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Stefano Maglia

Rifiuti: inosservanza delle prescrizioni. Facciamo il punto

di Stefano Maglia, Deborah De Stefani

Categoria: Rifiuti

Recentemente la Cassazione penale è intervenuta più volte sul tema dell’inosservanza delle prescrizioni contenute nelle autorizzazioni e della carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni che abilitano all’esercizio delle attività di gestione dei rifiuti.

Tali situazioni, infatti, configurano l’ipotesi di reato contravvenzionale di cui all’art. 256 comma 4 D.Lvo n. 152/06.

A parere di chi scrive, appare quindi opportuno riassumere ed esaminare le ultime decisioni dei giudici di legittimità riguardo l’interpretazione della suddetta ipotesi di reato, seguendo un approccio per lo più pragmatico al fine di fornire indicazioni utili per gli operatori interessati.

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Come sempre, occorre partire dal dato normativo letterale, in base al quale “le pene di cui ai commi 1, 2 e 3 sono ridotte della metà nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni”.

 

Ricostruendo dunque il contenuto del precetto penale in seguito alla lettura dei primi 3 commi richiamati ai fini della determinazione sia della condotta illecita sia del trattamento sanzionatorio, deve concludersi che qualora un soggetto, pur in possesso dei titoli autorizzativi di cui al comma 1, ossia dei titoli necessari per l’esercizio delle attività di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento, commercio e intermediazione dei rifiuti, violi le relative prescrizioni, integra un’ipotesi di reato, punita con la pena alternativa dell’arresto da 45 giorni a 6 mesi o dell’ammenda da milletrecento euro a tredicimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi, oppure con la pena cumulativa dell’arresto da tre mesi a un anno e dell’ammenda da milletrecento euro a tredicimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi.

 

La norma di cui all’art. 256 comma 4 richiama altresì la fattispecie di reato di cui al comma 2, la quale tuttavia sanziona le condotte di deposito incontrollato, di abbandono e di immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali o sotterranee. Dal momento che le due ultime condotte descritte dall’art. 256 comma 2 sono da ritenersi per loro stessa natura sempre illecite e mai assentibili da parte delle autorità competenti in materia di rifiuti, il richiamo operato dall’art. 256 comma 4 risulta improprio.

Al pari, con riferimento al deposito incontrollato quale ipotesi di realizzazione di un deposito temporaneo senza però il rispetto delle condizioni di cui all’art. 183 comma 1, lett. bb), deve sottolinearsi che il deposito temporaneo non rientra nel concetto di gestione di rifiuti e, di conseguenza, non è sottoposto ad alcun regime di carattere lato sensu autorizzativo.

Pertanto, qualora venga eseguito secondo le prescritte modalità, è un’attività ex se lecita; al contrario, qualora non siano rispettate le anzidette condizioni, deve qualificarsi come stoccaggio non autorizzato, rilevante ai sensi del comma del comma 1 dell’art. 256, oppure come deposito incontrollato ai sensi del comma 2, senza che dalla differente qualificazione giuridica derivino per la persona fisica[1] conseguenze sanzionatorie più o meno favorevoli, in quanto il comma 2 rinvia alla cornice edittale prevista dal comma 1.

 

Ciò posto in punto di prima esegesi della norma in discorso, occorre segnalare che, come affermato da autorevole dottrina[2], nonché dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’art. 256 comma 4 del D.Lvo n. 152/06 “costituisce una tipica norma penale in bianco, il cui contenuto è delimitato dalle prescrizioni delle autorizzazioni in relazione alla finalità delle stesse e rappresenta un esempio della cd.“amministrativazione del diritto penale”, cioè dell’apprestamento di una sanzione penale per la violazione di disposizioni e precetti o prescrizioni amministrative di particolare rilevanza” e si configura tale reato con “la semplice inosservanza di una prescrizione prevista nell’autorizzazione, sia che la prescrizione discenda da previsioni legislative recepite nell’autorizzazione, che da prescrizioni integrative inserite dall’ autorità amministrativa indipendentemente da una previsione di legge[3].

Invero, il diritto penale dell’ambiente nel suo complesso, anche dopo l’introduzione dei delitti di inquinamento e disastro ambientale previsti dagli artt. 452-bis e 452-quater cod. pen., le cui condotte tipiche presentano comunque il requisito dell’abusività, si contraddistingue per il suo elevato grado di accessorietà rispetto alla disciplina amministrativa, la quale regola prevalentemente i procedimenti autorizzativi delle attività in grado di produrre un impatto sulle matrici ambientali o, in generale, sugli ecosistemi.

A tal proposito deve considerarsi che l’interesse all’ambiente è un interesse diffuso e adespota[4], che riceve inoltre dall’ordinamento una tutela non assoluta, ma sempre condizionata al giudizio di bilanciamento con altri interessi confliggenti e contrari secondo le circostanze del caso concreto[5].

La tutela sostanziale e la gestione di tali interessi richiede l’istituzione e l’attività di un ente pubblico, cui affidare la risoluzione del conflitto tra l’interesse ambientale e quelli ad esso antagonisti quando, come nel nostro caso, la prevalenza di un interesse sugli altri non possa essere sancita a priori e in astratto.

E’ dunque il provvedimento individuale e concreto dell’autorità amministrativa a delimitare l’effettivo perimetro del riconoscimento giuridico dell’interesse ambientale a seguito del bilanciamento con gli altri interessi contrapposti, ed inevitabilmente l’ordinamento, anche quello penale, nel limite sempre di quello stesso perimetro può tutelare tale interesse.

 

In merito risulta condivisibile la posizione dei commentatori penalisti i quali osservano che, seppur nei settori di tutela penale degli interessi diffusi “il rapporto con discipline extrapenali è parso immanente alla stessa costituzione degli oggetti di tutela[6], si pone comunque come ineludibile il problema di regolare in modo adeguato la dipendenza del diritto penale dalle discipline amministrative di settore selezionando specifici e più gravi tipi di offesa agli interessi protetti[7].

 

Tanto premesso dal punto di vista teorico e sistematico, devono ora esaminarsi le indicazioni di carattere più operativo desumibili dalle sentenze pronunciate dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione nel corso delle ultime settimane.

 

In primo luogo deve riportarsi la sentenza n. 6364 dell’11 febbraio 2019, ove i giudici di legittimità sostengono l’adozione di un criterio non formale ma sostanziale per la definizione e l’individuazione delle prescrizioni autorizzative, la cui violazione integra l’illecito contravvenzionale in esame.

La Corte di Cassazione asserisce che “le “prescrizioni” contenute o richiamate nelle autorizzazioni di cui all’art. 256, comma 4, del D.Lvo n. 152/06 sono tali non già, esclusivamente, per la denominazione espressa in tal senso loro attribuita dal provvedimento autorizzativo ma, ancor prima, ed indipendentemente da ogni possibile intitolazione, per il contenuto essenzialmente precettivo che le contraddistingue, in necessaria connessione con le finalità ed i limiti dell’autorizzazione rilasciata”.

Con riferimento alla vicenda oggetto del relativo procedimento giudiziario, la Corte di ultima istanza ha quindi confermato le decisioni dei giudici di merito, i quali hanno ritenuto che, in ragione dell’evidente collegamento con l’oggetto dell’autorizzazione, riguardante lo svolgimento di attività di messa in sicurezza, recupero e rottamazione di veicoli a motore e rimorchi, le indicazioni in ordine al posizionamento e alle modalità di utilizzo delle scaffalature e ai confini delle aree di stoccaggio dei rifiuti ricavabili dalla planimetria allegata costituiscano altrettante prescrizioni, la cui violazione configura pertanto l’ipotesi di reato di cui all’art. 256 comma 4.

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Si raccomanda, dunque, di non limitarsi a una lettura parziale e formalistica degli atti autorizzativi, ma di procedere ad un attento esame di quanto riportato nel provvedimento e di conformare la propria attività a tutte le istruzioni desumibili dal provvedimento medesimo.

 

Le sentenze n. 5817 del 6 febbraio 2019 e n. 6717 del 12 febbraio 2019 si soffermano, invece, sull’applicazione del criterio distintivo che consente di stabilire, nel caso di attività di recupero in forma semplificata ai sensi dell’art. 216 D.Lvo n. 152/06, se una condotta irregolare integri la fattispecie di gestione non autorizzata di cui all’art. 256 comma 1 o la meno grave fattispecie in esame.

Tale distinzione non è sempre agevole dal momento che, secondo costante giurisprudenza, l’esistenza formale di un provvedimento di autorizzazione non vale a considerare configurabile il meno grave reato di cui all’art. 256 comma 4 per qualsiasi condotta trasgressiva, magari macroscopicamente esorbitante dai limiti dell’autorizzazione, posta in essere dal soggetto agente.

Vieppiù può risultare difficile con riferimento alle cc.dd. attività di recupero in semplificata, ove è proprio il rispetto dei requisiti e dei limiti fissati in linea generale dal decreto ministeriale 5 febbraio 1998 e dal decreto ministeriale 12 giugno 2002 a rendere lecito e assentito l’esercizio di detta attività.

 

Nella sentenza n. 5817 del 6 febbraio 2019 la Corte di Cassazione ribadisce il principio generale a norma del quale “nell’ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni, il reato di cui all’art. 256, comma 4 D.Lvo 152/06 è configurabile nei soli casi in cui tale carenza sia attinente alle modalità di esercizio dell’attività, mentre, nella diversa ipotesi in cui essa si risolva nella sostanziale inesistenza del titolo abilitativo, si configura una illecita gestione” e, per quanto di nostro maggior interesse, precisa che il più grave reato di gestione di rifiuti non autorizzata di cui all’art. 256 comma 1 “certamente sussiste quando oggetto dell’attività sono rifiuti diversi da quelli indicati nelle comunicazioni ed iscrizioni”.

Nella sentenza di poco successiva, la sentenza n. 6717 del 12 febbraio 2019, la Terza Sezione della Cassazione penale affronta ancora il tema della delimitazione dei reciproci confini applicativi delle fattispecie di reato di cui ai commi 1 e 4 dell’art. 256, ritenendo che “l’attività di gestione di quantitativi di rifiuti superiori a quelli autorizzati, anche secondo la procedura semplificata di cui all’art. 216 D.Lvo 152/06, configura il reato di cui all’art. 256 comma 1 e non il meno grave reato di cui all’art. 256 comma 4”.

Al fine di motivare la loro posizione, i giudici di legittimità evidenziano che il quantitativo di rifiuti costituisce un elemento essenziale del provvedimento autorizzativo, poiché gli impianti, le fideiussioni e le altre soluzioni specifiche di carattere tecnico sono calibrati a tale quantità, sicché la gestione di quantità maggiori rispetto a quelle assentite vanifica l’attività istruttoria e deliberativa esperita dall’autorità amministrativa a tutela dell’ambiente e, di conseguenza, anche l’effetto giuridico del titolo autorizzativo, dovendo quindi considerarsi l’attività di trattamento di rifiuti svolta in mancanza di una valida autorizzazione.

 

Da ultimo, la sentenza n. 10933 del 13 marzo 2019, adottando una posizione che può definirsi innovativa rispetto alle sue precedenti pronunce, pone in luce come la condotta concreta penalmente rilevante ai fini del reato in discorso sia pressoché integralmente individuata dal contenuto della prescrizione contenuta o richiamata nei titoli autorizzativi e, pertanto, ne conclude che la tipologia e le caratteristiche di quest’ultima determinano altresì la natura del reato di cui all’art. 256 comma 4, che “può allora presentarsi, in concreto, come reato istantaneo (nel caso in cui, ad esempio, alla singola inosservanza segua immediatamente la cessazione dell’attività), come reato eventualmente abituale, quando si configuri attraverso condotte reiterate, ovvero eventualmente permanente, come nei casi dianzi richiamati o, comunque quando si concreta con la protrazione nel tempo della situazione antigiuridica creata da una singola condotta”, con effetti diversi quanto all’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. e al momento da cui decorre il tempo necessario a produrre l’estinzione del reato per prescrizione.

 

Piacenza, 20.03.2019

 

 

 

[1] Il discorso è totalmente diverso per la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, in quanto il reato di deposito incontrollato di cui all’art. 256 comma 2 non è stato inserito nella lista dei cc.dd. reati presupposto di cui all’art. 25- undecies del D.Lvo n. 231/01.

 

[2] C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2011, 13; M. CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura “sanzionatoria”, Padova, 1996, 61 ss; C. BERNASCONI, Il reato ambientale. Tipicità, offensività, antigiuridicità, colpevolezza, Pisa, 2008, 126. Sia inoltre consentito rinviare a S. MAGLIA, Gestione Ambientale, II Ed., Edizioni TuttoAmbiente, 2017.

 

[3] Cass. Pen., sez. III, n. 20227 del 21 maggio 2008.

 

[4] L’interesse diffuso è quell’interesse riferibile non a un individuo precisamente distinto e differenziato dalla massa di tutti gli altri a causa di una condizione di maggior prossimità con il bene oggetto dell’interesse, bensì a qualsiasi individuo quale membro indifferenziato della collettività.

 

[5] Si sottolinea che lo stesso principio dello sviluppo sostenibile richiede che le strategie di protezione ambientale vengano integrate e armonizzate con le scelte e le esigenze di sviluppo economico e sociale, senza alcuna determinazione aprioristica della sua prevalenza dell’interesse ambientale rispetto a queste ultime (in merito si veda la sentenza della Corte di Giustizia Europea 11 settembre 2012, C-43/10, Nomarchiaki).

 

[6] D. PULITANO’, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, 36.

 

[7] C. RUGA RIVA, Il reato di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione: norma penale in bianco-verde per ogni irregolarità, in Ambiente & Sviluppo, 2013, 8-9, 740 ss.

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