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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
In questi ultimi mesi la disciplina dei rifiuti e dei sottoprodotti ha subito numerose e rilevanti modifiche, ma, soprattutto, ha rivelato una lunga serie di criticità che richiedono chiarimenti e indicazioni.
Il Ministero dell’Ambiente ha avviato un processo di consultazione per ridefinire i criteri per individuare quali rifiuti prodotti dalle imprese potranno essere conferiti al servizio pubblico di raccolta. Per raggiungere questo obiettivo è stata predisposta una bozza di decreto ministeriale.
La questione è di primaria importanza per le attività economiche perché il presupposto oggettivo della tassa rifiuti (TARI) è costituito dalla capacità di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, di “produrre rifiuti urbani” e, come meglio precisa il comma 645 della Legge 147 del 2013 che ha istituito la TARI, “assimilati”.
Oggi i criteri “qualitativi e quali-quantitativi” per individuare i “rifiuti speciali assimilabili agli urbani” (i rifiuti prodotti da un’impresa o da un ente che possono essere recuperati o smaltiti in impianti originariamente progettati per trattare rifiuti urbani perché di composizione analoga a quelli di origine domestica) sono ancora quelli individuati dalla deliberazione del Comitato interministeriale sui rifiuti del 27 luglio del 1984.
Soltanto i rifiuti elencati, sia pur in modo alquanto generico, nella citata deliberazione del Comitato interministeriale sui rifiuti, oggi sono rifiuti speciali assimilabili agli urbani, pertanto solamente queste tipologie di rifiuti possono essere assimilate agli urbani e comportare l’obbligo di pagamento della TARI.
Infatti, ai Comuni compete, secondo l’art. 198, comma 1, lettera g) del D.Lgs. 152/2006: «l’assimilazione, per qualità e quantità, dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani, secondo i criteri di cui all’articolo 195, comma 2, lettera e)[…]».
I “rifiuti speciali assimilati agli urbani” sono quindi quelli che il Comune ha deciso, con proprio Regolamento e sulla base di criteri qualitativi definiti dallo Stato, di prendere in carico nel normale servizio di raccolta dei rifiuti urbani, trasformando quindi il rifiuto speciale in rifiuto urbano.
Lo schema di decreto
La bozza della norma chiarisce che: «sulla base dei criteri individuati nel presente decreto, i comuni disciplinano le modalità per l’assimilazione».
I rifiuti assimilabili sono individuati con un duplice criterio:
– devono essere stati prodotti da una serie di attività economiche individuate dall’allegato 1 (che riproduce l’obsoleto elenco delle tipologie di utenze non domestiche contenuto nel D.P.R. 158/1999),
– devono essere identificati con uno dei codici dell’elenco europeo dei rifiuti (List of Waste) elencati nell’allegato 2.
Limiti dimensionali per l’assimilazione
Funzionale alla riduzione del contenzioso, e perciò sicuramente positiva, l’introduzione di limiti dimensionali espressi in metri quadri per talune attività economiche. In particolare, la limitazione opererà per le attività industriali, artigianali e commerciali nel caso di Comuni, e ad oggi si tratta della grande maggioranza, che non hanno istituito un sistema di misurazione puntuale dei rifiuti conferiti al servizio pubblico, sistema recentemente disciplinato con il D.M. 20 aprile 2017. Un’attività industriale, per esempio, svolta in locali con superficie superiore alla dimensione indicata dal decreto non sarà più produttiva di rifiuti assimilabili. Infatti, i rifiuti assimilabili prodotti dalle attività che superano i limiti dimensionali dallo schema di decreto: «non sono assimilati agli urbani per l’intera quantità».
Si tratta di un’estensione del divieto di assimilazione che, con esclusivo riferimento alle grandi superfici di vendita, è stato presente nel D.Lgs. 152/2006 fino al 27 dicembre 2011.
Un tema, come è facile intuire, di sicuro interesse per tutte le imprese e gli enti.
La miscelazione di rifiuti
Ogni miscelazione di rifiuti deve essere preventivamente autorizzata, questo il principio affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza 12 aprile 2017, n. 75.
La Corte ha ricordato come l’art. 23 della Direttiva quadro sui rifiuti (n. 2008/98/CE) prescriva che gli Stati membri impongano a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere preliminarmente l’autorizzazione dell’autorità competente. Le operazioni di trattamento, argomenta la Corte, in base all’art. 3, numero 14) della Direttiva, comprendono le «operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento» e l’Allegato I della Direttiva prevede al punto D13, il «Blending or mixing prior to submission to any of the operations numbered D1 to D12», tradotto nella versione italiana come «Raggruppamento preliminare prima di una delle operazioni indicate da D1 a D12» e al punto R12, una voce analoga, alla quale può essere ricondotta la miscelazione dei rifiuti.
Dalle Linee guida sull’interpretazione della Direttiva n. 2008/98/CE, conclude la Corte Costituzionale, risulta, inoltre, che «la miscelazione dei rifiuti è una pratica comune nell’UE ed è riconosciuta come operazione di trattamento dagli Allegati I e II della Direttiva quadro sui rifiuti» (punto 5.1).
Le conseguenze pratiche del divieto assoluto di miscelazione
In termini operativi ciò significa che, anche nel luogo di produzione, deve essere evitata ogni miscelazione di differenti tipologie di rifiuti non pericolosi e qualsiasi commistione fra diversi rifiuti pericolosi pur se con identiche caratteristiche di pericolo.
La separazione alla fonte dei rifiuti prodotti, oltre che essere vantaggiosa in termini di miglioramento della resa degli impianti di recupero ai quali gli scarti sono conferiti, si rivela dunque una modalità imprescindibile di organizzazione del deposito temporaneo, cioè dell’accumulo di rifiuti nel luogo di produzione.
In assenza di specifica autorizzazione è quindi necessario adottare ogni cautela volta a garantire costantemente la separazione dei diversi flussi di rifiuti prodotti. Che si tratti di residui generati da lavorazioni industriali o artigianali, oppure di scarti di attività commerciali o di servizio, si dovrà assicurare che le modalità di accumulo dei rifiuti nei locali aziendali sia tale da evitare qualsiasi indebita miscelazione e qualsiasi potenziale diluizione. Naturalmente questo non significa che, in caso di produzione di flussi di rifiuti merceologicamente eterogenei fin dalla fase di generazione degli stessi, si debba intervenire per attuare una separazione dei differenti materiali, attività che potrebbe a sua volta configurarsi come operazione di selezione o cernita effettuabile solo a seguito dell’ottenimento di un’autorizzazione, ma piuttosto che i differenti flussi devono essere mantenuti separati tra loro.
Classificazione dei rifiuti
Le modalità di attribuzione delle caratteristiche di pericolo ai rifiuti sono definite da un Regolamento e da una Decisione europei. Nel nostro Paese si era, invece, scelto di elaborare linee-guida nazionali per la classificazione dei rifiuti. Le scarne indicazioni italiane, sulle quali erano stati sollevati fondati dubbi fin dall’emanazione, sono ora state superate con una misura d’urgenza che ripristina la prevalenza del Diritto dell’Unione Europea su quello nazionale.
Con decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91, rubricato “Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno” e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 141 del 20 giugno 2017 (e in seguito convertito in Legge), il Governo ha, infatti, eliminato le linee-guida nazionali per la classificazione dei rifiuti.
La premessa all’Allegato D – Elenco dei rifiuti istituito dalla Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 – della quarta parte del d.lgs. 152/2006 era stata apposta, senza alcun coordinamento con testo della Decisione europea, dal d.l. 24 giugno 2014 n. 91, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014 n. 116, ed era entrata in vigore il 17 febbraio 2015, poco più di tre mesi prima della piena efficacia del Regolamento UE 1357/2014 sulla classificazione dei rifiuti in funzione della loro pericolosità e della Decisione 2014/955/UE istitutiva del nuovo elenco dei rifiuti.
Ruolo del responsabile tecnico e verifica d’idoneità
Le imprese che raccolgono, trasportano, intermediano o commerciano rifiuti e le aziende di bonifica di siti contaminati e rimozione dell’amianto per iscriversi e per mantenere l’iscrizione all’Albo devono nominare un responsabile tecnico.
Il decreto del ministero dell’ambiente 3 giugno 2014, n. 120 ha stabilito che il responsabile tecnico ha il compito di «assicurare la corretta organizzazione nella gestione dei rifiuti da parte dell’impresa nel rispetto della normativa vigente e di vigilare sulla corretta applicazione della stessa». La norma ha introdotto la verifica iniziale della formazione del responsabile tecnico e l’accertamento quinquennale dell’aggiornamento professionale, demandando al Comitato nazionale dell’Albo la definizione delle modalità di esame. Con delibera 7/2017, del 30 maggio, il Comitato nazionale ha deciso che la verifica d’idoneità consiste in una prova scritta costituita da quaranta quiz a risposta multipla comuni a tutte le categorie di iscrizione e a quaranta relativi al modulo specialistico (trasporto, intermediazione e commercio senza detenzione di rifiuti, bonifica di siti, bonifica di beni contenenti amianto). Solo una formazione adeguata e costantemente aggiornata consentirà agli aspiranti responsabili tecnici di superare tali verifiche accedendo a questa attività professionale. Gli attuali responsabili tecnici, pur beneficiando di un periodo transitorio, saranno in ogni caso chiamati ad affrontare le verifiche di idoneità nel caso in cui desiderino operare per aziende iscritte in categorie o classi diverse.
Recentissima, infine, la delibera 8/2017 del Comitato nazionale dell’Albo gestori ambientali che modifica le dotazioni minime di veicoli e personale per l’iscrizione delle imprese che effettuano il trasporto di rifiuti (categorie 1, 4 e 5) e introduce nuove sottocategorie per le attività di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e assimilati.
Sottoprodotti
Con il Decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264 – Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti. (GU n.38 del 15-2-2017) – si sono forniti criteri generali, indicativi e non vincolanti, per dimostrare il rispetto delle condizioni che consentono la gestione di uno scarto di produzione come sottoprodotto e criteri specifici per le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di biogas e le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di energia mediante combustione.
L’Art. 1, comma 1, del decreto citato specifica che:
«[…] il presente decreto definisce alcune modalità con le quali il detentore può dimostrare che sono soddisfatte le condizioni generali di cui all’articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152».
In merito ai criteri, erroneamente indicati come “Condizioni generali” l’articolo 4 precisa che:
«Negli articoli seguenti sono indicate alcune modalità con cui provare la sussistenza delle circostanze di cui al comma 1 [sottoprodotto], fatta salva la possibilità di dimostrare, con ogni mezzo ed anche con modalità e con riferimento a sostanze ed oggetti diversi da quelli precisati nel presente decreto, o che soddisfano criteri differenti, che una sostanza o un oggetto derivante da un ciclo di produzione non è un rifiuto, ma un sottoprodotto. Resta fermo l’obbligo di rispettare i requisiti di impiego e di qualità previsti dalle pertinenti normative di settore».
Il medesimo articolo prevede anche la possibilità, e non l’obbligo, che il produttore e l’utilizzatore del sottoprodotto si iscrivano «senza alcun onere economico, in apposito elenco pubblico istituito presso le Camere di commercio territorialmente competenti».
Terre e rocce da scavo
Ridisegno complessivo della disciplina delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti, questo l’obiettivo del D.P.R. 120/2017, la “legge quadro” di recente entrata in vigore. La nuova norma, annunciata da mesi e ora approdata in Gazzetta Ufficiale, persegue l’intento di semplificare la gestione di questo particolare genere di sottoprodotti, riuscendoci solo in parte e, soprattutto, introducendo nuovi complessi obblighi analitici.
Il decreto, però, non disciplina solo i sottoprodotti, ma ridefinisce anche le modalità di deposito temporaneo dei rifiuti costituiti da terre e rocce da scavo.
Le norme in fase di approvazione
In un decreto-legge in fase di pubblicazione troveremo non solo l’ormai scontato rinvio al 2019 del periodo di piena applicazione del SISTRI, ma anche l’acquisizione di competenze in materia di rifiuti dell’Autorità di regolazione per energia e reti, la modifica di alcune disposizioni sui RAEE, nuove disposizioni di “semplificazione” in materia di rifiuti distinte da quelle sulla gestione di articoli e accessori di abbigliamento usati e da quelle sui rifiuti di toner e di cartucce per stampanti. La norma in preparazione contiene anche disposizioni sui rifiuti urbani e sull’utilizzo di fanghi di depurazione in agricoltura.
Annunciato anche un decreto ministeriale sui centri di preparazione per il riutilizzo, un tassello decisivo per rendere concreta, sia pur con grave ritardo, la modalità di gestione considerata prioritaria dalla Direttiva quadro sui rifiuti.
Per una migliore comprensione delle novità in materia di rifiuti e sottoprodotti si segnala il corso di Tuttoambiente “Rifiuti: novità e criticità”, che si terrà nelle seguenti edizioni: Milano l’11 ottobre 2017, Roma il 31 ottobre 2017 ed Ancona il 16 novembre 2017.
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Nuove norme sui rifiuti e sui sottoprodotti
di Paolo Pipere
In questi ultimi mesi la disciplina dei rifiuti e dei sottoprodotti ha subito numerose e rilevanti modifiche, ma, soprattutto, ha rivelato una lunga serie di criticità che richiedono chiarimenti e indicazioni.
Il Ministero dell’Ambiente ha avviato un processo di consultazione per ridefinire i criteri per individuare quali rifiuti prodotti dalle imprese potranno essere conferiti al servizio pubblico di raccolta. Per raggiungere questo obiettivo è stata predisposta una bozza di decreto ministeriale.
La questione è di primaria importanza per le attività economiche perché il presupposto oggettivo della tassa rifiuti (TARI) è costituito dalla capacità di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, di “produrre rifiuti urbani” e, come meglio precisa il comma 645 della Legge 147 del 2013 che ha istituito la TARI, “assimilati”.
Oggi i criteri “qualitativi e quali-quantitativi” per individuare i “rifiuti speciali assimilabili agli urbani” (i rifiuti prodotti da un’impresa o da un ente che possono essere recuperati o smaltiti in impianti originariamente progettati per trattare rifiuti urbani perché di composizione analoga a quelli di origine domestica) sono ancora quelli individuati dalla deliberazione del Comitato interministeriale sui rifiuti del 27 luglio del 1984.
Soltanto i rifiuti elencati, sia pur in modo alquanto generico, nella citata deliberazione del Comitato interministeriale sui rifiuti, oggi sono rifiuti speciali assimilabili agli urbani, pertanto solamente queste tipologie di rifiuti possono essere assimilate agli urbani e comportare l’obbligo di pagamento della TARI.
Infatti, ai Comuni compete, secondo l’art. 198, comma 1, lettera g) del D.Lgs. 152/2006: «l’assimilazione, per qualità e quantità, dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani, secondo i criteri di cui all’articolo 195, comma 2, lettera e)[…]».
I “rifiuti speciali assimilati agli urbani” sono quindi quelli che il Comune ha deciso, con proprio Regolamento e sulla base di criteri qualitativi definiti dallo Stato, di prendere in carico nel normale servizio di raccolta dei rifiuti urbani, trasformando quindi il rifiuto speciale in rifiuto urbano.
Lo schema di decreto
La bozza della norma chiarisce che: «sulla base dei criteri individuati nel presente decreto, i comuni disciplinano le modalità per l’assimilazione».
I rifiuti assimilabili sono individuati con un duplice criterio:
– devono essere stati prodotti da una serie di attività economiche individuate dall’allegato 1 (che riproduce l’obsoleto elenco delle tipologie di utenze non domestiche contenuto nel D.P.R. 158/1999),
– devono essere identificati con uno dei codici dell’elenco europeo dei rifiuti (List of Waste) elencati nell’allegato 2.
Limiti dimensionali per l’assimilazione
Funzionale alla riduzione del contenzioso, e perciò sicuramente positiva, l’introduzione di limiti dimensionali espressi in metri quadri per talune attività economiche. In particolare, la limitazione opererà per le attività industriali, artigianali e commerciali nel caso di Comuni, e ad oggi si tratta della grande maggioranza, che non hanno istituito un sistema di misurazione puntuale dei rifiuti conferiti al servizio pubblico, sistema recentemente disciplinato con il D.M. 20 aprile 2017. Un’attività industriale, per esempio, svolta in locali con superficie superiore alla dimensione indicata dal decreto non sarà più produttiva di rifiuti assimilabili. Infatti, i rifiuti assimilabili prodotti dalle attività che superano i limiti dimensionali dallo schema di decreto: «non sono assimilati agli urbani per l’intera quantità».
Si tratta di un’estensione del divieto di assimilazione che, con esclusivo riferimento alle grandi superfici di vendita, è stato presente nel D.Lgs. 152/2006 fino al 27 dicembre 2011.
Un tema, come è facile intuire, di sicuro interesse per tutte le imprese e gli enti.
La miscelazione di rifiuti
Ogni miscelazione di rifiuti deve essere preventivamente autorizzata, questo il principio affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza 12 aprile 2017, n. 75.
La Corte ha ricordato come l’art. 23 della Direttiva quadro sui rifiuti (n. 2008/98/CE) prescriva che gli Stati membri impongano a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere preliminarmente l’autorizzazione dell’autorità competente. Le operazioni di trattamento, argomenta la Corte, in base all’art. 3, numero 14) della Direttiva, comprendono le «operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento» e l’Allegato I della Direttiva prevede al punto D13, il «Blending or mixing prior to submission to any of the operations numbered D1 to D12», tradotto nella versione italiana come «Raggruppamento preliminare prima di una delle operazioni indicate da D1 a D12» e al punto R12, una voce analoga, alla quale può essere ricondotta la miscelazione dei rifiuti.
Dalle Linee guida sull’interpretazione della Direttiva n. 2008/98/CE, conclude la Corte Costituzionale, risulta, inoltre, che «la miscelazione dei rifiuti è una pratica comune nell’UE ed è riconosciuta come operazione di trattamento dagli Allegati I e II della Direttiva quadro sui rifiuti» (punto 5.1).
Le conseguenze pratiche del divieto assoluto di miscelazione
In termini operativi ciò significa che, anche nel luogo di produzione, deve essere evitata ogni miscelazione di differenti tipologie di rifiuti non pericolosi e qualsiasi commistione fra diversi rifiuti pericolosi pur se con identiche caratteristiche di pericolo.
La separazione alla fonte dei rifiuti prodotti, oltre che essere vantaggiosa in termini di miglioramento della resa degli impianti di recupero ai quali gli scarti sono conferiti, si rivela dunque una modalità imprescindibile di organizzazione del deposito temporaneo, cioè dell’accumulo di rifiuti nel luogo di produzione.
In assenza di specifica autorizzazione è quindi necessario adottare ogni cautela volta a garantire costantemente la separazione dei diversi flussi di rifiuti prodotti. Che si tratti di residui generati da lavorazioni industriali o artigianali, oppure di scarti di attività commerciali o di servizio, si dovrà assicurare che le modalità di accumulo dei rifiuti nei locali aziendali sia tale da evitare qualsiasi indebita miscelazione e qualsiasi potenziale diluizione. Naturalmente questo non significa che, in caso di produzione di flussi di rifiuti merceologicamente eterogenei fin dalla fase di generazione degli stessi, si debba intervenire per attuare una separazione dei differenti materiali, attività che potrebbe a sua volta configurarsi come operazione di selezione o cernita effettuabile solo a seguito dell’ottenimento di un’autorizzazione, ma piuttosto che i differenti flussi devono essere mantenuti separati tra loro.
Classificazione dei rifiuti
Le modalità di attribuzione delle caratteristiche di pericolo ai rifiuti sono definite da un Regolamento e da una Decisione europei. Nel nostro Paese si era, invece, scelto di elaborare linee-guida nazionali per la classificazione dei rifiuti. Le scarne indicazioni italiane, sulle quali erano stati sollevati fondati dubbi fin dall’emanazione, sono ora state superate con una misura d’urgenza che ripristina la prevalenza del Diritto dell’Unione Europea su quello nazionale.
Con decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91, rubricato “Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno” e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 141 del 20 giugno 2017 (e in seguito convertito in Legge), il Governo ha, infatti, eliminato le linee-guida nazionali per la classificazione dei rifiuti.
La premessa all’Allegato D – Elenco dei rifiuti istituito dalla Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 – della quarta parte del d.lgs. 152/2006 era stata apposta, senza alcun coordinamento con testo della Decisione europea, dal d.l. 24 giugno 2014 n. 91, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014 n. 116, ed era entrata in vigore il 17 febbraio 2015, poco più di tre mesi prima della piena efficacia del Regolamento UE 1357/2014 sulla classificazione dei rifiuti in funzione della loro pericolosità e della Decisione 2014/955/UE istitutiva del nuovo elenco dei rifiuti.
Ruolo del responsabile tecnico e verifica d’idoneità
Le imprese che raccolgono, trasportano, intermediano o commerciano rifiuti e le aziende di bonifica di siti contaminati e rimozione dell’amianto per iscriversi e per mantenere l’iscrizione all’Albo devono nominare un responsabile tecnico.
Il decreto del ministero dell’ambiente 3 giugno 2014, n. 120 ha stabilito che il responsabile tecnico ha il compito di «assicurare la corretta organizzazione nella gestione dei rifiuti da parte dell’impresa nel rispetto della normativa vigente e di vigilare sulla corretta applicazione della stessa». La norma ha introdotto la verifica iniziale della formazione del responsabile tecnico e l’accertamento quinquennale dell’aggiornamento professionale, demandando al Comitato nazionale dell’Albo la definizione delle modalità di esame. Con delibera 7/2017, del 30 maggio, il Comitato nazionale ha deciso che la verifica d’idoneità consiste in una prova scritta costituita da quaranta quiz a risposta multipla comuni a tutte le categorie di iscrizione e a quaranta relativi al modulo specialistico (trasporto, intermediazione e commercio senza detenzione di rifiuti, bonifica di siti, bonifica di beni contenenti amianto). Solo una formazione adeguata e costantemente aggiornata consentirà agli aspiranti responsabili tecnici di superare tali verifiche accedendo a questa attività professionale. Gli attuali responsabili tecnici, pur beneficiando di un periodo transitorio, saranno in ogni caso chiamati ad affrontare le verifiche di idoneità nel caso in cui desiderino operare per aziende iscritte in categorie o classi diverse.
Recentissima, infine, la delibera 8/2017 del Comitato nazionale dell’Albo gestori ambientali che modifica le dotazioni minime di veicoli e personale per l’iscrizione delle imprese che effettuano il trasporto di rifiuti (categorie 1, 4 e 5) e introduce nuove sottocategorie per le attività di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e assimilati.
Sottoprodotti
Con il Decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264 – Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti. (GU n.38 del 15-2-2017) – si sono forniti criteri generali, indicativi e non vincolanti, per dimostrare il rispetto delle condizioni che consentono la gestione di uno scarto di produzione come sottoprodotto e criteri specifici per le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di biogas e le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di energia mediante combustione.
L’Art. 1, comma 1, del decreto citato specifica che:
«[…] il presente decreto definisce alcune modalità con le quali il detentore può dimostrare che sono soddisfatte le condizioni generali di cui all’articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152».
In merito ai criteri, erroneamente indicati come “Condizioni generali” l’articolo 4 precisa che:
«Negli articoli seguenti sono indicate alcune modalità con cui provare la sussistenza delle circostanze di cui al comma 1 [sottoprodotto], fatta salva la possibilità di dimostrare, con ogni mezzo ed anche con modalità e con riferimento a sostanze ed oggetti diversi da quelli precisati nel presente decreto, o che soddisfano criteri differenti, che una sostanza o un oggetto derivante da un ciclo di produzione non è un rifiuto, ma un sottoprodotto. Resta fermo l’obbligo di rispettare i requisiti di impiego e di qualità previsti dalle pertinenti normative di settore».
Il medesimo articolo prevede anche la possibilità, e non l’obbligo, che il produttore e l’utilizzatore del sottoprodotto si iscrivano «senza alcun onere economico, in apposito elenco pubblico istituito presso le Camere di commercio territorialmente competenti».
Terre e rocce da scavo
Ridisegno complessivo della disciplina delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti, questo l’obiettivo del D.P.R. 120/2017, la “legge quadro” di recente entrata in vigore. La nuova norma, annunciata da mesi e ora approdata in Gazzetta Ufficiale, persegue l’intento di semplificare la gestione di questo particolare genere di sottoprodotti, riuscendoci solo in parte e, soprattutto, introducendo nuovi complessi obblighi analitici.
Il decreto, però, non disciplina solo i sottoprodotti, ma ridefinisce anche le modalità di deposito temporaneo dei rifiuti costituiti da terre e rocce da scavo.
Le norme in fase di approvazione
In un decreto-legge in fase di pubblicazione troveremo non solo l’ormai scontato rinvio al 2019 del periodo di piena applicazione del SISTRI, ma anche l’acquisizione di competenze in materia di rifiuti dell’Autorità di regolazione per energia e reti, la modifica di alcune disposizioni sui RAEE, nuove disposizioni di “semplificazione” in materia di rifiuti distinte da quelle sulla gestione di articoli e accessori di abbigliamento usati e da quelle sui rifiuti di toner e di cartucce per stampanti. La norma in preparazione contiene anche disposizioni sui rifiuti urbani e sull’utilizzo di fanghi di depurazione in agricoltura.
Annunciato anche un decreto ministeriale sui centri di preparazione per il riutilizzo, un tassello decisivo per rendere concreta, sia pur con grave ritardo, la modalità di gestione considerata prioritaria dalla Direttiva quadro sui rifiuti.
Per una migliore comprensione delle novità in materia di rifiuti e sottoprodotti si segnala il corso di Tuttoambiente “Rifiuti: novità e criticità”, che si terrà nelle seguenti edizioni: Milano l’11 ottobre 2017, Roma il 31 ottobre 2017 ed Ancona il 16 novembre 2017.
Piacenza, 25.09.2017
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