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Quale corretta classificazione dei rifiuti con codice 19.12.12? La posizione della corte di giustizia

di Federica Bontempi

Categoria: Rifiuti


 
La Corte di Giustizia, sez. VIII, con la sentenza C 315-20 del 11.11.2021 si è pronunciata sull’intricata classificazione dei rifiuti con codice del CER 19.12.12.
 
Si rammenta che il codice 19 viene utilizzato per indicare i rifiuti prodotti da impianti di trattamento, il successivo 12 i rifiuti prodotti da impianto di trattamento meccanico e l’ulteriore 12 i rifiuti prodotti da trattamento meccanico, compresi i materiali misti non pericolosi.
 
Il problema sorge allorquando il codice 19.12.12 nulla specifica né in merito alla natura da attribuire ai rifiuti trattati, se qualificarli dunque come speciali oppure come rifiuti urbani, né al conseguente regime giuridico da attribuire ai rifiuti sottoposti ad un tale trattamento meccanico, qualora quest’ultimo abbia apportato un mutamento del codice del CER originario.
 
Ed è proprio tale problematica che è stata sottoposta all’attenzione della Corte di Giustizia nella sentenza esaminata.
 
Difatti, la pronuncia qui dibattuta è frutto di una controversia sorta all’interno dello Stato italiano quando la Regione Veneto negava a una società operante nel settore del trasporto e recupero transfrontaliero di rifiuti, l’autorizzazione richiesta per la spedizione verso una cementeria in Slovenia di circa 2000 tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati (come tali contraddistinti dal codice del CER 20.03.01) che erano stati sottoposti a trattamento meccanico ai fini del loro utilizzo in co-combustione e di conseguenza riclassificati come speciali con codice del CER 19.12.12.
 
La Regione Veneto si opponeva alla spedizione transfrontaliera di tali rifiuti, negando dunque l’autorizzazione richiesta per il loro trasferimento e sostenendo che i rifiuti in esame avessero conservato la loro natura originaria, ossia quella di rifiuti urbani indifferenziati e che dunque, sulla base degli invocati principi di prossimità e autosufficienza (art 182 bis del d.lgs. 152/2006, nonché art. 16 della direttiva 2008/98/CE), non potessero varcare i confini nazionali.
 
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Dopo una prima pronuncia del Tar Veneto, il quale annullava il diniego regionale, ritenendo dunque corretto il passaggio da rifiuti urbani a speciali, la Regione Veneto proponeva appello al Consiglio di Stato il quale, con ordinanza del 01/07/2020, n. 4196, chiedeva alla Corte di Giustizia se il Catalogo Europeo dei Rifiuti (CER) rappresentasse una proposizione normativa o, piuttosto, una mera certificazione tecnica, e quale connessione intercorresse tra le condizioni del suddetto catalogo e la previsione dell’art. 16 della direttiva 200/98/CE e del relativo considerando 33 in materia di spedizione dei rifiuti.
 

La distinzione tra rifiuti urbani e rifiuti speciali

 
Tutto ciò premesso e con l’intento di adottare una visione il più completa possibile, è necessario partire dalla definizione di rifiuto speciale e rifiuto urbano e tracciarne le rispettive differenze.
 
L’art. 184 del d.lgs. 152/2006 classifica i rifiuti in urbani e speciali a seconda della loro origine e sulla base della pericolosità traccia una distinzione ulteriore fra rifiuti pericolosi e non pericolosi.
 
Più precisamente, il recente d.lgs. 116/2020 ha modificato il contenuto testuale degli articoli 183 e 184 del D.lgs. 152/2006, spostando l’elencazione dei rifiuti urbani alla lettera b-ter) dell’art. 183[1].
 
Il comma 3 dell’art. 184 riporta invece l’elencazione dei rifiuti speciali la cui lettera g) precisa che sono speciali i rifiuti derivanti dall’attività di recupero e smaltimento di rifiuti.
 
Le condizioni riservate alle due tipologie di rifiuti, urbani e speciali, sono tra loro notevolmente differenti: i rifiuti urbani sono infatti soggetti al divieto di circolazione extraregionale, ossia non possono essere conferiti in impianti situati al di fuori della Regione di produzione (art. 182, comma 3 d.lgs. 152/2006)[2] mentre per i rifiuti speciali non si applica tale genere di vincolo, potendo dunque gli stessi circolare liberamente anche al di fuori dei confini regionali.
 
Il divieto di trasporto a cui i rifiuti urbani non differenziati sono sottoposti si confà a due rilevanti principi sanciti dall’art. 16 della direttiva 2008/98/CE e ripresi dall’art. 182 bis, comma 1, lett. b) del D.lgs. 152/2006, ossia i principi di autosufficienza e prossimità. Sostanzialmente, al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti, l’art. 182 bis del Testo Unico Ambientale (abbreviato TUA) prevede che i rifiuti urbani non differenziati siano recuperati in uno degli impianti idonei più vicini al luogo di produzione o raccolta degli stessi, al fine di garantire “un alto grado di protezione dell’ambiente e della salute pubblica”. L’applicazione dei principi di prossimità e autosufficienza non comporta soltanto una limitazione nel trasporto extraregionale dei rifiuti urbani indifferenziati ma bensì anche il divieto di spedizione transfrontaliera degli stessi, così come previsto dal Regolamento UE n. 1013/2006.
 
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Analizzando più nel dettaglio l’art. 182 bis e in particolare la lettera b) dedicata al principio di prossimità, si nota come lo stesso faccia espresso riferimento soltanto ai rifiuti urbani indifferenziati.
 
Non si rinvengono dunque riferimenti ai rifiuti urbani differenziati e agli speciali. Infatti, nei confronti di questi ultimi va applicato il diverso criterio della specializzazione dell’impianto di smaltimento, integrato dal criterio della prossimità al luogo di produzione.
 
Difatti, la giurisprudenza è concorde nell’affermare che nei confronti dei rifiuti speciali risulta illegittimo il divieto di conferimento nelle discariche regionali di rifiuti speciali provenienti da altre Regioni. Tale divieto comporterebbe, in contrasto con l’art. 120 Cost., una violazione alla libera circolazione di cose tra Regioni, senza che sussistano particolari ragioni giustificatrici in merito[3].
 
Tutto ciò premesso, l’attribuzione del codice CER (acronimo che indica il Catalogo Europeo dei Rifiuti), contenuto nell’allegato d) del D.lgs. n. 152/2006, è di fondamentale importanza nell’ambito della classificazione del rifiuto, rilevando ai fini della gestione di quest’ultimo.
 
Per attribuire il corretto codice del CER deve essere necessario individuare la fonte che genera il rifiuto consultando i capitoli da 01 a 12 o da 17 a 20 dell’elenco dei codici del catalogo; dall’attività nel corso della quale è prodotto il rifiuto si risale al codice a sei cifre riferito allo specifico rifiuto in questione.
 
Nella vicenda qui discussa, i rifiuti urbani indifferenziati (originariamente contraddistinti dal codice 20.03.01) poiché sottoposti ad un trattamento meccanico, all’interno di un impianto industriale produttore dei rifiuti stessi, acquisivano il diverso codice CER 19.12.12. che individua la provenienza dei rifiuti da impianti di trattamento.
 
Come specificato anche nella sentenza, l’attribuzione di tale codice non costituiva oggetto di contestazione tra le parti, venendo, invece, contestata l’effettiva natura da attribuire agli stessi.
 
Da qui, dunque, le divergenti opinioni sostenute dalle parti.
 

La decisione della Corte di Giustizia

 
La Corte di Giustizia statuiva che l’articolo 3, paragrafo 5, e l’articolo 11 del regolamento n. 1013/2006 devono essere interpretati nel senso che, tenuto conto dei principi di autosufficienza e di prossimità, l’autorità competente di spedizione[4] può, basandosi in particolare sul motivo previsto all’articolo 11, paragrafo 1, lettera i), del medesimo regolamento, opporsi a una spedizione di rifiuti urbani non differenziati che, a seguito di un trattamento meccanico ai fini del loro recupero energetico, il quale non ha tuttavia sostanzialmente alterato le loro proprietà originarie[5], sono stati classificati sotto la voce 19. 12. 12 del CER.
 
Prosegue la Corte affermando che “il regime giuridico applicabile alle spedizioni di rifiuti dipende dalla natura sostanziale di questi ultimi e non dalla loro classificazione formale in conformità al CER”.
 
L’aspetto rilevante della suddetta decisione risiede senz’altro nell’importanza che la Corte di Giustizia ha attribuito al considerando 33 della Direttiva 2008/98/CE secondo il quale «ai fini dell’applicazione del regolamento (CE) n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2006, relativo alle spedizioni di rifiuti, i rifiuti urbani non differenziati di cui all’articolo 3, paragrafo 5 dello stesso rimangono rifiuti urbani non differenziati anche quando sono stati oggetto di un’operazione di trattamento dei rifiuti che non ne abbia sostanzialmente alterato le proprietà».
 
Osserva la Corte che i considerando, sebbene privi di natura vincolante e per quanto non possano essere fatti valere né per derogare alle disposizioni stesse dell’atto in questione, né per interpretare tali disposizioni in senso contrario al loro tenore letterale, sono idonei a precisare le disposizioni dell’atto medesimo, permettendo in tal senso di chiarire la volontà del legislatore.
 

 
Per tale ragione, la Corte di Giustizia analizza l’articolo 3, paragrafo 5 e l’articolo 11, paragrafo 1, lettera i) del Regolamento n. 1013/2006 alla luce del considerando 33, affermando, dunque, nelle conclusioni che «l’articolo 3, paragrafo 5, e l’articolo 11, paragrafo 1, lettera i), del regolamento n. 1013/2006, interpretati alla luce del considerando 33 della direttiva 2008/98, implicano che rifiuti urbani non differenziati che siano stati classificati alla voce 19 12 12 del CER a seguito di un trattamento meccanico ai fini del loro recupero energetico, trattamento che non ha tuttavia sostanzialmente alterato le proprietà iniziali di tali rifiuti, devono essere considerati come rientranti tra i rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica, previsti da tali disposizioni, nonostante il fatto che queste ultime menzionino il codice 20 03 01 del CER».
 
Conservando, dunque, la natura di rifiuti urbani indifferenziati, ad avviso della Corte di Giustizia, l’autorità competente di spedizione poteva, in ossequio ai principi di autosufficienza e prossimità (art. 16 della Direttiva 2008/98/CE), opporsi ad una spedizione riguardante la suddetta categoria di rifiuti.
 

Sviluppi successivi

 
Fatte queste premesse, aleggia però un dubbio: cosa si intende nello specifico per trattamento che non ha “sostanzialmente alterato le proprietà iniziali” del rifiuto?
 
Tale quesito sorge spontaneo nel momento in cui la Corte di Giustizia nulla precisa a riguardo.
 
Il concetto in sé, difatti, risulta alquanto generico dando di fatto facile spazio a dubbi interpretativi.
 
Ecco allora che occorre portare all’attenzione del lettore la recente risposta formulata dal Ministero della Transizione Ecologica (abbreviato MITE) ad un interpello sulla corretta classificazione dei rifiuti sottoposti a trattamento meccanico[6].
 
Il Ministero, infatti, riprende la sentenza della Corte di Giustizia e ammette che si può parlare di rifiuto urbano anche se lo stesso è stato sottoposto a trattamento meccanico.
 
Rilevante inoltre è il rimando alle Linee Guida sulla classificazione dei rifiuti del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), approvate con Decreto Direttoriale n. 47/2021, richiamate nell’interpello nella parte in cui il Ministero precisa che “una condizione essenziale affinché i rifiuti derivanti dal trattamento siano classificabili con codici dell’elenco europeo differenti rispetto a quello del rifiuto d’origine è che il processo abbia portato alla formazione di un rifiuto differente dal punto di vista chimico-fisico (tra cui, composizione, natura, potere calorifico, caratteristiche merceologiche, ecc.)[7].
 
Ecco, dunque, che le Linee Guida prima e il Ministero poi forniscono un’indicazione maggiormente puntuale, rispetto a quanto affermato dalla Corte di Giustizia, su quella che viene considerata una modifica sostanziale del rifiuto tale da determinare un mutamento del codice del CER originario.
 
Si potrebbe dunque qualificare come modifica sostanziale quella derivante da un processo il quale ha apportato al rifiuto che vi viene sottoposto una variazione delle sue caratteristiche chimico-fisiche, ossia un mutamento della composizione, della natura, del potere calorifico, delle caratteristiche merceologiche nonché degli ulteriori aspetti riguardanti il rifiuto trattato.
 

Conclusioni

 
Nonostante le ulteriori precisazioni sopra riportate, sussistono ancora notevoli problematiche da considerare. Le indicazioni elaborate sull’argomento risultano comunque poco chiare.
 
Innanzitutto, le maggiori perplessità riguardano proprio il tema legato al tipo di trattamento.
 
Difatti, le informazioni a riguardo sono contrastanti: basti pensare al fatto che, secondo il considerando 33, il trattamento che consente la trasformazione è solo quello che sostanzialmente altera le proprietà del rifiuto; il Consiglio di Stato con la sentenza riportata alla nota n. 5 del testo (sentenza n. 5566/2012), in materia di F.O.S., aggiunge che deve trattarsi di un processo produttivo specifico, ossia un processo di trasformazione industriale che rigenera il rifiuto modificandone la natura sostanziale; mentre secondo il MITE, e in conformità a quanto stabilito nelle Linee Guida, il processo deve portare alla formazione di un rifiuto differente dal punto di vista chimico-fisico (tra cui, composizione, natura, potere calorifico, caratteristiche merceologiche, ecc.), con l’ulteriore precisazione, sempre del MITE, che anche il mero trattamento meccanico può modificare il rifiuto “se non da un punto di vista chimico, quantomeno da quello fisico”.
 
Dunque, è evidente che sull’argomento i punti interrogativi rimangano ancora tanti. La sentenza della Corte di Giustizia, che avrebbe potuto essere rivoluzionaria nel suo genere, sembra non aver introdotto nulla di particolarmente impattante sull’argomento, considerando in particolar modo che non è riuscita a far chiarezza sul tema, finendo anzi per adottare termini ancora troppo generici, come l’utilizzo dell’avverbio “sostanzialmente” o il sostantivo “proprietà”.
 
A giudizio della scrivente, emerge un’ulteriore perplessità tra ciò che viene affermato dalla Corte di Giustizia e ciò che invece viene sostenuto dal MITE. La prima, infatti, ammette la possibilità di applicare ai rifiuti urbani indifferenziati un codice CER differente rispetto a quello originariamente attribuito loro, anche qualora tali rifiuti siano stati oggetto “di un’operazione di trattamento dei rifiuti che non ne abbia sostanzialmente alterato le proprietà” (considerando 33).
 
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Mentre, il MITE, riprendendo le Linee Guida, precisa che, affinchè “i rifiuti derivanti dal trattamento siano classificabili con codici dell’elenco europeo differenti rispetto a quello del rifiuto d’origine”, è necessario un processo il quale abbia “portato alla formazione di un rifiuto differente dal punto di vista chimico-fisico”, con l’ulteriore precisazione, sempre del MITE, che anche il mero trattamento meccanico può modificare il rifiuto,
 
La divergenza è dunque tangibile.
 
Andrebbe anche fatto presente un ulteriore aspetto: la Corte di Giustizia nella sentenza commentata specifica che “il regime giuridico applicabile alle spedizioni di rifiuti dipende dalla natura sostanziale di questi ultimi e non dalla loro classificazione formale in conformità al CER”.
 
Anche tale assunto spinge inevitabilmente a formulare determinate considerazioni, in quanto va osservato che la classificazione dei rifiuti non è propriamente formale, rappresentando infatti un passaggio indispensabile e fondamentale i cui effetti si ripercuotono su tutte le fasi successive della gestione dei rifiuti.
 
Difatti dalla corretta classificazione discende il giusto incasellamento del rifiuto nella categoria degli urbani o degli speciali e da qui, dunque, la loro gestione secondo modalità che ne comportano il trattamento o lo smaltimento in determinati impianti piuttosto che in altri, con diversi costi a seconda delle differenti destinazioni.
 
Dunque per concludere, preme ricordare che, nonostante i numerosi interventi sul tema trattato, non sia ancora stata tracciata una disciplina chiara ed esaustiva in materia. Le numerose pronunce intervenute, a parere della scrivente, delineano un quadro ancora troppo confuso e per nulla confortante se consideriamo l’importanza dell’argomento e la frequenza con cui episodi di tale genere possono verificarsi.
 
Tale situazione produce ciò che purtroppo contraddistingue il settore della normativa ambientale, ossia confusione e mancata chiarezza e a farne le spesso sono ancora troppo spesso valori tutelati soltanto all’apparenza: la salute pubblica e l’ambiente.
 

Piacenza, 11.07.2022

 

[1] È utile ricordare che, in materia, a seguito della modifica apportata dal d.lgs. 116/2020, i rifiuti speciali assimilati agli urbani sono stati eliminati, ragione per cui di assimilazione non si parla più e i rifiuti, come già anticipato, possono essere alternativamente urbani o speciali.

[2] Art. 182, comma 3 del d.lgs. 152/2006: “È vietato smaltire i rifiuti urbani non pericolosi in regioni diverse da quelle dove gli stessi sono prodotti, fatti salvi eventuali accordi regionali o internazionali, qualora gli aspetti territoriali e l’opportunità tecnico economica di raggiungere livelli ottimali di utenza servita lo richiedano”.

[3] Consiglio di Stato sez. VI, 19/02/2013, n.993: “È illegittimo il divieto di conferimento nelle discariche regionali di rifiuti speciali provenienti da altre Regioni, in quanto tale divieto, non solo può pregiudicare il conseguimento della finalità di consentire lo smaltimento di tali rifiuti “in uno degli impianti appropriati più vicini”, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. b) del D.L.vo n. 22 del 1997, ma introduce addirittura, in contrasto con l’art. 120 della Costituzione, un ostacolo alla libera circolazione di cose tra le Regioni, senza che sussistano ragioni giustificatrici, neppure di ordine sanitario o ambientale. Pertanto, va esclusa la possibilità di estensione ai rifiuti diversi da quelli urbani non pericolosi del principio specifico dell’autosufficienza locale nello smaltimento e va invece applicato anche ai rifiuti “speciali” non pericolosi il diverso criterio, pure previsto dal legislatore, della specializzazione dell’impianto di smaltimento integrato dal criterio della prossimità, considerato il contesto geografico, al luogo di produzione, in modo da ridurre il più possibile la movimentazione dei rifiuti, secondo la previsione dell’art. 22, comma 3, lett. c) del citato D.L.vo n. 22 del 1997”.

[4] Con la locuzione “autorità competente per la spedizione” si intende l’”l’autorità competente per la zona dalla quale si prevede che la spedizione avrà inizio o nella quale essa ha inizio” (art. 2, paragrafo 19 del Regolamento (CE) N. 1013/2006).

Si precisa, inoltre, che l’Italia ha designato le Regioni e le Province autonome come autorità competenti di spedizione e destinazione, nonché il Ministero della Transizione Ecologica come autorità competente di transito.

[5] Preme ricordare la sentenza del Consiglio di Stato n. 5566/2012, il quale, confermando la precedente sentenza del TAR Toscana n.917/2011 in materia di F.O.S. (Frazione Organica Stabilizzata), sancisce che la stessa “è il risultato (ovvero il prodotto) di un processo di trattamento biochimico (compostaggio) dei rifiuti solidi urbani, che ne modifica la natura sostanziale”. Dunque, in forza di tale modifica sostanziale, precisavano i Giudici di Palazzo Spada, che la F.O.S. andasse qualificata come rifiuto speciale anziché urbano.

Da qui dunque è possibile tracciare il parallelismo tra la sentenza appena citata e la decisione adottata dalla Corte di Giustizia nella causa C 315-20 del 11.11.2021: in entrambe, infatti, si evince il concetto in base al quale solo in presenza di una modifica “sostanziale” è possibile parlare di mutamento della natura del rifiuto, ossia affermare che un rifiuto originariamente urbano, solo in seguito ad operazioni che ne hanno modificato in maniera sostanziale la natura o per usare le parole della Corte di Giustizia “le proprietà iniziali”, può dunque essere qualificato come speciale.

[6] Nello specifico si fa riferimento alla “Nota n. 32592 del 15.03.2022: Interpello ambientale ai sensi dell’art. 3-septies d.lgs.152/2006. Classificazione dei rifiuti decadenti dal trattamento dei rifiuti urbani per il loro successivo smaltimento in siti di discarica. Criterio di prossimità”.

[7] Linee Guida, paragrafo 3.5.9.

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