commi 1, lett. a) e 6, D.L.vo n. 231/2001 non appare congruente, in quanto il primo comma (lett. a) rimanda alla violazione dell’art. 452-bis, c.p. (che prevede il reato di “Inquinamento ambientale”), mentre il sesto comma stabilisce che “Le sanzioni previste dal comma 2, lettera b) [che individua le sanzioni per determinati reati di cui all’art. 256, D.L.vo n. 152/2006], sono ridotte della metà nel caso di commissione del reato previsto dall’articolo 256, comma 4[3], del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.”.
Da un esame della fattispecie in questione, il riferimento al comma 1, lett. a) dell’art. 25-undecies, D.L.vo n. 231/2001 non appare pertinente in quanto rimanda alla fattispecie penale dell’“Inquinamento ambientale”: tutt’al più, il rimando avrebbe dovuto essere all’art. 25-undecies, comma 2, lett. b), che, come già rilevato, reca le sanzioni per taluni reati ex art. 256, D.L.vo n, 152/2005 e che, peraltro, è espressamente richiamato proprio dall’art. 25-undecies, comma 6, D.L.vo n. 231/2001.
Nel caso di specie è stata poi rilevata l’assenza non solo di un Modello organizzativo recante le procedure da adottare in materia di ambiente ai fini della prevenzione dei relativi reati-presupposto, ma anche la mancata designazione di un Organismo di Vigilanza idoneo a vigilare sulla “corretta esecuzione dei piani”, ciò che ha determinato l’insorgere della responsabilità della Società coinvolta in virtù del D.L.vo n. 231/2001. Tali circostanze, peraltro, sono state espressamente legate dalla Cassazione alla sussistenza di un “interesse” della Società derivante dalla commissione del reato in questione da parte dei propri consiglieri di amministrazione: si legge infatti che “La società risponde, invece, dell’illecito amministrativo perché aveva reso possibile la consumazione, nel proprio interesse, del reato sopra indicato a causa dell’assenza di un modello organizzativo riguardante le procedure da adottare in materia di rispetto dell’ambiente, sia relativamente alle prassi operativo-decisionali da adottare che relativamente alla designazione di un organo di controllo e vigilanza sulla corretta esecuzione dei piani.”.
A quest’ultimo proposito si rammenta che, affinchè insorga anche la responsabilità amministrativa della Società/ente, quest’ultima deve avere nutrito o tratto, dalla commissione di quel reato da parte della persona fisica, un interesse o vantaggio (v. artt. 5 e 6, D.L.vo n. 231/2001). Nel caso di specie non si comprende come l’assenza di un Modello Organizzativo (che costituisce uno strumento volontario e non un adempimento obbligatorio per legge) possa determinare la sussistenza dell’interesse da parte della Società, che difatti, in sede di ricorso, ha eccepito la mancanza di motivazione della sentenza del Tribunale di Vicenza sul punto. Le argomentazioni proposte dalla Cassazione in sede di rigetto di tale motivo di ricorso, si noti, non sono chiare, in quanto fanno leva sulla circostanza che non fosse stato provato, dalla Società, “l’esclusivo interesse perseguito dai suoi legali rappresentanti nella consumazione del reato loro ascritto”. Com’è agevole notare, i giudici non hanno fornito elementi positivi a supporto dell’individuazione, in concreto, dell’interesse che la Società avrebbe tratto dalla commissione del reato, ma si sono limitati a rilevare – in maniera del tutto apodittica – che tale interesse sussiste in quanto la Società non aveva provato l’interesse esclusivo perseguito dai propri legali rappresentanti.
La delega di funzioni Infine si evidenzia, relativamente all’istituto della delega di funzioni, che nel caso di specie nessuna delle condizioni individuate nel tempo dalla giurisprudenza e ribadite con la sentenza n. 9132/2017 qui in esame risulta essere stata soddisfatta.
Il tema della delega, peraltro, viene legato dalla Cassazione con quello della sussistenza del Modello 231. Infatti, i giudici togati hanno rilevato che “la mancanza di deleghe … è fatto che di per sè prova la mancanza di un efficace modello organizzativo adeguato a prevenire la consumazione del reato da parte dei vertici societari”.
Si tratta, ad avviso di chi scrive, di una posizione eccessivamente netta, in quanto è vero che il tema della delega è connesso con quello dell’adozione di un Modello organizzativo ai sensi del D.L.vo n. 231/2001 efficace ed adeguato, ma ad avviso di chi scrive l’assenza di deleghe non costituisce un elemento ostativo alla predisposizione di un Modello 231 idoneo ai fini della prevenzione della commissione dei reati-presupposto; è peraltro innegabile che l’esistenza di una delega (o di un sistema di deleghe) possa contribuire a rendere il Modello adeguato rispetto agli scopi che si prefigge.
Conclusioni La sentenza n. 9132/2017 della Corte di Cassazione risulta criticabile sotto diversi profili.
Senza contare l’errato riferimento normativo ivi riportato (v. art. 25-undecies, comma 1, lett. a), D.L.vo n. 231/2001), si segnala innanzitutto che il fatto di avere collegato il concetto di “interesse” ai sensi del D.L.vo n. 231/2001 esclusivamente all’adozione di un efficace Modello Organizzativo, che costituisce – ad oggi – uno strumento meramente volontario, appare del tutto ingiustificato.
A ciò si aggiunga che anche l’istituto della delega (che, com’è agevole comprendere, assume rilievo innanzitutto a livello individuale) è stato ritenuto – a parere di chi scrive, immotivatamente – sintomatico dell’inadeguatezza del Modello 231 adottato dalla Società.
Dall’esame di tale pronuncia – ed a prescindere da talune prese di posizione della Cassazione che non risultano del tutto condivisibili – emerge tuttavia chiara la necessità per le Aziende di dotarsi di un Modello Organizzativo idoneo ed efficace a prevenire i reati-presupposto ambientali di cui all’art. 25-undecies, D.L.vo n. 231/2001 e di un Organismo di Vigilanza, pure in assenza di un vero e proprio obbligo di legge.
[1] “Le sanzioni previste dal comma 2, lettera b), sono ridotte della metà nel caso di commissione del reato previsto dall’articolo 256, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.”.
[2] Il calcolo della sanzione riportata nelle argomentazioni della sentenza è stato sviluppato come segue: “sanzione pecuniaria di 35.000,00 euro, pari a cento quote da 35 euro ciascuna”. A prescindere dal fatto che il calcolo risulta errato (100 quote moltiplicate per 35,00 Euro l’una comporta una sanzione totale pari a 3.500,00 Euro, e non a 35.000,00 Euro), si segnala che l’art. 10, comma 3, D.L.vo n. 231/2001 fissa l’importo minimo di una quota in 258,00 Euro.
[3]“Le pene di cui ai commi 1, 2 e 3 sono ridotte della metà nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni”.
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Modello Organizzativo, OdV, deleghe: la più recente posizione della Cassazione sulla 231 ambiente
di Giulia Guagnini
Premessa
Con la recentissima sentenza n. 9132 del 24 febbraio 2017 la Corte di Cassazione (Sez. III Penale) si è pronunciata in merito all’applicazione della disciplina contenuta nel D.L.vo n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti, per quanto riguarda specificamente la materia ambientale.
La sentenza n. 9132/2017: le argomentazioni dei giudici
La sentenza n. 9132/2017 analizza una fattispecie riguardante il reato ex art. 256, comma 4, D.L.vo n. 152/2006 (che sanziona l’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché le ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni), con connessa applicabilità – per quanto riguarda la Società per azioni coinvolta – dell’illecito amministrativo ex art. 25-undecies, comma 1, lett. a) (“Inquinamento ambientale”), e comma 6[1], D.L.vo n. 231/2001.
I consiglieri di amministrazione della Società, in particolare, secondo l’accusa non avevano osservato le prescrizioni autorizzative per l’impianto di gestione rifiuti (autorizzato al recupero in forma semplificata ai sensi dell’art. 216, D.L.vo n. 152/2006) in quanto “non avevano conservato presso l’impianto i referti analitici dei rifiuti … non avevano eseguito una puntuale verifica dei rifiuti in entrata, al fine di catalogarli adeguatamente … avevano omesso di conservare presso l’impianto i registri di carico e scarico dei rifiuti … avevano omesso di apporre la prevista segnaletica nei silos di deposito rifiuti”. La Società rispondeva, invece, dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-undecies, D.L.vo n. 231/2001 perché “aveva reso possibile la consumazione, nel proprio interesse, del reato sopra indicato a causa dell’assenza di un modello organizzativo riguardante le procedure da adottare in materia di rispetto dell’ambiente, sia relativamente alle prassi operativo-decisionali da adottare che relativamente alla designazione di un organo di controllo e vigilanza sulla corretta esecuzione dei piani”.
La Cassazione, con la succitata sentenza, ha inoltre confermato la sussistenza della responsabilità della Società ai sensi del D.L.vo n. 231/2001, in quanto la stessa “… non deduce in alcun modo se e come lo specifico reato per il quale si procede fosse stato previsto nel modello organizzativo e quali specifiche misure fossero state previste per prevenirne la consumazione da parte degli organismi di vertice”, reputando corretta l’applicazione, alla Società stessa, della sanzione pecuniaria pari a 35.000,00 Euro[2]. Peraltro, la Cassazione rileva che la Società non ha provato “quale fosse l’esclusivo interesse perseguito dai suoi legali rappresentanti nella consumazione del reato loro ascritto posto che, oltretutto, l’intera difesa sviluppata con i numerosi motivi di ricorso, presuppone, da parte della società, il dominio delle azioni rivendicate come lecite.”.
A quanto sopra si aggiunga che nella pronuncia in esame è stato preso in considerazione anche l’istituto della delega di funzioni ambientale, ed a questo proposito i giudici hanno affermato quanto segue: “Escluso che le dimensioni dell’impresa costituiscano condizione necessaria per l’esercizio della delega … resta comunque il fatto che, proprio perché la legge costituisce la persona giuridica direttamente responsabile della gestione del ciclo del rifiuto da essa trattato, per attribuirsi rilevanza penale all’istituto della delega di funzioni, è necessaria la compresenza di precisi requisiti: a) la delega deve essere puntuale ed espressa, con esclusione in capo al delegante di poteri residuali di tipo discrezionale; b) il delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; c) la delega deve riguardare non solo le funzioni ma anche i correlativi poteri decisionali e di spesa; d) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo … La mancanza di deleghe di funzioni, nei termini sopra indicati, è fatto che di per sé prova la mancanza di un efficace modello organizzativo adeguato a prevenire la consumazione del reato da parte dei vertici societari.”.
Il reato di inosservanza delle prescrizioni autorizzative
In via preliminare rispetto alla disamina degli aspetti inerenti la responsabilità amministrativa degli enti ex D.L.vo n. 231/2001 che assumono rilievo nella presente sentenza, si ritiene opportuno evidenziare che la Cassazione ha esaminato, fra l’altro, un motivo di ricorso attinente la presunta incostituzionalità dell’art. 256, comma 4, D.L.vo n. 152/2006 già citato.
Gli imputati hanno infatti eccepito il contrasto della suddetta norma con l’art, 25 Cost., “sotto il duplice profilo della riserva assoluta di legge e della necessaria offensività del reato”. I giudici hanno ritenuto tale questione di incostituzionalità “malposta e manifestamente infondata”, in quanto “in presenza di regime semplificato le prescrizioni e le cautele che debbono essere rispettate coincidono con quanto previsto in sede di iscrizione da parte della ditta richiedente nel registro delle imprese che effettuano recupero di rifiuti non pericolosi … in realtà, l’inosservanza dei requisiti e delle condizioni previsti nella comunicazione di inizio attività si traduce nell’esercizio dell’attività stessa in assenza dei requisiti richiesti per il suo svolgimento, sia perché in base al combinato disposto di cui agli artt. 214, comma 8, d.lgs. n. 152 del 2006 e 19, legge n. 241 del 1990 (richiamato dall’art. 214, cit.), la comunicazione di inizio attività di cui all’art. 216, comma 1, d.lgs. n. 152, cit., sostituisce l’autorizzazione a tutti gli effetti.”. Pertanto, “ne consegue che la violazione delle prescrizioni contenute nella comunicazione di inizio attività di cui all’art. 214, d.lgs. n. 152 del 2006 integra il reato di cui all’art. 256, comma 4, anche sotto il profilo dell’inosservanza delle prescrizioni in essa richiamate.”. Quanto al principio di offensività, invece, la Corte ribadisce il consolidato indirizzo giurisprudenziale per cui il reato di cui all’art. 256, comma 4, D.L.vo n. 152/2006 ha natura di reato di mera condotta, per la cui integrazione non assume rilievo l’idoneità della violazione a recare concreto pregiudizio al bene finale, atteso che il bene protetto è anche quello strumentale del controllo amministrativo da parte della Pubblica Amministrazione.
E’ stato invece ritenuto fondato il motivo di ricorso attinente il fatto che l’art. 256, comma 4, D.L.vo n. 152/2006 non sanziona direttamente la tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti in luogo diverso da ogni impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento (nel caso di specie, tenuti presso la sede legale della Società), in quanto il suddetto articolo sanziona l’omessa tenuta dei registri tour court. La Cassazione ha dunque annullato con rinvio la sentenza del Tribunale di primo grado per tale parte.
La 231 ambiente
Con riferimento ai profili di responsabilità amministrativa della Società coinvolta, si rileva innanzitutto che il riferimento operato dai giudici all’art. 25-undecies, commi 1, lett. a) e 6, D.L.vo n. 231/2001 non appare congruente, in quanto il primo comma (lett. a) rimanda alla violazione dell’art. 452-bis, c.p. (che prevede il reato di “Inquinamento ambientale”), mentre il sesto comma stabilisce che “Le sanzioni previste dal comma 2, lettera b) [che individua le sanzioni per determinati reati di cui all’art. 256, D.L.vo n. 152/2006], sono ridotte della metà nel caso di commissione del reato previsto dall’articolo 256, comma 4[3], del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.”.
Da un esame della fattispecie in questione, il riferimento al comma 1, lett. a) dell’art. 25-undecies, D.L.vo n. 231/2001 non appare pertinente in quanto rimanda alla fattispecie penale dell’“Inquinamento ambientale”: tutt’al più, il rimando avrebbe dovuto essere all’art. 25-undecies, comma 2, lett. b), che, come già rilevato, reca le sanzioni per taluni reati ex art. 256, D.L.vo n, 152/2005 e che, peraltro, è espressamente richiamato proprio dall’art. 25-undecies, comma 6, D.L.vo n. 231/2001.
Nel caso di specie è stata poi rilevata l’assenza non solo di un Modello organizzativo recante le procedure da adottare in materia di ambiente ai fini della prevenzione dei relativi reati-presupposto, ma anche la mancata designazione di un Organismo di Vigilanza idoneo a vigilare sulla “corretta esecuzione dei piani”, ciò che ha determinato l’insorgere della responsabilità della Società coinvolta in virtù del D.L.vo n. 231/2001. Tali circostanze, peraltro, sono state espressamente legate dalla Cassazione alla sussistenza di un “interesse” della Società derivante dalla commissione del reato in questione da parte dei propri consiglieri di amministrazione: si legge infatti che “La società risponde, invece, dell’illecito amministrativo perché aveva reso possibile la consumazione, nel proprio interesse, del reato sopra indicato a causa dell’assenza di un modello organizzativo riguardante le procedure da adottare in materia di rispetto dell’ambiente, sia relativamente alle prassi operativo-decisionali da adottare che relativamente alla designazione di un organo di controllo e vigilanza sulla corretta esecuzione dei piani.”.
A quest’ultimo proposito si rammenta che, affinchè insorga anche la responsabilità amministrativa della Società/ente, quest’ultima deve avere nutrito o tratto, dalla commissione di quel reato da parte della persona fisica, un interesse o vantaggio (v. artt. 5 e 6, D.L.vo n. 231/2001). Nel caso di specie non si comprende come l’assenza di un Modello Organizzativo (che costituisce uno strumento volontario e non un adempimento obbligatorio per legge) possa determinare la sussistenza dell’interesse da parte della Società, che difatti, in sede di ricorso, ha eccepito la mancanza di motivazione della sentenza del Tribunale di Vicenza sul punto. Le argomentazioni proposte dalla Cassazione in sede di rigetto di tale motivo di ricorso, si noti, non sono chiare, in quanto fanno leva sulla circostanza che non fosse stato provato, dalla Società, “l’esclusivo interesse perseguito dai suoi legali rappresentanti nella consumazione del reato loro ascritto”. Com’è agevole notare, i giudici non hanno fornito elementi positivi a supporto dell’individuazione, in concreto, dell’interesse che la Società avrebbe tratto dalla commissione del reato, ma si sono limitati a rilevare – in maniera del tutto apodittica – che tale interesse sussiste in quanto la Società non aveva provato l’interesse esclusivo perseguito dai propri legali rappresentanti.
La delega di funzioni
Infine si evidenzia, relativamente all’istituto della delega di funzioni, che nel caso di specie nessuna delle condizioni individuate nel tempo dalla giurisprudenza e ribadite con la sentenza n. 9132/2017 qui in esame risulta essere stata soddisfatta.
Il tema della delega, peraltro, viene legato dalla Cassazione con quello della sussistenza del Modello 231. Infatti, i giudici togati hanno rilevato che “la mancanza di deleghe … è fatto che di per sè prova la mancanza di un efficace modello organizzativo adeguato a prevenire la consumazione del reato da parte dei vertici societari”.
Si tratta, ad avviso di chi scrive, di una posizione eccessivamente netta, in quanto è vero che il tema della delega è connesso con quello dell’adozione di un Modello organizzativo ai sensi del D.L.vo n. 231/2001 efficace ed adeguato, ma ad avviso di chi scrive l’assenza di deleghe non costituisce un elemento ostativo alla predisposizione di un Modello 231 idoneo ai fini della prevenzione della commissione dei reati-presupposto; è peraltro innegabile che l’esistenza di una delega (o di un sistema di deleghe) possa contribuire a rendere il Modello adeguato rispetto agli scopi che si prefigge.
Conclusioni
La sentenza n. 9132/2017 della Corte di Cassazione risulta criticabile sotto diversi profili.
Senza contare l’errato riferimento normativo ivi riportato (v. art. 25-undecies, comma 1, lett. a), D.L.vo n. 231/2001), si segnala innanzitutto che il fatto di avere collegato il concetto di “interesse” ai sensi del D.L.vo n. 231/2001 esclusivamente all’adozione di un efficace Modello Organizzativo, che costituisce – ad oggi – uno strumento meramente volontario, appare del tutto ingiustificato.
A ciò si aggiunga che anche l’istituto della delega (che, com’è agevole comprendere, assume rilievo innanzitutto a livello individuale) è stato ritenuto – a parere di chi scrive, immotivatamente – sintomatico dell’inadeguatezza del Modello 231 adottato dalla Società.
Dall’esame di tale pronuncia – ed a prescindere da talune prese di posizione della Cassazione che non risultano del tutto condivisibili – emerge tuttavia chiara la necessità per le Aziende di dotarsi di un Modello Organizzativo idoneo ed efficace a prevenire i reati-presupposto ambientali di cui all’art. 25-undecies, D.L.vo n. 231/2001 e di un Organismo di Vigilanza, pure in assenza di un vero e proprio obbligo di legge.
Se sei alla ricerca di aiuto sul tema “Modelli Organizzativi 231” puoi consultare la pagina del nostro sito dedicata alle consulenze sul sistema 231: MOG e OdV di TuttoAmbiente.
TuttoAmbiente Edizioni, 2016
[1] “Le sanzioni previste dal comma 2, lettera b), sono ridotte della metà nel caso di commissione del reato previsto dall’articolo 256, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.”.
[2] Il calcolo della sanzione riportata nelle argomentazioni della sentenza è stato sviluppato come segue: “sanzione pecuniaria di 35.000,00 euro, pari a cento quote da 35 euro ciascuna”. A prescindere dal fatto che il calcolo risulta errato (100 quote moltiplicate per 35,00 Euro l’una comporta una sanzione totale pari a 3.500,00 Euro, e non a 35.000,00 Euro), si segnala che l’art. 10, comma 3, D.L.vo n. 231/2001 fissa l’importo minimo di una quota in 258,00 Euro.
[3] “Le pene di cui ai commi 1, 2 e 3 sono ridotte della metà nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni”.
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