Preveniamo rischi Risolviamo problemi Formiamo competenze
"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
Mai come in questi ultimi anni molti parlano di sostenibilità ESG, Green e Circular economy, ma pochissimi sanno realmente di cosa stanno parlando e ancora meno quelli che conoscono gli strumenti esistenti ed indispensabili per raggiungere quegli obiettivi. E l’ignoranza e la superficialità sono il miglior viatico non solo per non raggiungere i risultati prefissati o per percorrere un cammino di vera sostenibilità senza incorrere nelle sabbie mobili del green whashing, ma anche per correre i rischi, il più delle volte sconosciuti o sottovalutati.
Chi, come me, si occupa di gestione ambientale sin dagli anni ’80, conosce perfettamente questi meccanismi, ed è con questo spirito – ed alla luce di questa esperienza – che intendo definire i confini dello strumento più potente, efficace e sottostimato della circular economy: il sottoprodotto.
Ma quali sono gli altri strumenti/istituti che ci sono offerti nella fondamentale battaglia contro lo spreco di risorse e di materie prime?
Nel 2022, il 28 luglio, abbiamo raggiunto a livello mondiale l’Earth Overshoot Day, ovvero il giorno nel quale l’umanità consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta, ed un enorme contributo in tale senso proviene anche dall’ Europa e dal nostro Paese, notoriamente “scarsi di materie prime”.
Sono decenni che scrivo che la centralità della corretta gestione dei rifiuti sta proprio nella centralità della corretta gestione delle risorse, come rivela in tutta evidenza la stessa normativa europea.
Si pensi che già nel 1975 (Dir. n. 442) la CE poneva al primo posto nella gestione dei rifiuti la non produzione dei medesimi, obiettivo che attraverso la Dir. 98/2008/UE prima e la Dir. 851/2018/UE dopo, è stato sempre più messo a fuoco, offrendo agli Stati membri gli strumenti necessari per raggiungere tale scopo.
Anche l’Italia – ovviamente – ha recepito questa Direttiva e questi istituti, ma il più delle volte con incompetenza, diffidenza e riluttanza, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui epidemie, guerre e PNRR, hanno dato una accelerata – o, meglio avrebbero dovuto dare una accelerata – ad una miglior conoscenza e consapevolezza di questi fini e di questi strumenti.
Già, ma quali sono?
Due sono gli strumenti ed istituti che agiscono sui rifiuti, puntando in un caso a forme semplificate di riutilizzo tramite semplici e minime operazioni (preparazione per il riutilizzo), mentre nell’altro ad un processo di recupero dei medesimi (end of waste) sia di materia che di energia. Peccato che entrambi questi strumenti siano stati e siano gestiti in modo assolutamente insufficiente nel nostro Paese.
La preparazione per il riutilizzo è ferma dal 2010 in assenza di un indispensabile e mai emanato decreto di attuazione previsto sin dal giugno del 2011 (!), mentre l’end of waste (art. 184 ter DLvo 152/06) soffre di una normativa confusa e contradditoria, di una giurisprudenza estremamente rigida o improvvida (basti vedere le conseguenze generate da una sentenza del Consiglio di Stato del 2018 che ha praticamente paralizzato il recupero di rifiuti nel nostro Paese per oltre un anno e mezzo) e di una cronica mancanza di impianti.
Ma se questi sono i due istituiti che agiscono – o dovrebbero agire – sui rifiuti, ve ne sono altrettanti che agiscono sul prodotto: EPR (responsabilità estesa del produttore del “prodotto”) e sottoprodotto (sul riutilizzo dei residui di produzione prima che assumano la condizione di rifiuto).
E pertanto sono da ritenersi prioritari rispetto agli altri due. Ma rimaniamo al sottoprodotto.
Nelle pagine seguenti ne analizzeremo la disciplina, gli ostacoli, i rischi, le opportunità, ma ora, per iniziare, soffermiamoci sulla genesi e sul percorso di questo istituto, in quale nasce in qualche modo proprio grazie ad un magistrato italiano (il mio carissimo e prematuramente scomparso amico Maurizio Santoloci), che “provocò” la Corte di Giustizia UE sul tema che sta alla base ed all’origine dello stesso concetto: qual è la differenza, il discrimine, il limite, tra rifiuto e non rifiuto?
La Corte europea si pronunciò prima con la sentenza Palint Granit Oy del 2002 e poi con la famosa sentenza Niselli c. 114/2003 stabilendo tra l’altro che sono qualificabili come non rifiuti soltanto “i sottoprodotti dei processi di fabbricazione o di estrazione di cui il detentore non vuole disfarsi a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione”.
A quel punto mentre in Italia ci impantanavamo sul terreno dell’MPS o – anche peggio – partorendo allucinanti “interpretazioni autentiche della definizione di rifiuto” (v.) (art.14 DL 138/2002), negli altri Paesi più evoluti si iniziano a gestire come sottoprodotti molti residui di attività di produzione (addirittura le fly ashes delle centrali a carbone avviate a cementifici!).
Nel 2007 venne poi pubblicata sulla GUUE una Comunicazione CE (21 luglio 2007) sulle caratteristiche del sottoprodotto, una sorta di Linea Guida provvisoria, in attesa della definizione normativa, che avviene – in Europa – solo con l’art. 5 della Dir. 98/2008/UE: nasce dunque solo in quel momento la definizione normativa europea di sottoprodotto.
E noi? Nel 2006, inserivamo nel nostro neonato Testo Unico Ambientale (DLvo 152/06) una prima definizione di sottoprodotto (art. 183 lett. n) che solo col DLvo n. 205/2010 – di recepimento della Dir. 98/2008 – andiamo finalmente a riprodurre in un articolo autonomo (184 bis), ma – per distrazione, incompetenza, superficialità – sempre non in linea con la definizione europea. Infatti, più volte subimmo l’onta della minaccia di procedura di infrazione, fino a giungere alla definizione/disciplina attuale – finalmente in linea con quella europea, seppur non identica – che analizzeremo compiutamente nelle pagine seguenti.
Balza subito agli occhi una difficoltà di fondo di applicazione nel nostro Paese: la non abitudine a confrontarsi con una disciplina contenuta tutta in un unico articolo, abituati come siamo ad avere sempre tutto disciplinato in ogni dettaglio, ed il più delle volte, comunque, male, in balia delle più disparate interpretazioni.
C’è poi un altro tema da non sottovalutare, che sottende – tra l’altro – alla estrema diffidenza degli organi di controllo e della giurisprudenza: siamo un popolo ricolmo di “ecofurbi” (quando non di eco-criminali), pronti a sfruttare impropriamente ogni zona “grigia”.
Ricordiamo subito che per gestire residui/scarti di produzione come sottoprodotti (cioè come non rifiuti) non dobbiamo richiedere alcuna autorizzazione, ma dobbiamo avere la competenza, l’autorevolezza ed il coraggio di essere certi di riuscire a dimostrare senza ombra di dubbio, che si tratta di una operazione non solo lecita ma che dovrebbe essere premiata, incentivata e valorizzata, perché contribuisce concretamente a non sprecare preziose materie prime.
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Origine ed evoluzione della disciplina dei sottoprodotti
di Stefano Maglia
Il seguente testo è tratto dal libro Sottoprodotti e circular economy.
Mai come in questi ultimi anni molti parlano di sostenibilità ESG, Green e Circular economy, ma pochissimi sanno realmente di cosa stanno parlando e ancora meno quelli che conoscono gli strumenti esistenti ed indispensabili per raggiungere quegli obiettivi. E l’ignoranza e la superficialità sono il miglior viatico non solo per non raggiungere i risultati prefissati o per percorrere un cammino di vera sostenibilità senza incorrere nelle sabbie mobili del green whashing, ma anche per correre i rischi, il più delle volte sconosciuti o sottovalutati.
Chi, come me, si occupa di gestione ambientale sin dagli anni ’80, conosce perfettamente questi meccanismi, ed è con questo spirito – ed alla luce di questa esperienza – che intendo definire i confini dello strumento più potente, efficace e sottostimato della circular economy: il sottoprodotto.
Ma quali sono gli altri strumenti/istituti che ci sono offerti nella fondamentale battaglia contro lo spreco di risorse e di materie prime?
Nel 2022, il 28 luglio, abbiamo raggiunto a livello mondiale l’Earth Overshoot Day, ovvero il giorno nel quale l’umanità consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta, ed un enorme contributo in tale senso proviene anche dall’ Europa e dal nostro Paese, notoriamente “scarsi di materie prime”.
Sono decenni che scrivo che la centralità della corretta gestione dei rifiuti sta proprio nella centralità della corretta gestione delle risorse, come rivela in tutta evidenza la stessa normativa europea.
Si pensi che già nel 1975 (Dir. n. 442) la CE poneva al primo posto nella gestione dei rifiuti la non produzione dei medesimi, obiettivo che attraverso la Dir. 98/2008/UE prima e la Dir. 851/2018/UE dopo, è stato sempre più messo a fuoco, offrendo agli Stati membri gli strumenti necessari per raggiungere tale scopo.
Anche l’Italia – ovviamente – ha recepito questa Direttiva e questi istituti, ma il più delle volte con incompetenza, diffidenza e riluttanza, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui epidemie, guerre e PNRR, hanno dato una accelerata – o, meglio avrebbero dovuto dare una accelerata – ad una miglior conoscenza e consapevolezza di questi fini e di questi strumenti.
Già, ma quali sono?
Due sono gli strumenti ed istituti che agiscono sui rifiuti, puntando in un caso a forme semplificate di riutilizzo tramite semplici e minime operazioni (preparazione per il riutilizzo), mentre nell’altro ad un processo di recupero dei medesimi (end of waste) sia di materia che di energia. Peccato che entrambi questi strumenti siano stati e siano gestiti in modo assolutamente insufficiente nel nostro Paese.
La preparazione per il riutilizzo è ferma dal 2010 in assenza di un indispensabile e mai emanato decreto di attuazione previsto sin dal giugno del 2011 (!), mentre l’end of waste (art. 184 ter DLvo 152/06) soffre di una normativa confusa e contradditoria, di una giurisprudenza estremamente rigida o improvvida (basti vedere le conseguenze generate da una sentenza del Consiglio di Stato del 2018 che ha praticamente paralizzato il recupero di rifiuti nel nostro Paese per oltre un anno e mezzo) e di una cronica mancanza di impianti.
Ma se questi sono i due istituiti che agiscono – o dovrebbero agire – sui rifiuti, ve ne sono altrettanti che agiscono sul prodotto: EPR (responsabilità estesa del produttore del “prodotto”) e sottoprodotto (sul riutilizzo dei residui di produzione prima che assumano la condizione di rifiuto).
E pertanto sono da ritenersi prioritari rispetto agli altri due. Ma rimaniamo al sottoprodotto.
Nelle pagine seguenti ne analizzeremo la disciplina, gli ostacoli, i rischi, le opportunità, ma ora, per iniziare, soffermiamoci sulla genesi e sul percorso di questo istituto, in quale nasce in qualche modo proprio grazie ad un magistrato italiano (il mio carissimo e prematuramente scomparso amico Maurizio Santoloci), che “provocò” la Corte di Giustizia UE sul tema che sta alla base ed all’origine dello stesso concetto: qual è la differenza, il discrimine, il limite, tra rifiuto e non rifiuto?
La Corte europea si pronunciò prima con la sentenza Palint Granit Oy del 2002 e poi con la famosa sentenza Niselli c. 114/2003 stabilendo tra l’altro che sono qualificabili come non rifiuti soltanto “i sottoprodotti dei processi di fabbricazione o di estrazione di cui il detentore non vuole disfarsi a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione”.
A quel punto mentre in Italia ci impantanavamo sul terreno dell’MPS o – anche peggio – partorendo allucinanti “interpretazioni autentiche della definizione di rifiuto” (v.) (art.14 DL 138/2002), negli altri Paesi più evoluti si iniziano a gestire come sottoprodotti molti residui di attività di produzione (addirittura le fly ashes delle centrali a carbone avviate a cementifici!).
Nel 2007 venne poi pubblicata sulla GUUE una Comunicazione CE (21 luglio 2007) sulle caratteristiche del sottoprodotto, una sorta di Linea Guida provvisoria, in attesa della definizione normativa, che avviene – in Europa – solo con l’art. 5 della Dir. 98/2008/UE: nasce dunque solo in quel momento la definizione normativa europea di sottoprodotto.
E noi? Nel 2006, inserivamo nel nostro neonato Testo Unico Ambientale (DLvo 152/06) una prima definizione di sottoprodotto (art. 183 lett. n) che solo col DLvo n. 205/2010 – di recepimento della Dir. 98/2008 – andiamo finalmente a riprodurre in un articolo autonomo (184 bis), ma – per distrazione, incompetenza, superficialità – sempre non in linea con la definizione europea. Infatti, più volte subimmo l’onta della minaccia di procedura di infrazione, fino a giungere alla definizione/disciplina attuale – finalmente in linea con quella europea, seppur non identica – che analizzeremo compiutamente nelle pagine seguenti.
Balza subito agli occhi una difficoltà di fondo di applicazione nel nostro Paese: la non abitudine a confrontarsi con una disciplina contenuta tutta in un unico articolo, abituati come siamo ad avere sempre tutto disciplinato in ogni dettaglio, ed il più delle volte, comunque, male, in balia delle più disparate interpretazioni.
C’è poi un altro tema da non sottovalutare, che sottende – tra l’altro – alla estrema diffidenza degli organi di controllo e della giurisprudenza: siamo un popolo ricolmo di “ecofurbi” (quando non di eco-criminali), pronti a sfruttare impropriamente ogni zona “grigia”.
Ricordiamo subito che per gestire residui/scarti di produzione come sottoprodotti (cioè come non rifiuti) non dobbiamo richiedere alcuna autorizzazione, ma dobbiamo avere la competenza, l’autorevolezza ed il coraggio di essere certi di riuscire a dimostrare senza ombra di dubbio, che si tratta di una operazione non solo lecita ma che dovrebbe essere premiata, incentivata e valorizzata, perché contribuisce concretamente a non sprecare preziose materie prime.
E tutto ciò non è affatto semplice.
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