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"Mi occupo di diritto ambientale da oltre trent’anni TuttoAmbiente è la guida più autorevole per la formazione e la consulenza ambientale Conta su di noi" Stefano Maglia
La nuova disciplina in materia di gestione dei rifiuti, introdotta dalla Parte IV del D.Lgs 152/2006 (cosiddetto “Testo Unico Ambientale”) e s.m.i. (in primis il D.Lgs 4/2008 e il D.Lgs 205/2010) ha mutato, talvolta in materia incisiva, quello che era lo scenario, sotto il profilo industriale, dell’intera filiera. Alcuni concetti “ex novo”, come quello di End Of Waste o di “preparazione per il riutilizzo” aprono una finestra verso mercati nuovi, o comunque per l’avvio di attività alternative di business, il primo per materiali che, da rifiuti, sotto opportune condizioni possono essere rivalorizzati e uscire dalla sfera di influenza della materia dei rifiuti, il secondo per materiali che, pur mantenendo lo status di rifiuti, possono essere “preparati” (a seguito di specifiche e definite operazioni) per poter poi essere successivamente riutilizzati senza ulteriori forme di pretrattamento. Rimanendo in un’ottica industriale, pur mantenendo sempre uno stretto contatto con l’evoluzione normativa di settore, lo scopo di questa trattazione è quello di focalizzare l’attenzione su quelle che possono essere state le “ricadute” su un impianto (immaginario) di trattamento bio-meccanico di rifiuti urbani, a seguito dell’entrata in vigore delle suddette recenti normative, e in particolare di alcune nuove nozioni introdotte che si andranno in questa sede progressivamente ad analizzare. Un ipotetico siffatto impianto di trattamento dei rifiuti urbani (provenienti, ad esempio, da un bacino di utenza che comprenda gli abitanti di un determinato numero di Comuni) raccoglie in ingresso rifiuti costituiti da materiale indifferenziato (CER 20 03 01), rifiuti biodegradabili ligneo-cellulosici (CER 20 02 01, ad esempio sfalci di potature, rifiuti da manutenzione di giardini e parchi), ma anche residui umidi organici di cucine e mense (CER 20 01 08). Tali materiali sono soggetti a operazioni diverse di selezione, vagliatura meccanica, vibrovagliatura, separazione balistica e separazione magnetica, la cui descrizione ingegneristica non è oggetto di questo elaborato. Tale impianto sarebbe autorizzato all’operazione di recupero R3, ovvero “riciclaggio/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi (comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche)”.
Ciò che è importante ora è analizzare come la normativa applicabile possa incidere sul lay-out del processo produttivo di un tale impianto, in modo particolare per quello che costituisce l’output di processo, ovvero il materiale in uscita dall’impianto a seguito delle operazioni di trattamento per le quali è stato autorizzato.
Un impianto che, antecedentemente all’entrata in vigore del D.Lgs 152/2006, riceveva in ingresso rifiuti urbani (indifferenziati), che quindi comprendevano, in frazioni merceologiche differenti a seconda di molteplici fattori quali la stagionalità e le abitudini della popolazione, anche materiale organico biodegradabile, era strutturato per separare la frazione umida da quella secca per ricavare “compost da rifiuti” dalla prima frazione, e “combustibile derivato da rifiuti” dalla seconda.
Soffermandosi in questa sede in dettaglio solo sul primo dei due output di processo, la previgente normativa in materia di rifiuti (sia il D.Lgs 22/1997 -“Decreto Ronchi”-, art. 6, lettera q), sia il suo corrispondente art. 183, ex lett. t) del D.Lgs 152/2006 -“Testo Unico Ambientale”-) definiva, in via generale, il compost da rifiuti come “il prodotto ottenuto dal compostaggio della frazione organica dei rifiuti urbani nel rispetto di apposite norme tecniche finalizzate a definirne contenuti e usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria e, in particolare, a definirne i gradi di qualità”.
Già da una lettura di questa definizione emergono due aspetti importanti:
Il compost è un “prodotto”, e non un rifiuto, ed è soggetto a norme tecniche che ne definiscano caratteristiche e usi tali da garantirne la non pericolosità o dannosità per l’ambiente e le persone;
il compost è originato da un processo particolare che viene specificatamente chiamato “compostaggio”, e che si tratta di un processo aerobico di decomposizione biologica della sostanza organica, che si svolge nelle due fasi di biossidazione e successiva maturazione e che avviene in condizioni operative controllate (monitoraggio dei parametri di temperatura e umidità, ribaltamento periodico dei cumuli di materiale per favorirne l’ossigenazione, ecc..).
Nello specifico, la produzione e l’impiego del compost da rifiuti faceva riferimento alla Delibera Interministeriale 27/07/1984, tra l’altro tuttora in vigore, che al punto 3.4.2 stabilisce le “possibili utilizzazioni del compost” sui suoli agricoli, soffermandosi in particolare sul fatto che le quantità di compost interrabili sono in funzione del contenuto di metalli sui suoli di destinazione, e definisce, alla Tabella 3.3, le concentrazioni massime dei metalli presenti nei terreni e addizionabili annualmente mediante la somministrazione del compost.
In ogni caso, salvo la sola utilizzazione floricolturale, il compost non può superare il limite di 300 quintali per ettaro nel triennio continuato di somministrazione.
In sostanza il “compost da rifiuti”, proveniente dal trattamento biologico in condizioni aerobiche della frazione organica dei rifiuti urbani, e successivamente sottoposto a ulteriori processi di raffinazione quali il passaggio in tavole densimetriche, era un prodotto con caratteristiche agronomiche tali da poter essere impiegato come ammendante sui suoli agricoli, o in alternativa poteva anche essere interrato su altri terreni, quali ad esempio i pioppeti, la cui cultura è prevalentemente destinata alla ripopolazione di alcune aree boschive impoverite dall’avanzata delle colture agricole.
Lo scenario industriale per l’impianto di trattamento in oggetto di questo elaborato comincia a mutare allorquando entra in vigore il D.Lgs 4/2008 (secondo correttivo al D.Lgs 152/2006), il quale introduce una significativa diversificazione della nozione di compost, prevedendo due differenti tipologie di compost:
compost da rifiuti (art. 183, lett. t)): “prodotto ottenuto dal compostaggio della frazione organica dei rifiuti urbani nel rispetto di apposite norme tecniche finalizzate a definirne contenuti e usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria e, in particolare, a definirne i gradi di qualità”;
compost di qualità (art. 183, lett. u)): “prodotto ottenuto dal compostaggio dei rifiuti organici raccolti separatamente, che rispetti i requisiti e le caratteristiche stabilite dall’allegato 2 del D.Lgs 217/2006 e successive modifiche e integrazioni”.
Si sono create di fatto due sostanziali e contrapposte diversificazioni: i due materiali sono originati da matrici diverse e il fulcro di questa diversità consiste necessariamente nella purezza della frazione merceologica, in quanto il “compost di qualità” è ottenuto da un processo di compostaggio di rifiuti organici raccolti separatamente, ovvero derivanti da raccolta differenziata dei materiali biodegradabili.
L’aspetto tuttavia non secondario è che se per il cosiddetto “compost di qualità” le caratteristiche erano definite dal D.Lgs 217/2006, ora abrogato dal vigente D.Lgs 75/2010 e che disciplina la materia dei fertilizzanti, al contrario per il “compost da rifiuti” le caratteristiche per il suo utilizzo non erano più così scontate, precise e aggiornate.
Quindi, per riassumere, se il “compost di qualità”, in quanto in seguito soggetto alla normativa sui fertilizzanti, è un prodotto a tutti gli effetti (e non un rifiuto), addirittura definito come “ammendante compostato” (“verde” se derivante principalmente dalla raccolta differenziata di rifiuti ligneo-cellulosici come erbe, ramaglie, sfalci di potatura, ecc.., o “misto” a seconda che comprenda anche fanghi, reflui e rifiuti di origine animale quali i liquami zootecnici), per il “compost da rifiuti”, non essendo mai state né definite né emanate precise norme tecniche che ne stabiliscano caratteristiche tecniche e agronomiche, nonché possibili destinazioni d’uso, si continuava a fare riferimento alle norme tecniche riferibili alla sopra citata Delibera interministeriale del 27/07/1984, l’unica in materia e tale da consentirne, a tutti gli effetti, un utilizzo sicuro e controllato.
Con l’entrata in vigore del D.Lgs 205/2010 il quadro nozionistico si modifica di nuovo profondamente. Ad oggi, infatti, sono presenti nel Testo unico Ambientale, all’art. 183, le seguenti definizioni:
compost di qualità (art. 183, ex lett. t), ora lett. ee): “prodotto ottenuto dal compostaggio dei rifiuti organici nel rispetto di apposite norme tecniche, da adottarsi a cura dello Stato, finalizzate a definirne contenuti e usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria e, in particolare, a definirne i gradi di qualità”;
rifiuto biostabilizzato (art. 183, lett. dd)), definito come “rifiuto ottenuto dal trattamento biologico aerobico o anaerobico dei rifiuti indifferenziati nel rispetto di apposite norme tecniche, da adottarsi a cura dello Stato, finalizzate a definirne contenuti e usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria e, in particolare, a definirne i gradi di qualità”.
L’assetto normativo è ora giunto a una svolta: niente più “compost da rifiuti” secondo la vecchia accezione (ovvero derivante dal trattamento biomeccanico della frazione organica dei rifiuti urbani indifferenziati), ora del tutto scomparso dall’assetto normativo, ma un “compost di qualità” poiché ottenuto da materiale teoricamente (ma anche operativamente riscontrabile) più puro poiché proveniente da raccolta differenziata separata del rifiuto umido organico. Al posto del vecchio compost troviamo ora un “rifiuto biostabilizzato”, un rifiuto speciale le cui caratteristiche e possibili utilizzazioni sono tutt’oggi ancora avvolte nell’ombra.
Infatti, come si evince dalle suddette definizioni, apposite nuove norme tecniche avrebbero dovuto essere emanate per il “nuovo” “compost di qualità” e il “rifiuto biostabilizzato”, ma ancora oggi di tali norme tecniche non si sa ancora come né quando saranno pubblicate.
Tornando a questo punto all’ipotetico impianto di cui all’inizio di questo breve trattato, si configura il seguente scenario: fino alla naturale scadenza dell’autorizzazione in essere, l’impianto potrà continuare a raccogliere i rifiuti urbani indifferenziati, e a sua discrezione a produrre l’ex “compost da rifiuti” (in quanto comunque autorizzato a farlo). Dovrà però verificare se potrà produrre o meno il “rifiuto biostabilizzato” (modificando eventualmente tecnologie e processi produttivi) senza incorrere nel rischio di sanzioni, poiché non è mai stato spiegato, con specifiche tecniche, cosa sia detto materiale e quali siano i “gradi di qualità” che ne garantiscano “usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria”, né tanto meno è stato individuato un mercato di riferimento. Rimane dunque un’incertezza sul fatto che i prodotti o i rifiuti (scarti di lavorazione) ottenuti sin ora siano compatibili con le esigenze della nuova normativa di riferimento.
E il “compost di qualità”? Sembrerebbe che ora sia stato escluso della normativa sui fertilizzanti che, tra l’altro, prescrive anche obblighi non indifferenti che gravano sulle aziende (iscrizione dell’impianto in un Registro dei produttori di fertilizzanti e in un Registro dei fertilizzanti, esecuzione di indagini analitiche periodiche sul materiale, tenuta di un corpus documentale che consenta di ricostruire la tracciabilità del fertilizzante, ovvero la natura e la provenienza della materia prima da cui il fertilizzante è originato, il trattamento/processo produttivo e la tipologia del prodotto finito, al fine di una palese trasparenza e garanzia di qualità nei confronti dell’utilizzatore).
Neanche per esso, tuttavia, sono state definite ancora le “apposite norme tecniche”, quindi si avrebbe a che fare con un materiale che, posto il suo ipotetico perdurare impiego principale sui suoli agricoli, resta soggetto alle disposizioni della Delibera Interministeriale del 27/07/1984, come detto tuttora in vigore.
Non ci si può affidare al DM 5/2/1998 per tentare di ricostruire un quadro normativo di riferimento sul compostaggio, in quanto tale decreto è stato concepito per la sua utilizzazione per le procedure semplificate e non per le procedure ordinarie. È necessario pertanto un decreto che tenga in dovuta considerazione i mutati scenari di impiego del “compost”, in virtù dell’evoluzione della tecnica e della tecnologia, ma anche della domanda di mercato per tale materiale.
Inoltre, con il sorgere sempre più massiccio di impianti di cogenerazione per la produzione combinata di energia elettrica e termica, i quali utilizzano come materia prima per il proprio processo produttivo effluenti zootecnici, fanghi di depurazione delle acque reflue, biomasse legnose e rifiuti organici di diversa natura e provenienza in pezzature con granulometria opportunamente controllata, valorizzando tali “combustibili” con sistemi di trattamento a elevato contenuto ambientale, è estremamente necessario che si definiscano, in materia chiara e senza dubbi interpretativi, delle caratteristiche tecniche minime e dei criteri di qualità per il nuovo prodotto che si viene così a originare.
Probabilmente si tratterà di andare a ritoccare qua e là anche alcune nozioni teoriche, e di rivedere alcune norme specialistiche sulla materia. In primis dovranno essere definiti quali operazioni o fasi produttive minime sono necessarie per realizzare il prodotto “compost di qualità” o per ottenere un “rifiuto biostabilizzato”, precisando anche il relativo CER (ad esempio CER 19 05 03 “compost fuori specifica”?) ed eventuali passaggi o trattamenti successivi, nonché gli ipotetici scenari di utilizzazione.
Bisognerà inoltre stabilire quali parametri dovranno essere monitorati e con quale periodicità durante il processo di trasformazione (aerobico o anerobico che sia), quali dovranno essere i valori limite di determinate sostanze presenti (come già individuato nella Tabella 3.3 al punto 3.4.2 della già più volte menzionata Delibera 27/07/1984), quali strumenti, tecniche e/o metodiche di misura adottare, quali i presidi ambientali applicabili.
Ecco quindi, in conclusione, che in prospettiva di una piena applicazione delle disposizioni legislative descritte in questo breve elaborato i Gestori dell’impianto “tipo” qui presentato, sulla base dello specifico processo produttivo, delle modalità di trattamento dei rifiuti in ingresso, dei sistemi di monitoraggio dei parametri fondamentali, dovranno decidere se originare uno scarto di processo, ovvero il “rifiuto biostabilizzato”, oppure produrre un “compost di qualità” da destinare a una specifica nicchia di mercato.
Ma a quale “qualità” (ovvero con quali caratteristiche)? Staremo a vedere.
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Quale qualità per il compost?
di Matteo Pivotto
La nuova disciplina in materia di gestione dei rifiuti, introdotta dalla Parte IV del D.Lgs 152/2006 (cosiddetto “Testo Unico Ambientale”) e s.m.i. (in primis il D.Lgs 4/2008 e il D.Lgs 205/2010) ha mutato, talvolta in materia incisiva, quello che era lo scenario, sotto il profilo industriale, dell’intera filiera. Alcuni concetti “ex novo”, come quello di End Of Waste o di “preparazione per il riutilizzo” aprono una finestra verso mercati nuovi, o comunque per l’avvio di attività alternative di business, il primo per materiali che, da rifiuti, sotto opportune condizioni possono essere rivalorizzati e uscire dalla sfera di influenza della materia dei rifiuti, il secondo per materiali che, pur mantenendo lo status di rifiuti, possono essere “preparati” (a seguito di specifiche e definite operazioni) per poter poi essere successivamente riutilizzati senza ulteriori forme di pretrattamento.
Rimanendo in un’ottica industriale, pur mantenendo sempre uno stretto contatto con l’evoluzione normativa di settore, lo scopo di questa trattazione è quello di focalizzare l’attenzione su quelle che possono essere state le “ricadute” su un impianto (immaginario) di trattamento bio-meccanico di rifiuti urbani, a seguito dell’entrata in vigore delle suddette recenti normative, e in particolare di alcune nuove nozioni introdotte che si andranno in questa sede progressivamente ad analizzare.
Un ipotetico siffatto impianto di trattamento dei rifiuti urbani (provenienti, ad esempio, da un bacino di utenza che comprenda gli abitanti di un determinato numero di Comuni) raccoglie in ingresso rifiuti costituiti da materiale indifferenziato (CER 20 03 01), rifiuti biodegradabili ligneo-cellulosici (CER 20 02 01, ad esempio sfalci di potature, rifiuti da manutenzione di giardini e parchi), ma anche residui umidi organici di cucine e mense (CER 20 01 08).
Tali materiali sono soggetti a operazioni diverse di selezione, vagliatura meccanica, vibrovagliatura, separazione balistica e separazione magnetica, la cui descrizione ingegneristica non è oggetto di questo elaborato. Tale impianto sarebbe autorizzato all’operazione di recupero R3, ovvero “riciclaggio/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi (comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche)”.
Ciò che è importante ora è analizzare come la normativa applicabile possa incidere sul lay-out del processo produttivo di un tale impianto, in modo particolare per quello che costituisce l’output di processo, ovvero il materiale in uscita dall’impianto a seguito delle operazioni di trattamento per le quali è stato autorizzato.
Un impianto che, antecedentemente all’entrata in vigore del D.Lgs 152/2006, riceveva in ingresso rifiuti urbani (indifferenziati), che quindi comprendevano, in frazioni merceologiche differenti a seconda di molteplici fattori quali la stagionalità e le abitudini della popolazione, anche materiale organico biodegradabile, era strutturato per separare la frazione umida da quella secca per ricavare “compost da rifiuti” dalla prima frazione, e “combustibile derivato da rifiuti” dalla seconda.
Soffermandosi in questa sede in dettaglio solo sul primo dei due output di processo, la previgente normativa in materia di rifiuti (sia il D.Lgs 22/1997 -“Decreto Ronchi”-, art. 6, lettera q), sia il suo corrispondente art. 183, ex lett. t) del D.Lgs 152/2006 -“Testo Unico Ambientale”-) definiva, in via generale, il compost da rifiuti come “il prodotto ottenuto dal compostaggio della frazione organica dei rifiuti urbani nel rispetto di apposite norme tecniche finalizzate a definirne contenuti e usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria e, in particolare, a definirne i gradi di qualità”.
Già da una lettura di questa definizione emergono due aspetti importanti:
Nello specifico, la produzione e l’impiego del compost da rifiuti faceva riferimento alla Delibera Interministeriale 27/07/1984, tra l’altro tuttora in vigore, che al punto 3.4.2 stabilisce le “possibili utilizzazioni del compost” sui suoli agricoli, soffermandosi in particolare sul fatto che le quantità di compost interrabili sono in funzione del contenuto di metalli sui suoli di destinazione, e definisce, alla Tabella 3.3, le concentrazioni massime dei metalli presenti nei terreni e addizionabili annualmente mediante la somministrazione del compost.
In ogni caso, salvo la sola utilizzazione floricolturale, il compost non può superare il limite di 300 quintali per ettaro nel triennio continuato di somministrazione.
In sostanza il “compost da rifiuti”, proveniente dal trattamento biologico in condizioni aerobiche della frazione organica dei rifiuti urbani, e successivamente sottoposto a ulteriori processi di raffinazione quali il passaggio in tavole densimetriche, era un prodotto con caratteristiche agronomiche tali da poter essere impiegato come ammendante sui suoli agricoli, o in alternativa poteva anche essere interrato su altri terreni, quali ad esempio i pioppeti, la cui cultura è prevalentemente destinata alla ripopolazione di alcune aree boschive impoverite dall’avanzata delle colture agricole.
Lo scenario industriale per l’impianto di trattamento in oggetto di questo elaborato comincia a mutare allorquando entra in vigore il D.Lgs 4/2008 (secondo correttivo al D.Lgs 152/2006), il quale introduce una significativa diversificazione della nozione di compost, prevedendo due differenti tipologie di compost:
Si sono create di fatto due sostanziali e contrapposte diversificazioni: i due materiali sono originati da matrici diverse e il fulcro di questa diversità consiste necessariamente nella purezza della frazione merceologica, in quanto il “compost di qualità” è ottenuto da un processo di compostaggio di rifiuti organici raccolti separatamente, ovvero derivanti da raccolta differenziata dei materiali biodegradabili.
L’aspetto tuttavia non secondario è che se per il cosiddetto “compost di qualità” le caratteristiche erano definite dal D.Lgs 217/2006, ora abrogato dal vigente D.Lgs 75/2010 e che disciplina la materia dei fertilizzanti, al contrario per il “compost da rifiuti” le caratteristiche per il suo utilizzo non erano più così scontate, precise e aggiornate.
Quindi, per riassumere, se il “compost di qualità”, in quanto in seguito soggetto alla normativa sui fertilizzanti, è un prodotto a tutti gli effetti (e non un rifiuto), addirittura definito come “ammendante compostato” (“verde” se derivante principalmente dalla raccolta differenziata di rifiuti ligneo-cellulosici come erbe, ramaglie, sfalci di potatura, ecc.., o “misto” a seconda che comprenda anche fanghi, reflui e rifiuti di origine animale quali i liquami zootecnici), per il “compost da rifiuti”, non essendo mai state né definite né emanate precise norme tecniche che ne stabiliscano caratteristiche tecniche e agronomiche, nonché possibili destinazioni d’uso, si continuava a fare riferimento alle norme tecniche riferibili alla sopra citata Delibera interministeriale del 27/07/1984, l’unica in materia e tale da consentirne, a tutti gli effetti, un utilizzo sicuro e controllato.
Con l’entrata in vigore del D.Lgs 205/2010 il quadro nozionistico si modifica di nuovo profondamente. Ad oggi, infatti, sono presenti nel Testo unico Ambientale, all’art. 183, le seguenti definizioni:
L’assetto normativo è ora giunto a una svolta: niente più “compost da rifiuti” secondo la vecchia accezione (ovvero derivante dal trattamento biomeccanico della frazione organica dei rifiuti urbani indifferenziati), ora del tutto scomparso dall’assetto normativo, ma un “compost di qualità” poiché ottenuto da materiale teoricamente (ma anche operativamente riscontrabile) più puro poiché proveniente da raccolta differenziata separata del rifiuto umido organico. Al posto del vecchio compost troviamo ora un “rifiuto biostabilizzato”, un rifiuto speciale le cui caratteristiche e possibili utilizzazioni sono tutt’oggi ancora avvolte nell’ombra.
Infatti, come si evince dalle suddette definizioni, apposite nuove norme tecniche avrebbero dovuto essere emanate per il “nuovo” “compost di qualità” e il “rifiuto biostabilizzato”, ma ancora oggi di tali norme tecniche non si sa ancora come né quando saranno pubblicate.
Tornando a questo punto all’ipotetico impianto di cui all’inizio di questo breve trattato, si configura il seguente scenario: fino alla naturale scadenza dell’autorizzazione in essere, l’impianto potrà continuare a raccogliere i rifiuti urbani indifferenziati, e a sua discrezione a produrre l’ex “compost da rifiuti” (in quanto comunque autorizzato a farlo). Dovrà però verificare se potrà produrre o meno il “rifiuto biostabilizzato” (modificando eventualmente tecnologie e processi produttivi) senza incorrere nel rischio di sanzioni, poiché non è mai stato spiegato, con specifiche tecniche, cosa sia detto materiale e quali siano i “gradi di qualità” che ne garantiscano “usi compatibili con la tutela ambientale e sanitaria”, né tanto meno è stato individuato un mercato di riferimento. Rimane dunque un’incertezza sul fatto che i prodotti o i rifiuti (scarti di lavorazione) ottenuti sin ora siano compatibili con le esigenze della nuova normativa di riferimento.
E il “compost di qualità”? Sembrerebbe che ora sia stato escluso della normativa sui fertilizzanti che, tra l’altro, prescrive anche obblighi non indifferenti che gravano sulle aziende (iscrizione dell’impianto in un Registro dei produttori di fertilizzanti e in un Registro dei fertilizzanti, esecuzione di indagini analitiche periodiche sul materiale, tenuta di un corpus documentale che consenta di ricostruire la tracciabilità del fertilizzante, ovvero la natura e la provenienza della materia prima da cui il fertilizzante è originato, il trattamento/processo produttivo e la tipologia del prodotto finito, al fine di una palese trasparenza e garanzia di qualità nei confronti dell’utilizzatore).
Neanche per esso, tuttavia, sono state definite ancora le “apposite norme tecniche”, quindi si avrebbe a che fare con un materiale che, posto il suo ipotetico perdurare impiego principale sui suoli agricoli, resta soggetto alle disposizioni della Delibera Interministeriale del 27/07/1984, come detto tuttora in vigore.
Non ci si può affidare al DM 5/2/1998 per tentare di ricostruire un quadro normativo di riferimento sul compostaggio, in quanto tale decreto è stato concepito per la sua utilizzazione per le procedure semplificate e non per le procedure ordinarie. È necessario pertanto un decreto che tenga in dovuta considerazione i mutati scenari di impiego del “compost”, in virtù dell’evoluzione della tecnica e della tecnologia, ma anche della domanda di mercato per tale materiale.
Inoltre, con il sorgere sempre più massiccio di impianti di cogenerazione per la produzione combinata di energia elettrica e termica, i quali utilizzano come materia prima per il proprio processo produttivo effluenti zootecnici, fanghi di depurazione delle acque reflue, biomasse legnose e rifiuti organici di diversa natura e provenienza in pezzature con granulometria opportunamente controllata, valorizzando tali “combustibili” con sistemi di trattamento a elevato contenuto ambientale, è estremamente necessario che si definiscano, in materia chiara e senza dubbi interpretativi, delle caratteristiche tecniche minime e dei criteri di qualità per il nuovo prodotto che si viene così a originare.
Probabilmente si tratterà di andare a ritoccare qua e là anche alcune nozioni teoriche, e di rivedere alcune norme specialistiche sulla materia. In primis dovranno essere definiti quali operazioni o fasi produttive minime sono necessarie per realizzare il prodotto “compost di qualità” o per ottenere un “rifiuto biostabilizzato”, precisando anche il relativo CER (ad esempio CER 19 05 03 “compost fuori specifica”?) ed eventuali passaggi o trattamenti successivi, nonché gli ipotetici scenari di utilizzazione.
Bisognerà inoltre stabilire quali parametri dovranno essere monitorati e con quale periodicità durante il processo di trasformazione (aerobico o anerobico che sia), quali dovranno essere i valori limite di determinate sostanze presenti (come già individuato nella Tabella 3.3 al punto 3.4.2 della già più volte menzionata Delibera 27/07/1984), quali strumenti, tecniche e/o metodiche di misura adottare, quali i presidi ambientali applicabili.
Ecco quindi, in conclusione, che in prospettiva di una piena applicazione delle disposizioni legislative descritte in questo breve elaborato i Gestori dell’impianto “tipo” qui presentato, sulla base dello specifico processo produttivo, delle modalità di trattamento dei rifiuti in ingresso, dei sistemi di monitoraggio dei parametri fondamentali, dovranno decidere se originare uno scarto di processo, ovvero il “rifiuto biostabilizzato”, oppure produrre un “compost di qualità” da destinare a una specifica nicchia di mercato.
Ma a quale “qualità” (ovvero con quali caratteristiche)? Staremo a vedere.
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