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Recupero acque reflue: obbligo o opportunità per le imprese?

di Miriam Viviana Balossi

Categoria: Acqua

Il presente contributo si propone di affrontare il tema, spesso sottovalutato, del recupero delle acque reflue (con particolare riguardo a quelle industriali) ai fini del loro riutilizzo, in primis in agricoltura. Il settore primario, del resto, è quello che maggiormente risente di questi anni di siccità e scarsità idrica, con conseguenti danni alle produzioni agricole e, indirettamente, all’industria agroalimentare.
Le aziende, però, possono forse trarre qualche beneficio dalle ultime disposizioni normative sul recupero delle acque reflue?

La normativa vigente

L’art. 99 del D.L.vo 3 aprile 2006, n. 152 dispone in materia di riutilizzo dell’acqua come segue:
“1. Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio con proprio decreto, sentiti i Ministri delle politiche agricole e forestali, della salute e delle attività produttive, detta le norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue.
2. Le regioni, nel rispetto dei principi della legislazione statale, e sentita l’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, adottano norme e misure volte a favorire il riciclo dell’acqua e il riutilizzo delle acque reflue depurate
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Il D.M. 12 giugno 2003, n. 185 (Regolamento recante norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue in attuazione dell’articolo 26, comma 2, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152), all’art. 1 “stabilisce … le norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue domestiche, urbane ed industriali …”.
Secondo il disposto dell’art. 2, si definisce “recupero: riqualificazione di un’acqua reflua, mediante adeguato trattamento depurativo, al fine di renderla adatta alla distribuzione per specifici utilizzi”.

Poi ancora: “impianto di recupero: le strutture destinate al trattamento depurativo di cui alla lettera a)1, incluse le eventuali strutture di equalizzazione e di stoccaggio delle acque reflue recuperate presenti all’interno dell’impianto, prima dell’immissione nella rete di distribuzione delle acque reflue recuperate” (lett. b).
La successiva lett. d) definisce “riutilizzo: impiego di acqua reflua recuperata di determinata qualità per specifica destinazione d’uso, per mezzo di una rete di distribuzione, in parziale o totale sostituzione di acqua superficiale o sotterranea”.
L’art. 3 si sofferma sulle destinazioni d’uso ammissibili e cita innanzitutto quello “irriguo: per l’irrigazione di colture destinate sia alla produzione di alimenti per il consumo umano ed animale sia a fini non alimentari, nonché per l’irrigazione di aree destinate al verde o ad attività ricreative o sportive”.

Circa i requisiti di qualità delle acque reflue ai fini del riutilizzo, l’art. 4, c. 1 dispone che “le acque reflue recuperate destinate al riutilizzo irriguo o civile devono possedere, all’uscita dell’impianto di recupero, requisiti di qualità chimico-fisici e microbiologici almeno pari a quelli riportati nella tabella” dell’allegato “Requisiti minimi di qualità delle acque reflue recuperate all’uscita dell’impianto di recupero”.

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L’art. 7, poi, stabilisce che l’impianto di recupero delle acque reflue sia soggetto al controllo da parte dell’autorità competente per la verifica del rispetto delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione allo scarico. Il titolare dell’impianto di recupero deve, in ogni caso, assicurare un sufficiente numero di autocontrolli all’uscita dell’impianto di recupero, comunque non inferiore a quello previsto dalla normativa regionale in rapporto alle specifiche utilizzazioni.

I risultati delle analisi devono essere messi a disposizione delle autorità di controllo.
Una volta garantita la qualità dell’acqua recuperata, si apre poi un secondo scenario che coinvolge altri enti (consorzi di bonifica, gestori del servizio idrico integrato, etc …) nelle opportune sedi. L’art. 9, infatti, dispone che le reti di distribuzione delle acque reflue recuperate siano separate e realizzate in maniera tale da evitare rischi di contaminazione alla rete di adduzione e distribuzione delle acque destinate al consumo umano. Inoltre, l’art. 11 stabilisce che “il titolare della rete di distribuzione effettua il monitoraggio ai fini della verifica dei parametri chimici e microbiologici delle acque reflue recuperate che vengono distribuite e degli effetti ambientali, agronomici e pedologici del riutilizzo”.

Per completezza, il D.L. 14 aprile 2023, n. 39 (Disposizioni urgenti per il contrasto della scarsità idrica e per il potenziamento e l’adeguamento delle infrastrutture idriche), come convertito in L. 13 giugno 2023, n. 68 (in G.U. 13 giugno 2023, n. 136), all’art. 7 dispone in materia di riutilizzo delle acque reflue depurate ad uso irriguo.

In tale sede, si legge: “al fine di fronteggiare la crisi idrica, garantendone una gestione razionale e sostenibile, il riutilizzo a scopi irrigui in agricoltura delle acque reflue depurate prodotte dagli impianti di depurazione già in esercizio alla data di entrata in vigore del presente decreto, nel rispetto delle prescrizioni minime di cui all’Allegato A al presente decreto, è autorizzato fino al 30 giugno 2024 dalla regione o dalla provincia autonoma territorialmente competente ai sensi del regolamento (UE) 2020/741 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 maggio 2020” (c. 1).

A quest’ultimo proposito, si ricorda che l’Unione Europea ha pubblicato il Reg. (UE) 2020/741 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 maggio 2020 recante prescrizioni minime per il riutilizzo dell’acqua (il cui All. I è segnatamente dedicato all’uso irriguo). Al momento in cui si scrive, è in consultazione (e lo sarà fino all’8 febbraio 2024) la proposta di Regolamento delegato destinato ad integrare il citato Reg. (UE) 2020/741, in relazione alle specifiche tecniche dei Piani di Gestione del rischio che devono essere allegati alla domanda di autorizzazione al riutilizzo delle acque depurate.

La normativa in itinere

Si è finalmente conclusa la fase di consultazione dello schema di D.P.R. sul riutilizzo delle acque reflue depurate e affinate, che in futuro sostituirà il D.M. 185/2003.
L’art. 1 dello schema di decreto dispone che esso disciplina il “riutilizzo delle acque reflue urbane affinate ai fini industriali previsti dall’Allegato I, Sezione 1, Parte B, del presente decreto”, ovvero: acque antincendio; acque di processo; acque di lavaggio; acque per i cicli termici dei processi industriali, ad esclusione degli usi che comportano un contatto diretto tra le acque affinate e i prodotti alimentari, farmaceutici e cosmetici.

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Il successivo art. 2 specifica l’ambito di applicazione: “acque reflue industriali, come definite ai sensi dell’articolo 74, comma 1, lett. h) del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 affinate e riutilizzate, con esclusione delle categorie industriali di cui all’articolo 14 e con le limitazioni di cui allo stesso articolo”.

Tuttavia, prosegue la norma, “le disposizioni del presente decreto non si applicano al riutilizzo di acque reflue industriali presso il medesimo stabilimento o consorzio industriale che le ha prodotte, sottoposto alla disciplina autorizzativa vigente in materia di Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) e Autorizzazione Unica Ambientale (AUA)”.

L’art. 14 sul riutilizzo delle acque reflue industriali affinate dispone che “non è consentito il riutilizzo per fini irrigui, civili e ambientali per le seguenti categorie di attività industriali, anche qualora presenti in consorzi industriali che afferiscono ad un unico depuratore/impianto di affinamento …”: si tratta di attività industriali che prevedono l’utilizzo nel proprio ciclo produttivo delle sostanze di cui alla Tab 3/A dell’All. 5 alla Parte III del D.L.vo 152/06, di gruppi riconducibili a IPA, PFAS e alofenoli, nonché di attività industriali che prevedono la produzione o l’utilizzo nel proprio ciclo produttivo di composti organo alogenati, composti organo-fosforici, composti organo-stannici, sostanze che hanno potere cancerogeno, mutageno e teratogeno in ambiente idrico, mercurio e i suoi composti, cadmio e i suoi composti, oli minerali persistenti e idrocarburi di origine petrolifera persistenti, cianuri.

Conclusioni

Che il tema della scarsità e della crisi idrica sia attuale, è un dato di fatto.
Che l’acqua sia un bene prezioso, è noto.
Che le risorse idriche non siano inesauribili, è ormai conclamato.
Il consumo di acqua cresce ogni anno.
A ciò si aggiungono i cambiamenti climatici che minacciano la disponibilità quali-quantitativa di acqua.

Il riuso ha indubbie opportunità (risorsa idrica integrativa, maggiore disponibilità di risorsa, riduzione dei prelievi e della pressione sulle falde), ma al contempo anche dei vincoli (garanzia di livelli minimi di qualità per la salvaguardia della salute umana e la tutela ambientale; trattamenti fisico-chimici e microbiologici per garantire idonei parametri di qualità; controlli e monitoraggi all’uscita dell’impianto di depurazione; disponibilità di una rete di distribuzione, ecc …).
Non essendoci – a che risulti – né obblighi, né sanzioni nella normativa vigente, optare a favore del recupero delle acque reflue industriali resta una scelta aziendale.
Che può collaborare al raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030.
Che può contribuire all’ottimizzazione dei costi dell’approvvigionamento idrico.
Che può ridurre il volume dei reflui generati e risparmiare sugli oneri di collettamento degli scarichi.

Tutto parte dalla consapevolezza: recuperare l’acqua utilizzata nel processo industriale può tradursi in un ritorno non solo economico, ma anche di immagine.

1 “a) Recupero: riqualificazione di un’acqua reflua, mediante adeguato trattamento depurativo, al fine di renderla adatta alla distribuzione per specifici riutilizzi”.

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