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Una normativa inedita: principio europeo di precauzione, tutela costituzionale della salute e rapporti Stato-regioni

di Fausto Giovanelli

Categoria: Elettrosmog

A differenza di gran parte della recente produzione legislativa in materia ambientale, la discussione sulla legge quadro per “l’elettrosmog”, non ha potuto avvalersi di principi e di concetti fissati in una direttiva europea, né del punto di riferimento di una legislazione precedente o esistente in altri paesi.

E’ stata in sostanza un’opera prima. E, ciò nonostante, non ha potuto svolgersi in uno spazio libero, né scriversi su carta bianca; perché non è intervenuta all’inizio bensì nel mezzo del tumultuoso svolgersi di un processo tecnologico, economico e anche culturale e sociale.

L’elaborazione della legge quadro ha coinciso temporalmente con la crescita esponenziale e la diffusione capillare sul territorio di stazioni radio-base per la telefonia cellulare. Ha dovuto, altresì, fare i conti con l’esistenza consolidata – ma anche essa crescente – di una fitta rete di impianti per le tele-radiotrasmissioni e per la distribuzione di energia elettrica.

Ma il dato che ne ha segnato di più il concepimento è stato l’intreccio con l’imporsi di interrogativi assai forti e tuttora non risolti, circa gli effetti sulla salute dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici. Questi interrogativi hanno diviso il mondo scientifico e della ricerca e, sul piano politico e giuridico, si sono tradotti in un diffuso allarme sociale e in un contenzioso altrettanto diffuso sul territorio.

Mentre il Parlamento cercava di elaborare una disciplina legislativa organica, i conflitti esplodevano, prendevano corpo prime risposte a livello regionale e locale, venivano adottati decreti regolativi sulla base di generiche norme di delega per la protezione dell’ambiente e della salute, si formava un’abbondante e inevitabilmente caotica giurisprudenza in materia, fondata su norme di diritto civile, amministrativo e penale richiamate in via analogica o comunque utilizzate con riferimento a temi e problemi diversi da quelli per le quali erano state concepite.

Si è così passati in poco tempo dalla tolleranza o addirittura dall’indifferenza per la presenza di un campo elettromagnetico, alla criminalizzazione dei titolari delle fonti dei CEM, con avvisi di garanzia per getto pericoloso di cose o addirittura per omicidio.

Al legislatore, il confrontarsi con la realtà e le paure del problema elettrosmog ha proposto immediatamente due opposte prospettive: quella degli “apocalittici” e quella degli “integrati”.

Per i primi ogni campo elettromagnetico a partire dal televisore, passando per il telefonino fino ad arrivare all’elettrodotto, produce certamente una malattia tumorale.

Per i secondi tutto ciò è progresso e, alla fine, “allunga la vita”.

E’ chiaro che, pure in presenza di irrisolti interrogativi scientifici, la risposta politica e legislativa non poteva oscillare tra questi estremi.

Il Parlamento, anche per la sua natura collegiale e rappresentativa, ha affrontato la materia prendendo seriamente in considerazione entrambi questi approcci, nelle loro varie gradazioni e motivazioni scientifiche.

Ovviamente non bastava rispondere alla semplice domanda: cosa permettere e cosa proibire? Anche perché non c’era e non c’è, a livello scientifico, l’identificazione di una soglia di pericolo sufficientemente chiara ed attendibile.

Tra gli apocalittici e gli integrati, anche in questo campo, occorreva trovare una terza via, fatta di una complessità di concetti e di misure.

Si trattava:

di fondare e disegnare i principi di base di una materia inedita nel diritto, anche attraverso la definizione di nuovi concetti;

di dettare norme idonee a sciogliere e risolvere l’abbondante contenzioso già aperto;

di orientare, coordinare e ricondurre a un quadro unitario, la crescente legislazione regionale e la stessa produzione normativa locale;

di coordinare i poteri distinti e talora concorrenti di stato, regioni, province e comuni;

di dare un quadro sufficiente di certezze giuridiche a cittadini e operatori;

di promuovere la ricerca scientifica, sanitaria ed epidemiologica;

di creare un sistema di monitoraggio e di controllo;

di avviare piani realistici di risanamento graduale a partire dalle situazioni più compromesse e a rischio;

di garantire da subito l’adozione di standard di superiore qualità per i nuovi impianti;

di prevedere un sistema di sanzioni adeguate e corrispondenti ai principi e alle norme che si andavano adottando.

Al termine di un lungo lavoro, è giunto a una conclusione che non ha certo risolto il dibattito scientifico e culturale (né doveva farlo), ma che si può considerare pienamente impegnativa e risolutiva per l’azione politica e l’esercizio della funzione di governo in questo campo.

La legge ha fatto (e rappresenta in sé) una scelta di fondo: il riconoscimento dell’esistenza e della serietà del problema elettrosmog: un salto in avanti netto rispetto la sostanziale sottovalutazione e il silenzio della normativa dell’UE e di altri paesi sui possibili effetti a lungo termine.

Al tempo stesso ha previsto concetti e meccanismi, capaci di articolazione e gradualità, e riuscendo, a mio avviso, ad evitare il rischio di essere una legge bandiera, di pura denuncia, di semplice comando e controllo, che alla fine lascia al contenzioso giudiziario e penale (e alla conseguente drammatizzazione), la soluzione (o meglio la non soluzione) di problemi diffusi pressoché ovunque sul territorio e riguardanti migliaia di realtà abitative e produttive: situazioni, di cui i responsabili non sono tanto comportamenti di singoli, quanto un intero sistema di regole e di interessi, di imprese e di vita di relazione.

Adottare esplicitamente il principio di precauzione ha significato portare le valutazioni e le indicazioni del legislatore oltre il troppo drastico e troppo semplice e, al tempo stesso, irrisolto interrogativo: se “un campo elettromagnetico fa bene o fa male”? E ha proposto di valutare razionalmente e distintamente l’entità effettiva dei campi elettromagnetici e i pericoli attuali o potenziali che da essi derivano. Non a caso nell’articolo 1 si parla di tutela della salute da “determinati livelli di”. Quindi l’esistenza di un campo elettromagnetico (al di sotto di un “determinato livello”) non viene considerata in sé un “pericolo per la salute”. Vi sono, per la legge, livelli inaccettabili, livelli da evitare, livelli da rimuovere nel tempo, livelli da perseguire genericamente. La legge non pronuncia un giudizio di Dio, tenta di regolare, ma anche di promuovere e di favorire un’innovazione graduale e mirata.

In particolare è stato nuovo ed impegnativo il problema di dare un contenuto concreto al principio di precauzione, di cui all’art. 174 del Trattato, che ha informato buona parte della sostanza della legge.

E’ forse questa la prima grande legge ambientale italiana che fonda esplicitamente e sostanzialmente buona parte delle disciplina su questo principio, ormai famosissimo, ma altrettanto generico e poco studiato. Adottando esplicitamente il principio di precauzione il legislatore ha assunto e quasi “codificato” un giudizio di incertezza sugli effetti a lungo termine dei CEM, traendone contemporaneamente prescrizioni normative e operative.

Questa traduzione giuridica e operativa dell’applicazione del principio di precauzione in una specifica e nuova normativa di settore rimane un tema assai impegnativo.

La UE con la comunicazione del 2 febbraio 2000 sul Principio di Precauzione cerca di definire criteri e linee guida per la sua applicazione. Esso comunque per sua natura è alla fine affidato a una larghissima discrezionalità politica. In base al principio di precauzione si può decidere di agire o non agire e si può astrattamente proibire tutto e consentire tutto. L’UE raccomanda di applicarlo con misure proporzionate agli obiettivi, in modo equo e coerente fra diversi fattori e condizioni di rischio, valutando il rapporto tra oneri e vantaggi delle misure che si vanno ad assumere. In modo equilibrato secondo i principi generali di una buona gestione dei rischi che secondo l’UE sono:

proporzionalità;

non discriminazione;

coerenza;

esame dei vantaggi e degli oneri;

l’esame dell’evoluzione scientifica.

(Per il contenuto di questi principi si rimanda alla lettura della citata comunicazione).

Il legislatore italiano ha deciso di applicare il Principio di Precauzione ai CEM con una notevole pregnanza cogente. Ma non ha tuttavia deciso di schiacciarlo e giungere a indentificarlo tout-court, con il contenuto del diritto alla salute di cui all’articolo 32. Ha incluso quindi nella copertura protettiva delle norme precauzionali un più vasto spettro di situazioni e prevedendo una cogenza delle norme più elastica e differita (il che è rilevante a mio avviso in materia penale, a proposito dell’invocazione del nesso di causalità); al tempo stesso con un tipo di sanzioni (amministrative) che non sono quelle che si applicano alla specifica violazione del diritto alla salute e all’integrità fisica del cittadino.

Per molti prima della legge e durante il dibattito su di essa, il principio costituzionale di tutela della salute ex art. 32 e il principio di precauzione venivano richiamati indistintamente.

Si trattava e si tratta, a mio avviso, di una confusione grossolana.

Ma ciò non toglie che per molti fosse così. E, soprattutto, fosse piuttosto difficile scolpire con chiarezza la distinzione e i punti di contatto fra due concetti: l’uno norma costituzionale di contenuto precettivo capace di diritti soggettivi insuperabili, l’altro principio generale previsto nel trattato europeo rivolto al legislatore piuttosto che al cittadino, non costitutivo in sé di diritti soggettivi; l’uno fondato sul presupposto dell’esistenza chiara e certa distinzione fra ciò che è salubre e ciò che non lo è; l’altro fondato proprio sull’incertezza di questa distinzione.

La questione può apparire di lana caprina, perché è evidente che in questo campo il principio di precauzione ha un contenuto sanitario oltreché ambientale. Ma è altrettanto vero che sarebbe forzato considerare una norma dettata con dichiarato scopo precauzionale all’identica stregua di una norma dettata dallo scopo di proteggere la salute di una persona da un danno certo.

Questo ragionamento ha, a mio avviso, un rilievo e un suo svolgimento nel testo della legge laddove negli art. 1 e 3 e, in particolare, nel loro combinato disposto, si dettano le fondamenta giuridiche della materia definendo in modo articolato e distinto e quindi plurale le finalità della legge e i suoi strumenti operativi.

Articolazione, distinzione e pluralità che ritroviamo in concetti e strumenti nuovi e tipici di questa legge: quali i limiti di esposizione, i valori di attenzione, gli obiettivi di qualità, le tipologie di valori limite previste per diverse situazioni e diverse finalità.

E’ chiaro che non si tratta di intensità fisiche diverse per limiti di identica natura giuridica. Ma come specifica il combinato disposto dagli art. 1 e 3 di limiti di natura diversa dettati in relazione alle diverse finalità della legge.

Si chiarisce così, almeno in una certa misura la distinzione tra:

la più ristretta, ma anche più forte, inderogabile, improrogabile e penalmente garantita tutela del diritto soggettivo alla salute (ex art. 32 della Costituzione);

la più vasta, articolata e talvolta differita nel tempo applicazione del principio di precauzione;

la generica protezione dell’ambiente e la finalità di avvicinare comunque il campo elettromagnetico al fondo naturale.

Ora – con la legge – è più chiaro che gli obiettivi di qualità sono pertinenti a quest’ultima dimensione e non possono essere considerati limiti di tutela sanitaria.

Per contro soglia di tutela sanitaria sono certamente i limiti di esposizione.

Mentre per i valori di attenzione la definizione adottata pare non ritenerli tali, ma piuttosto attinenti il principio di precauzione, sicuramente almeno nelle situazioni nelle quali non ne richiede l’osservanza immediata, ma solo dopo i termini previsti (fino a 10 anni) per il risanamento. Vi sono dunque ora maggiori certezze sui fondamenti della legge, almeno a mio avviso.

Non si tratta di certezze esaustive degli interrogativi e dei contrasti più o meno interessati e ancora aperti, che non mancheranno di manifestarsi anche in sede interpretativa, così come si sono manifestati nel contenzioso giudiziario e anche nella discussione parlamentare. Le regioni, gli enti locali, e in particolare la magistratura hanno tuttora dei margini discrezionali rispettivamente di normazione, deliberazione, interpretazione.

Qualche maggiore certezza in più ritengo comunque che vi sia, specie dopo il passaggio del testo al Senato ove, oltre il tema, fondamentale, delle definizioni è stato affrontato quello altrettanto discusso e importante della omogeneità della regolazione – su scala nazionale – per quanto riguarda la definizione della soglia di ammissibilità dei valori di campo dei vari limiti.

Il tema era aperto, nonostante la chiarezza del testo Camera, in forza della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 382 del 30/9/1999 che legittimando la legge della regione Veneto (ma, particolare non da poco, mancava del tutto allora una legge quadro nazionale che potesse dettare limiti alla facoltà di normazione regionale), aveva aperto la strada a una comprensibile e in sé virtuosa “corsa” a una normazione regionale, sollecitata dal vasto allarme sociale per il problema elettrosmog, e dalla necessità degli amministratori locali di avere norme di riferimento.

Al tempo stesso, era ed è chiaro che i sistemi di trasporto dell’energia elettrica, di trasmissione di segnali radio-televisivi e per la telefonia cellulare, hanno caratteristiche di sistemi a rete, operatori con tecnologie standard su mercati nazionali e sono difficilmente compatibili con una regolazione diseguale, regione per regione o addirittura come si è proposto provincia per provincia: quella che potenzialmente è stato definito un “vestito di Arlecchino”; e che, in realtà, mal si adatterebbe a rispondere anche alle esigenze di certezza e sicurezza sanitaria ed ambientale per i cittadini.

Ma è lo stesso diritto alla salute che mal sopporta livelli diversi di protezione in parti diverse del paese e l’applicazione – non facile – del principio di precauzione perché (chiamato per natura a operare su una base di incertezza) può essere resa più difficile se affidata a un sistema normativo che crea delle evidenti disparità.

Per questo è stata adottata una soluzione che recepisce ma al tempo stesso supera, affidando alle regioni, in sede di Conferenza Stato-regioni un rilevante potere di determinazione dei limiti da applicare, le argomentazioni della sentenza della Corte, affermando altresì “il preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee (art. 4)”.

Ora è più chiaro che, mentre le leggi regionali e i poteri locali hanno un ruolo determinante nella “regolazione localizzativa”, il regime dei vari limiti e valori di campo sarà uno e unitario a livello nazionale, anche se, nel definire questo regime, alle regioni, in sede di Conferenza, è attribuito un ruolo rilevantissimo.

L’impianto così previsto, benché definito prima dell’approvazione della legge costituzionale sul federalismo, dovrebbe reggere ad ulteriori esami della Corte anche a fronte del nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione.

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