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Stefano Maglia

Verità scientifica e legalità

di Viviana Del Tedesco

Categoria: Generalità

Dall’esperienza personale maturata come magistrato impegnato ad affrontare questioni di natura tecnica per l’individuazione di responsabilità penali ho tratto talune conclusioni sulla necessità ormai improrogabile di ridefinire il sistema normativo per svincolare dalle rigidità delle regole tecniche sia l’attività privata che della pubblica amministrazione.
Il diritto penale dovrebbe afferire a condotte colpose o dolose poste in essere in violazione di precetti comprensibili e determinati di cui sia percepibile il disvalore sociale.
Tutti abbiamo imparato che la responsabilità penale può essere contestata al soggetto che al momento della condotta dovrebbe sapere come comportarsi correttamente.
I precetti che troviamo nel codice penale elaborato nel 1930 e tutt’ora vigente sono l’espressione di un sentire comune e rispondono ad una esigenza di tutela di valori percepiti come “giusti” nella società civile.
Insomma il diritto penale dovrebbe sanzionare condotte illecite ben definite e riconoscibili che la società nel suo complesso percepisce come pericolose e dannose al fine di garantire al meglio la pace sociale contemperando la tutela dei diritti di ciascuno.
Nel corso dei decenni con lo sviluppo industriale e sociale gli interessi privati e pubblici si sono moltiplicati producendo esigenze di tutela sempre maggiori a cui si è fatto fronte con l’emanazione continua di norme speciali concepite nei diversi settori di competenza.
L’evoluzione tecnologica sempre più rapida ed i rischi connessi ha dato impulso ad un meccanismo di regolamentazione di ciascuna attività sempre più specifica e stringente nel tentativo di garantire tutela ai diritti, ciascuno concepito come valore assoluto.
L’assolutizzazione di ciascun diritto è una pretesa contro natura, poiché al diritto di ciascuno inevitabilmente si contrappone quello di un altro e ciascuna esigenza si soddisfa con il sacrificio dell’esigenza opposta.
Tanto ci si è sistematicamente concentrati su ciascun ambito di intervento producendo norme speciali per regolamentare qualsivoglia attività che le leggi ordinarie nel tempo si sono trasformate in contenitori di precetti la cui esecuzione è demandata ad innumerevoli norme di secondo grado, regolamenti, decreti ministeriali ecc.
Anzi, la difficoltà di normare ogni settore della vita si è così esasperata che la disciplina di carattere tecnico è stata sostanzialmente devoluta ai decreti ministeriali che si susseguono nel tentativo di regolamentare ogni esigenza che nel tempo si sviluppa.
La conseguenza è che ogni attività umana è rigidamente regolata da precetti vincolanti la cui violazione si traduce in responsabilità penali al vaglio della magistratura, la quale a sua volta è subissata da una quantità innumerevole di notizie di reati inerenti questioni tecniche che sfuggono alle conoscenze giuridiche la cui valutazione inevitabilmente viene demandata ai consulenti.
Poiché nelle materia di carattere tecnico (ambientali, sicurezza sul lavoro, antincendio ecc.) i reati previsti dalle relative discipline sono contravvenzionali la questione fondamentale che si pone il magistrato è la sussistenza della colpa
Ebbene, visto l’attuale ipertrofica produzione normativa la probabilità di violare un precetto contenuto in uno dei tanti decreti ministeriali, modifiche che si susseguono ecc. è altissima. Inoltre considerata la difficoltà concreta di adempiere a tutti gli obblighi normativi è sempre più facile sbagliare e non eseguire a regola d’arte tutto ciò che la norma prescrive. Quindi oltre alla colpa specifica è sempre più probabile incorrere nella responsabilità per colpa generica.
Così stando le cose, si riduce sempre più la possibilità concreta di evitare il rischio di essere perseguiti a titolo di colpa e l’esercizio di qualsivoglia attività umana comporta assunzioni di responsabilità non controllabili con la conseguente mortificazione dell’iniziativa di ciascun soggetto, aumento dei costi di gestione e riduzione delle volontà virtuose.
Più che fare le cose bene e in modo che funzionino in concreto, la preoccupazione principale di ciascuno è quella di “essere a norma”.
Si pongono dunque questi problemi:
1) il complesso di norme che regolamenta ogni materia è adeguato a garantire il miglior risultato possibile nella situazione concreta?
2) E’ esigibile in concreto il rispetto di tutte le norme che regolamentano ciascuna materia?
3) Le norme di secondo grado che di fatto compongono il corpus normativo e vincolano ogni attività come e chi le concepisce? I parametri, i limiti, le soglie di tollerabilità ecc. come vengono stabiliti? Qual è l’iter di formazione dei decreti ministeriali? Rispondono ad esigenze generali o sono concepiti per risolvere questioni particolari?
4) E’ possibile regolamentare con norme tecniche ogni attività in concreto e come si adatta la rigidità della normativa tecnica ai casi specifici?
5) Nella formazione dei provvedimenti della P.A. (autorizzazioni, gare d’appalto ecc), il rispetto dell’iter procedimentale prescritto dalle norme e la corrispondenza dei documenti e dei progetti alle norme tecniche garantisce in concreto il miglior contemperamento degli interessi pubblici e privati?
6) Il procedimento amministrativo ove il funzionario si preoccupi di garantire la scrupolosa osservanza delle norme tecniche contiene una valutazione ragionata volta a contemperare al meglio interessi pubblici e privati per l’ottimizzazione degli stessi in concreto, ovvero si sostanzia in una concatenazione di attività astratte?
7) Il provvedimento amministrativo che esita da un procedimento astrattamente legittimo in quanto rispettoso delle norme tecniche può intendersi come manifestazione di volontà di della P.A. volta al miglior contemperamento degli interessi pubblici e privati in concreto, ovvero è solo la certificazione che tutto ciò che è stato acquisito e valutato è a norma?
8) La positivizzazione delle regole di condotta mediante la prescrizione normativa di ciascuna attività umana garantisce la tutela sostanziale dei diritti, ovvero si traduce nella burocratizzazione delle attività e fornisce garanzie solo formali? Preserva il funzionario pubblico dalla corruzione ovvero la agevola poiché è più facile ottenere un favore per regolarizzare le carte laddove è ben più difficile condizionare un ragionamento complessivo che deve essere motivato in ogni suo passaggio?
9) L’imprenditore, il professionista, il pubblico funzionario se garantiscono l’osservanza delle norme offrono tutela sostanziale ai diritti e agli interessi privati e pubblici alla cui salvaguardia le norme stesse dovrebbero tendere?
Esaminiamo: la peculiarità del nostro sistema normativo è quello di essere costituito da precetti concepiti per offrire tutela assoluta a ciascun bene che si intenda salvaguardare. Quindi garanzia massima al diritto al lavoro, al diritto alla salute, alla tutela dell’ambiente, alla sicurezza sul luogo di lavoro, alla trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione, all’informazione, alla manifestazione del pensiero ecc. Il fatto è che in una società complessa ove le attività umane e le esigenze di ciascuno si sono moltiplicate negli anni, l’assolutizzazione di ciascun diritto ed interesse porta inevitabilmente al conflitto tra gli stessi. Così il diritto al lavoro contemplato dal primo articolo della costituzione inevitabilmente si scontra con il diritto alla sicurezza e alla tutela dell’ambiente poiché i costi di gestione dell’azienda e il rischio connesso alla violazione di innumerevoli norme oltre ad un certa soglia provocano la chiusura dell’attività con il conseguente licenziamento dei lavoratori; il diritto di critica e all’informazione si scontra con il diritto alla privacy e alla riservatezza dei dati (i tavoli dei magistrati sono pieni di denuncie per diffamazione a fronte di articoli giornalistici che esercitano il diritto di cronaca); l’interesse alla pedissequa osservanza delle procedure amministrative si scontra con quello della celerità, efficacia ed efficienza del procedimento (il funzionario per appaltare un lavoro o un’opera avvia una procedura carica di oneri formali che richiedono tempo e risorse al punto da ritardarne l’esecuzione con pregiudizio per le finalità al cui soddisfacimento erano diretti).
Ciascun settore di intervento normativo infatti viene concepito a compartimenti stagni, talchè nel tentativo di garantire al massimo ogni diritto accade che sostanzialmente i diritti contrapposti si mortificano a vicenda. Inoltre, le norme tecniche concepite in un determinato settore corrono il rischio di contrapporsi a quelle finalizzate alla salvaguardia di altri beni. Ciò anche perché la tecnologia e le conoscenze scientifiche si evolvono velocemente e con velocità diverse, talchè ad esempio un determinato prodotto può essere il più efficace per certe finalità ma il meno salubre per le persone e l’ambiente. La verità è che il diritto assoluto non è di questo mondo, poiché la vita stessa si esprime nella sua quotidianità con il contemperamento e il bilanciamento degli interessi.
Ogni diritto è relativo e trova il suo limite in quello dell’altro. Quindi l’attività imprenditoriale se vuole garantire al meglio il diritto al lavoro dovrà ottimizzare le sue risorse contemperando al meglio il diritto alla sicurezza, alla salute e dell’ambiente. Il funzionario pubblico se vuole garantire l’emanazione di provvedimento celere, efficace ed efficiente deve sviluppare una valutazione degli interessi pubblici e privati esaminando la situazione in concreto e bilanciando gli uni con gli altri fino a pervenire al miglior risultato possibile.
Poiché le norme emanate in ciascun settore vincolano le condotte al rispetto di limiti, misure, applicazione di protocolli standard, acquisizione di documenti specifici, procedure operative ecc il contemperamento di esigenze e interessi è sempre più difficile fino ad essere sostanzialmente trascurato lasciando il posto alla regolarità puramente formale.
La preoccupazione di osservare il dettato normativo prevale su quella di fare le cose a regola d’arte per farle funzionare al meglio in un generale contesto di esigenze che va salvaguardato nel suo complesso.
La normazione delle regole di condotta si traduce nella mortificazione delle regole dell’arte perché viene inibita l’attenzione valutativa che è propria di ciascuna professionalità.
Le carte sono a posto ma le attività non funzionano, ovvero funzionano a costi che avrebbero potuto essere più ridotti, ovvero funzionano male e richiedono continue deroghe per adattare le norme al caso concreto.
Riguardo alla normativa ambientale si può dire la confusione regna sovrana e il rinvio ad allegati ove si fa riferimento a soglie di contaminazione astrattamente considerati costringe ad avviare attività costose per ottenere risultati privi di utilità, se non dannosi, sotto il profilo tutela sostanziale dell’ambiente e scientificamente errati.
A tal proposito si veda il seguente caso pratico da cui si desume che l’applicazione testuale delle norme fondate su un dato puramente formale ed astratto che prevedono una soglia di concentrazione di sostanze ai fini della classificazione dei rifiuti a prescindere dal concetto sostanziale di biodisponibilità e attitudine alla cessione in ambiente, conduca a conclusioni errate con aumento dei costi di gestione, perdita di materiale riutilizzabile e aumento di procedimenti amministrativi autorizzatori.
Il titolare di una società autorizzata dalla provincia al recupero dei r.a.e.e. (Recupero Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche), svolgendo attività di gestione rifiuti in regime ordinario ed occupandosi, in particolare, del trattamento di beni durevoli dismessi da avviare allo smaltimento o a successive fasi di recupero presso altri impianti, eseguiva lo smontaggio manuale di apparecchiature fuori uso (apparecchiature elettriche ed elettroniche) trattando il vetro dei televisori derivante da tale operazione come rifiuto speciale non pericoloso.
Venivano prelevati da ARPA campioni di rifiuti di vetro da tubo a raggio-catodico ed in seguito alle analisi eseguite, si contestava alla società di non aver classificato tali rifiuti come pericolosi. Tale assunto si basava sul fatto che secondo i valori rilevabili in letteratura, confermati dagli esiti delle analisi, tale tipologia di rifiuti detiene un contenuto medio di piombo stimabile intorno ai 20%.
Il D.M. 5.2.1998, paragrafo 2.1.1. dell’all. 1 al sub-all. 1, esclude il recupero in regime semplificato per i soli “vetri da tubi raggio-catodici delle lampade a scarica ed altri vetri contaminati da sostanze radioattive (…)”.
La società recuperava il c.d. “vetro retro” dei monitor in regime semplificato ritenendolo non assimilabile ai materiali esclusi e qualificandolo come non pericoloso in quanto il piombo è un componente chimico tipico del vetro che, proprio perché in esso conglobato, non può essere rilasciato e disperso. L’organo accertatore, sulla base di una verifica condotta presso una azienda leader a livello mondiale nella produzione di lampade di ogni tipo, insisteva nel parificare i tubi di raggi catodici di lampade a scarica (ossia quelli delle lampade a vapori di mercurio, di sodio ed alogeni in cui la produzione di luce visibile avviene in tubi ove è presente un gas rarefatto che emana luce ad una certa lunghezza d’onda con il passaggio della corrente tra gli elettrodi o che, in altre lampade appartenenti alla stessa categoria, eccitano uno strato interno al tubo formato da particolari sostanze che divengono luminescenti, come, ad esempio, le lampade al neon) ai tubi a raggio catodico ove viene praticato il “vuoto spinto”, come appunto i monitor. Tale conclusione veniva desunta dal fatto che 1) il DM 05.02.98 esclude dal regime semplificato l’intera categoria dei vetri da tubi raggio-catodici e che 2) il legislatore per qualificare un rifiuto come pericoloso si basa sulla “concentrazione totale” nel rifiuto di determinate sostanze e quindi il rifiuto potrà diventare pericoloso o meno solo in funzione di dette concentrazioni o in funzione di eventuali trattamenti che riducano tali concentrazioni.
Sostanzialmente si afferma la natura pericolosa del vetro di un monitor per il solo fatto che contiene piombo (sostanza indicata al punto 3.4 dell’Allegato D del D.Lvo n° 205/2010-prima indicato nell’allegato H parte IV) e che tale indicazione è riferibile ad una determinata categoria di materiali.
In realtà il piombo contenuto nel vetro retro di un monitor, sebbene in percentuali significative, si presenta in forma di ossido di piombo conglobato come componente del vetro stesso, completamente reso inerte e quindi privo di attitudine alla cessione. Cosa ben diversa dal piombo metallico e dai suoi composti, sostanze pericolose ricavabili da processi di estrazione, che in caso di dispersione nell’ambiente sono altamente inquinanti.
Orbene, indipendentemente dal fatto che vi siano (come in effetti vi sono) vetri trattati sulla loro superficie interna o esterna con sostanze tali da renderli “pericolosi” (si veda, ad esempio, il C.E.R. 10 11 11*), il ritenere che i cocci di un comune oggetto di cristallo, che fino ad un attimo prima di rompersi ha contenuto, per esempio, dello zucchero divengano rifiuti pericolosi solo perché il cristallo contiene piombo, rappresenta un’argomentazione che sotto l’aspetto tecnico è priva di senso. Tra l’altro, per quantificare il piombo contenuto nel cristallo è necessario “sciogliere” il vetro attraverso un’aggressione chimica condotta in condizioni drastiche, irrealizzabili in natura, vista la totale inerzia del materiale.
Curiosità: la norma internazionale ISO 3591 dal titolo “Analisi sensoriale – bicchieri per la degustazione del vino” riporta al punto 3: Caratteristiche fisiche: il bicchiere per degustazione deve essere di vetro incolore e trasparente, privo di striature e bolle. Il vetro denominato “cristallo” è incolore e trasparente e quindi adatto allo scopo. Le sue caratteristiche principali sono: -ossido di zinco (ZnO), ossido di bario (BaO), ossido di piombo (PbO), ossido di potassio (K2O, da solo o in combinazione) minimo 10% in peso (…)
In conclusione la norma tecnica può anche individuare una soglia di pericolosità ma sempre e solo subordinandola ad un accertamento in concreto.
Una formazione astratta costringe l’amministrazione pubblica ad emettere molti più provvedimenti autorizzatori di quanti ne siano davvero necessari ed espone il privato al rischio di un sequestro dell’impianto malgrado la sua condotta in sostanza non provochi alcun danno né alla salute né all’ambiente ma anzi eviti trasporti inutili e dannosi (con emissione di inquinanti nell’ambiente).
L’esigibilità della condotta è un principio che sta alla base del concetto di colpa. Se le norme sono tante, confliggenti e poco chiare capirne il precetto è difficile e soggetto ad interpretazioni. Sostanzialmente nessuno sa bene quel che si deve fare con la conseguenza che chi vuol operare correttamente è pregiudicato dalle difficoltà operative che incontra quotidianamente nella sua attività sopportando costi di adeguamenti continui con il rischio costante di sbagliare. Chi è superficiale ovvero persegue solo il suo vantaggio è giustificato proprio dalla confusione normativa.
La moltiplicazione delle norme tecniche mortifica il principio di certezza del diritto ed il concetto di colpa viene stravolto. E’ in colpa colui che non sa nemmeno bene cosa deve fare per “essere a norma”? Il continuo succedersi di norme provoca problemi applicativi poiché se al momento della vigenza di quella precedente è stata avviata una attività assoggettata poi a quella successiva, come può essere valutata la violazione di quest’ultima che repentinamente modifica le basi sulle quali era stata concepita l’attività? Un effetto a sorpresa dietro l’altro che disorienta l’organizzazione dell’attività ma soprattutto costringe a sopportare costi non previsti né prevedibili in origine. Il rischio d’impresa si trasforma in alea.
Si veda il caso che segue da cui emerge come la codificazione dei rifiuti e le norme per l’individuazione del codice, richiamati in allegati sovente modificati attraverso l’emanazione di decreti ministeriali, oltre a non essere esaustivi, perché la realtà concreta presenta sostanze e composti sempre più diversificati, siano di ostacolo ad una corretta gestione dei rifiuti stessi creando disorientamento nelle scelte dei privati.
Ad una azienda di produzione di prodotti cosmetici per l’igiene del corpo veniva contestato di aver smaltito illecitamente le acque di lavaggio classificandole con codice CER 161002 (soluzioni acquose di scarto diverse da quelle del 161001, ossia diverse da quelle pericolose) anziché con codice CER 161001 (soluzioni acquose contenenti sostanze pericolose). L’azienda utilizzando questo codice smaltiva le acque in un impianto di depurazione autorizzato alla gestione conto terzi di rifiuti liquidi (pericolosi e non pericolosi). Classificando come pericolose le acque di lavaggio l’azienda avrebbe dovuto trasportarle con un mezzo autorizzato per rifiuti pericolosi, previa procedura autorizzativa, a costi maggiori. Infatti qualificare tali acque come rifiuti pericolosi significava osservare tutto il regime normativo previsto per tali tipi di rifiuto compreso quello relativo ai limiti temporali di stoccaggio. Ciò avrebbe comportato sotto il profilo dei costi una maggiore frequenza di trasporto del rifiuto in impianto.
In sede processuale si procedeva a CTU, affinché effettuasse tutti gli accertamenti (eventualmente, anche analitici) del caso in ordine alla tipologia dei rifiuti liquidi prodotti dallo stabilimento, accertando il codice CER che avrebbe dovuto essere ascritto ai suddetti rifiuti.
In sostanza il rifiuto di cui si discute proviene dal lavaggio di recipienti ove si producono cosmetici per l’igiene della persona ed, in particolare, shampoo, bagni schiuma, creme solari, latte detergente, dentifrici, ecc. Si tratta di un rifiuto a base acquosa, contenente i residui delle varie produzioni sopra nominate, che la ditta raccoglie in una vasca dalla quale è poi inviato allo smaltimento finale. Trattandosi di un’industria per la produzione di cosmetici e considerato che la scelta del codice segue un percorso tassativo stabilito dall’allegato D parte IV dlgs 152/06, non era corretto l’attribuzione del codice 161002 (gruppo generico a cui si può attingere solo in caso di assenza di codici specifici). Infatti nel caso in esame vi è la possibilità di individuare un codice specifico. Tuttavia seguendo la procedura di legge era disponibile solo un codice di rifiuto pericoloso. Infatti la prima coppia di numeri (che indica l’attività che da origine al rifiuto) sarebbe dovuta essere quella indicata con il numero “07” [..] Rifiuti da processi chimici organici [..]. La seconda coppia di numeri (che in indica il particolare processo di quella attività) doveva essere “06” [..] rifiuti della produzione, formulazione, fornitura ed uso di grassi, lubrificanti, saponi, detergenti, disinfettanti e cosmetici [..]. La questione si complica per l’attribuzione della terza coppia di numeri (che indica il particolare rifiuto ottenuto da quel processo), poiché tutti i rifiuti descritti sotto la categoria 07 06, interessanti il nostro caso, sono rifiuti pericolosi. In particolare, è un rifiuto pericoloso quello indicato col 07 06 01 “soluzioni acquose di lavaggio ed acque madri” che di fatto è l’unico utilizzabile dato che esso cita, appunto, “soluzione acquose di lavaggio”.
E’ evidente che l’azienda aveva attribuito il codice 161002 utilizzando il gruppo generico proprio per evitare di qualificare necessariamente le acque di lavaggio come pericolose con tutto quel che ne conseguiva.
In effetti, sotto il profilo sostanziale la scelta dell’azienda non è affatto peregrina.
Perché trattare come pericolose le acque di lavaggio di quegli stessi detergenti che vengono usati, peraltro in concentrazione anche più elevata, dalle persone in abitazione con conseguente smaltimento negli scarichi fognari (anche talvolta senza depurazione finale)?
Anche solo usando il buon senso si comprende quanto sia bizzarro ritenere che queste acque di lavaggio siano effettivamente rifiuti pericolosi visto che altro non sono che soluzione molto più diluita di prodotti che fino ad un attimo prima erano contenuti nei recipienti destinati ad essere usato sul corpo delle persone, neonati compresi.
In conclusione questo caso mostra come alcuni rifiuti considerati pericolosi per effetto di una normativa fondata su criteri rigidi e astratti in realtà non lo siano affatto. Il problema è che per il legislatore è impossibile distinguere, caso per caso, tutti i processi chimici organici da cui si originano “acque di lavaggio” (si tratta, in effetti, di migliaia o decine di migliaia di produzioni diverse) finendo così per utilizzare un criterio cautelativo e imponendo, per tutte, un codice di “rifiuto pericoloso”.Tale scelta tuttavia espone sia il privato che l’amministrazione pubblica a rischi giudiziari. Il privato rischia il sequestro dell’azienda per avere operato sostanzialmente correttamente, il pubblico amministratore rischia una indagine per abuso d’ufficio per avere valutato discrezionalmente (com’è suo dovere) l’esclusione di una autorizzazione inutile. La burocratizzazione della P.A. è originata da questo meccanismo.
L’avvicendarsi di norme tecniche è affidata per lo più a fonti di secondo grado. Le leggi emanate nei vari settori si richiamano ad innumerevoli regolamenti di esecuzione o decreti ministeriali. Via via tali decreti si modificano, talchè il contenuto della legge che deve essere generale (applicabile a tutti) ed astratta (estranea ad interessi particolaristici) si compone di regole specifiche indicate nelle fonti di secondo grado. La legge segue un iter parlamentare ove si sviluppa un contraddittorio, ma i decreti ministeriali che riempiono la legge e modificandosi ne alterano continuamente il contenuto sostanziale come si formano? E’ garantita la trasparenza dell’iter formativo dei decreti? Chi li ispira e li scrive? In base a quali criteri vengono stabiliti limiti, tabelle, soglie, misure ecc? Come si può controllare che queste regole siano concepite per offrire la miglior soluzione possibile ad ogni situazione piuttosto che elaborate per risolvere problemi specifici di pochi salvo poi applicarle a tutti ed anche a coloro per le quali non sono affatto adeguate?
In verità si assiste sempre più alla emanazione di norme-provvedimento sollecitate dalla necessità di intervenire nei casi in cui quelle esistenti non sono applicabili con conseguenze gravi sul territorio, sulla gestione delle aziende, ecc.
La normativa in materia di terre e rocce da scavo palesa la natura provvedimentale delle innumerevoli modifiche provocando dubbi interpretativi ed applicativi spesso irrisolvibili.
La rigidità delle norme tecniche che disciplinano procedure, elementi valutativi, criteri di giudizio ecc. costringono il pubblico funzionario a seguire un iter procedimentale preconfezionato. Se non lo fa l’atto è illegittimo e se la sua condotta si discosta dai dettati normativi rischia di essere indagato.
Poiché le norme sono tante e confuse ed il formalismo è l’unico strumento di difesa contro qualsivoglia contestazione sarà orientato ad assumere un atteggiamento “burocratico”. A prescindere dall’utilità o meno di certi documenti, dalla farraginosità di certe procedure, dalla ragionevolezza o meno di certe prescrizioni, dalla validità concreta o meno di certe proposte progettuali, il pubblico funzionario all’esito del procedimento amministrativo emanerà il provvedimento se tutto ciò che gli è stato presentato è a norma e lo fa seguendo le norme. Se le norme sono soggette ad interpretazione sarà orientato ad adottare quella più restrittiva. Se succede qualcosa non importa se magari sarebbe stato meglio fare diversamente, egli è al riparo da contestazioni se ha garantito l’osservanza delle norme, giuste o sbagliate che siano. Poiché le norme sono tante su tutti i fronti, poiché cambiano di continuo, poiché sono sempre interpretabili, il procedimento amministrativo è sempre più lungo e complesso e si arricchisce di un numero di carte sempre maggiore. Tra queste carte sempre più numerosi sono i pareri richiesti a professionisti scelti in base a criteri sconosciuti . Non si sa bene per quale motivo debbano essere preferiti taluni piuttosto che altri, ma il pubblico funzionario potrà sempre dire di aver fatto il possibile per capire come operare e così ogni amministrazione si comporta diversamente anche di fronte a casi analoghi. Poiché la confusione normativa lascia il posto all’interpretazione l’incidenza del parere rimesso ad un privato professionista può essere così trascinante da assumere il valore di precetto. Insomma una legalità privata, per così dire, da cui è facile che si sviluppino posizioni di potere e commistioni pericolose tra pubblico e privato.
La burocratizzazione inevitabile e comprensibile dell’attività amministrativa tradisce il concetto stesso di amministrazione pubblica, ossia quell’insieme di attività che devono tendere al contemperamento degli interessi pubblici e privati per la massimizzazione degli stessi.
Il contemperamento degli interessi (quindi non la loro assolutizzazione) è una operazione complessa che si compie nell’ambito del procedimento amministrativo, il quale dovrebbe essere concepito come lo sviluppo di un ragionamento finalizzato a bilanciare gli elementi valutativi acquisiti per raggiungere l’obbiettivo della miglior soluzione possibile del caso concreto.
Tuttavia, le attività concrete sono diversificate, il territorio in cui si insediano ha caratteristiche differenti sia naturali che antropiche, la vocazione di talune zone all’interno dello stesso territorio esprime esigenze di tutela diversa rispetto a ciascun bene, l’impatto ambientale di taluni impianti postula una valutazione di sostenibilità e fattibilità variabile ecc. La valutazione comparativa di elementi di giudizio può esprimere celermente ed efficacemente il suo risultato per il miglior soddisfacimento degli interessi pubblici e privati tra loro contemperati solo se il funzionario pubblico esaminato il caso concreto può stabilire gli obbiettivi di ciascun atto che compone il procedimento, acquisire i documenti utili a raggiungerli, interpellare le parti pubbliche e private portatrici dei vari interessi in gioco ed allargare la partecipazione ai soggetti il cui coinvolgimento sia necessario per raggiungere l’obbiettivo. La decisione sarà così ponderata e confezionata sulla base della concreta situazione senza dispersione di energie e risorse.
Se lo sforzo del pubblico amministratore non è quello di circoscrivere l’attività al necessario per arrivare al risultato bensì quello di osservare tutte le innumerevoli norme che regolano ogni singolo passaggio, il procedimento amministrativo si riduce ad una concatenazione sterile ed astratta di atti il cui contenuto valutativo è limitato alla regolarità formale a prescindere dalla validità sostanziale della decisione finale. Il provvedimento che ne deriva non sarà una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione diretta a soddisfare al meglio i vari interessi, ma il risultato aritmetico della sequenza di atti.
Se le norme prescrivono che per rilasciare una autorizzazione all’esercizio di un impianto, ovvero una concessione edilizia è necessario acquisire il nulla osta di molteplici enti, non importa se sia necessario o meno il loro intervento per quel genere di provvedimento, l’importante è che ci siano.
A fronte di ciò, siccome le norme non prescrivono l’acquisizione di informazioni relative all’intero contesto in cui le attività sono destinate ad essere esercitate, va a finire che poi in concreto non ne sia garantita l’effettiva virtuosa gestione in generale. D’altra parte se il pubblico funzionario a fronte della regolarità formale si permette di eccepire criticità sostanziali che pure è in grado di intuire rischia il ricorso e il risarcimento dei danni.
Ne consegue che il soggetto ben intenzionato è pregiudicato dai tempi lunghi dei procedimenti con mortificazione della sua iniziativa e pregiudizio economico derivante dai ritardi; per contro, colui che intende esercitare una attività con scopi criminali organizza bene le carte raggiungendo l’obbiettivo di soddisfare le sue finalità illecite. Ecco perché si verifica lo scollamento tra la giustizia amministrativa e quella penale. Il provvedimento può essere perfettamente legittimo ma l’attività autorizzata sulla base di quel provvedimento può rivelarsi illecita.
Ma c’è di peggio, a volte quella attività può rivelarsi illecita senza averne la percezione e nella convinzione che non lo sia.
Ad esempio, poiché la norma stabilisce dei limiti precisi di emissione in atmosfera il pubblico funzionario si preoccupa che il singolo impianto da autorizzare li rispetti prescrivendo regole anche molto severe, come ad esempio l’installazione di centraline di telerilevamento continuo, analisi quindicinali, sistemi sofisticati di abbattimento fumi ecc. Tuttavia, qualora l’impianto sia inserito in una zona ove insistono altre attività che già nel loro insieme contribuiscono a raggiungere quel limite, l’impianto autorizzato potrà essere il più sofisticato ed efficace che offre la tecnologia e il mercato ma se le centraline intercettano l’aria che sta attorno rileveranno un superamento inevitabile.
Un altro passaggio. Ma quel limite è congruo rispetto alla zona di riferimento? Esercitare quel medesimo impianto nella zona industriale, ovvero nel mezzo di una zona residenziale turistica è lo stesso?
La pubblica amministrazione non dovrebbe essere vincolata a limiti di legge ma dovrebbe valutarli nel loro complesso in base alla sostenibilità dei contaminanti in atmosfera. Siamo sicuri che tutte le stufe accese in un centro residenziale prive di impianti di abbattimento siano meno dannose per la salute dei cittadini che vi abitano di quanto lo sia un impianto industriale tecnologicamente avanzato e ben monitorato in una zona non interessata da insediamenti civili? Queste sono valutazioni che deve fare la pubblica amministrazione, la quale in ogni procedimento dovrebbe poter operare una valutazione complessiva degli interessi per la migliore tutela possibile di tutti acquisendo tutte le informazioni che servono al caso concreto. Così per la zona industriale potranno essere valutate pericolose e dannose emissioni oltre una certa soglia di tollerabilità da stabilirsi in base alle informazioni scientifiche rese dagli studi dell’Arpa, dei dipartimenti universitari, dai centri di ricerca, dalle aziende sanitarie e così via. Se i limiti sono superati, sofisticati o no gli impianti non devono essere autorizzati, anzi nemmeno si avviano procedimenti di autorizzazione così non si perde tempo e denaro per qualcosa che non può funzionare già in partenza. Solo così si tutela la salute, l’ambiente e l’iniziativa economica privata, la quale non rischia di investire su una attività che, malgrado le carte siano in regola e tutto funzioni perfettamente, nei fatti presenta una alta probabilità di realizzarsi oltre alla soglia di liceità. In questo modo si orienta al meglio l’attività imprenditoriale la quale sarà scoraggiata ad avviare iniziative non sostenibili ma avvantaggiata in quelle che meglio si contemperano con la tutela del bene pubblico, poiché il procedimento essendo finalizzato a valutare un obbiettivo concreto richiederà il necessario trascurando l’inutile. Nella materia ambientale le attività ed i controlli amministrativi inutili sono più che mai moltiplicati perché si concentra su passaggi dettati normativamente in astratto piuttosto che su una analisi concreta della situazione.
Il caso che segue dimostra come procedere ad analisi di un rifiuto allo scopo esclusivo di verificare la concentrazione di una sostanza, oltre a fondare la classificazione su uno sterile dato che di per sé non ne esprime la pericolosità, è una attività inutile e costosa se non preceduta dall’accertamento in concreto delle caratteristiche del luogo e/o materiale di provenienza.
Ad una società di produzione inerti per edilizia veniva contestato di aver effettuato una gestione illecita di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da terre e rocce da scavo utilizzate in una miglioria fondiaria in assenza delle relative autorizzazioni/iscrizioni/formulari e per aver realizzato e gestito una discarica abusiva di rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da limo proveniente da un impianto di lavaggio della ghiaia e da terreno di cui non era nota la provenienza e le caratteristiche. Il punto più controverso consisteva nella classificazione dei rifiuti in presenza dei c.d. “codici a specchio”. Infatti, le analisi avevano rivelato il superamento dell’elemento berillio (Be) nel materiale usato per la c.d. miglioria fondiaria sopra richiamata. Si tratta di un elemento molto raro.
La Provincia, ricevuta dall’ARPA ai sensi dell’art. 244 D.Lvo 152/06 la comunicazione del superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione dell’elemento berillio nel materiale di riporto, in considerazione della plausibile provenienza dello stesso dal lavaggio di inerti da cava, rappresentava il dubbio che il dato analitico non si riferisse alla forma metallica del berillio (peraltro utilizzato in processi industriali non particolarmente diffusi) ritenendo più ragionevole che si trattasse di un componente di minerali (fenacite e bertrandite, per esempio), la cui tossicità è, come noto, molto diversa rispetto alla forma pura (basti pensare che anche le acquamarine e gli smeraldi sono minerali contenenti berillio). Chiedeva dunque all’ARPA di individuare in quale forma chimica si trovasse l’elemento berillio poiché la sua nocività dipende proprio dal fatto se esso sia stato trovato come metallo o come ossido o solfuro o silicato, ecc.
La richiesta è corretta, ma la lettura della norma attuale non consente di risolvere la questione. Infatti, l’art. 184 comma 5 D.Lvo 152/06 fa derivare la classificazione dei rifiuti elencati nell’all.D dall’origine, composizione e valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose. Il punto 5) dell’introduzione dell’all. D specifica che “se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio, percentuale in peso), tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all’allegato I. La norma, quindi, con la dicitura “solo se le sostanze” fa obbligo di individuare le sostanze e cioè, nel nostro caso, il berillio tal quale e quindi non consente di utilizzare le indicazioni presenti nella Direttiva 45/1999 CEE relativa a miscele o preparati pericolosi che pure è espressamente citata nelle note 1 e 2 del D.Lvo 205/2010.
(Direttiva recepita con legge 30 luglio 2002 n. 180 e con D.Lvo 14 marzo 2003 n. 65, poi abrogata dall’articolo 60 del regolamento (CE) n. 1272/2008, con decorrenza indicata nello stesso articolo, cioè solo dal 1 giugno 2015).
Tra l’altro, va considerato che il rifiuto non è quasi mai una sostanza pura, basti pensare ai fanghi e alle miscele di rifiuti, cioè “preparati” secondo la direttiva 45/99. L’individuazione di specifiche specie chimiche come gli ossidi o i sali di un elemento chimico è quasi impossibile sotto l’aspetto analitico su una matrice come i rifiuti. Chi deve classificare un rifiuto tende a cautelarsi e non si pone il problema se il nichel o il mercurio o il piombo trovato sia effettivamente in forma metallica o in forma di composto. Tuttavia, questa “cautela” comporta che l’analisi chimica è già in partenza inficiata da un errore di metodo. Bisogna rendere obbligatorio, come premessa al certificato d’analisi, l’inserimento di tutte le informazioni relative al ciclo produttivo ed alle sostanze principali presenti nel rifiuto prima di procedere alla loro determinazione. Una volta individuato e circoscritto il campo di analisi si può procedere alla verifica della sua composizione e alla sua reale pericolosità. Solo così si può adempiere al dettato dell’art. 258, 4° comma del D.Lvo 152/06, così come modificato dall’art. 35, comma 1, lett. c), del D.Lvo 3 dicembre 2010, n. 205 (si applica la pena di cui all’articolo 483 del codice penale a chi, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti, fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti e a chi fa uso di un certificato falso durante il trasporto).
Sotto l’aspetto pratico va detto che il coacervo di norme che attualmente esiste sulle concentrazioni delle sostanze che possono rendere un rifiuto pericoloso può portare al paradosso che un terreno risulti “bonificato” poiché ha valori residui di metalli entro i limiti di colonna “A” dell’allegato al D.Lvo 152/06 sulle bonifiche, ma “rifiuto pericoloso” se lo stesso terreno venisse asportato, perché i limiti per i rifiuti sono minori. Per esempio, il solfato di Nichel (NiSO4), secondo il D.Lvo 152/06 ha un limite di 1000 mg/kg in quanto sostanza cancerogena di categoria 1A e contemporaneamente un limite di 100 mg/kg in quanto “sensibilizzante” di categoria 1 con frase di rischio H13 in base al Regolamento (CE) del 7 agosto 2013 n. 758/2013 recante modifica dell’allegato VI del regolamento (CE) n. 1272/2008 relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele. Considerando il valore “100” anche per il principio di precauzione, si giunge all’assurdo che un terreno contenente 100 mg/kg di nichel è contemporaneamente un rifiuto pericoloso ma non richiede alcuna bonifica perché il limite dello stesso elemento nei terreni ad uso residenziale è 120 mg/kg e 500 nei terreni ad uso industriale.
In sostanza rifiuti non sono “materie prime” o “prodotti finiti” di un ciclo industriale per il quale è lecito e doveroso attendersi composizioni costanti nel tempo (per obblighi di qualità, di caratteristiche legate al marchio, al brevetto, alla soddisfazione della clientela, ecc.). La precisa composizione di un rifiuto dovrebbe essere perseguita solo quando del rifiuto stesso non si sa nulla (perché, abbandonato e rinvenuto casualmente durante uno scavo, un’indagine, ecc.), oppure quando esso è destinato al riutilizzo (per evitare di ri-circolare sostanze non note) e, forse, in pochi altri casi. Se il rifiuto è destinato allo smaltimento finale (incenerimento o discarica), sarebbe sufficiente conoscere la sua composizione in funzione dell’impianto finale di destino. Per esempio, se un rifiuto contiene cianuro (un potente veleno), ma è destinato all’incenerimento, che importanza ha la quantità di cianuro che sarebbe in ogni caso distrutta dal processo termico? Ogni indagine dovrebbe essere finalizzata ad uno scopo preciso: se ci interessa la sicurezza del trasporto, valuteremo l’attitudine del rifiuto a subire modificazioni nel tempo ed in quali condizioni, se ci interessa la salute degli addetti, valuteremo ciò che il rifiuto potrebbe emanare in forma gassosa per scegliere gli opportuni dispositivi di protezione, ecc. Dovendo poi valutare tutti questi aspetti contemporaneamente, anziché inseguire il dato formale con il rischio di non affrontarne adeguatamente nemmeno uno, è necessario procedere al loro contemperamento concentrando energie e risorse per l’adozione della soluzione concretamente più utile. Queste cautele possono portare ad individuare forme “standard” di sicurezza applicabili nel 90 – 95 % dei casi, riducendo tutte le fasi anche analitiche non necessarie. Nella realtà odierna accade il contrario. Per ogni rifiuto o materiale che si presume inquinato vengono ripetute innumerevoli volte sempre le stesse analisi e sempre relative a tutti i componenti intesi tal quali a prescindere dalla forma in cui si presentano. Si tratta di dati sterili, inutili, costosi e privi di significato sotto il profilo delle informazioni necessarie ad adottare le migliori soluzioni possibili per il caso concreto. L’astrattezza e la rigidità normativa inibisce una corretta gestione di qualsivoglia soluzione tecnica anche da parte del privato. L’imprenditore o il professionista incaricato di predisporre il progetto di un impianto, nonché il consulente incaricato di procedere ad una analisi di rischio ecc., essendo vincolati dalle norme tecniche la cui osservanza prescinde dall’applicabilità efficace in concreto, subiscono l’inibizione della loro stessa professionalità. Dovendo spesso osservare precetti vigenti in vari settori che interagiscono tra loro ma non coordinati e talvolta in conflitto, malgrado la consapevolezza dell’inadeguatezza al caso concreto, non possono esprimere una valutazione secondo le regole dell’arte per il buon funzionamento dell’opera o la migliore soluzione possibile. Poiché l’importante è tutto sia “a norma”, ed anzi dovendo certificare l’osservanza a tutte le norme, si trovano costretti a forzare la soluzione nel senso indicato dalla norma. Si assiste al paradosso che la norma diventa il fine dell’azione e non il mezzo attraverso cui ottimizzare l’azione. Poiché l’emanazione delle norme è sempre in ritardo rispetto all’evoluzione tecnologica e della realtà le regole a cui bisogna soggiacere sono sempre superate.
Se invece il professionista nell’elaborare un progetto potesse esprimere un ragionamento motivato ed indirizzato da criteri tecnici non vincolanti ma utilizzati in base alle concrete esigenze e alle peculiarità delle soluzioni da adottare per raggiungere finalità ben precise definite da una legge chiara ed inequivocabile, sarebbe più facile eseguire lavori a regola d’arte.
Anche nei rapporti con la pubblica amministrazione, questo sistema basato sulla reciproca potestà discrezionale garantirebbe maggiore trasparenza nelle scelte adottate, maggiore celerità ed efficacia con minori costi.
Il privato che deve farsi autorizzare un impianto o rilasciare una certificazione presenterà un progetto redatto in base ai diversi criteri e regole tecniche disponibili di cui dovrà giustificare l’adozione dimostrando di aver contemperato al meglio le varie esigenze per raggiungere le finalità prescritte dalla legge con le risorse disponibili. La pubblica amministrazione valuterà se la soluzione progettuale proposta e giudicata fattibile in base alle risorse disponibili sia idonea a garantire le finalità della legge a livelli accettabili. Se con tali risorse la soluzione proposta nel caso concreto non è adeguata a soddisfare a livello accettabile gli obbiettivi di sicurezza, di tutela ambientali, di tutela della salute ecc prescritti dalla legge la pubblica amministrazione dovrà emanare un provvedimento motivato di diniego.
Per i motivi esposti nel paragrafo precedente, la pubblica amministrazione dovrà elaborare una motivazione di contenuto concreto e non di formale adeguamento alle norme tecniche.
Se invece la soluzione proposta verrà ritenuta accettabile, motivandone il percorso logico di valutazione, il provvedimento sarà positivo. I provvedimenti a carattere prescrittivo (es.autorizzazioni ambientali) essendo fondati su una valutazione concreta delle soluzioni proposte dal privato saranno a loro volta tarati sulla esigibilità delle prescrizioni stesse. La prescrizione sarà adottata non perché lo dice la norma, ma perché finalizzata alla migliore conduzione dell’attività. Ebbene nella materia ambientale le problematiche pratiche che un imprenditore o un professionista affronta al fine di valutare l’idoneità dei rifiuti ad essere trattati per la produzione di combustibile da rifiuti sono molto significative.
Ad un impianto di inceneritori o termovalorizzatori veniva contestato che la qualità del cdr prodotto non rispondeva alla norma UNI 9903-1. Si poneva dunque il problema di verificare la corrispondenza dei campioni di Combustibile Derivato dai Rifiuti (CDR), traduzione dell’acronimo inglese RDF (Refuse Derived Fuel), rispetto i limiti riportati nella Norma Tecnica UNI 9903-1 2004 “Combustibili solidi non minerali ricavati da rifiuti (RDF) – Specifiche e classificazione”.
La conformità del CDR alle specifiche della qualità “normale” o “elevata” indicate rispettivamente nel prospetto 1 e nel prospetto 2 della norma tecnica UNI 9903-1 2004, si intende verificata quando la media delle risultanze analitiche dei campioni costituiti a partire da ciascuno dei 5 (cinque) sottolotti settimanali compresi all’interno di un lotto di produzione rispetta i limiti indicati nei suddetti prospetti.
Effettuate le verifiche, il CTU rappresentava che i risultati dalle prove avevano evidenziato principalmente un’eterogeneità del campione estremamente elevata con valori da 0 fino a valori di centinaia di mg/kg. Anche aumentando il numero di campioni sottoposti ad analisi la variabilità rimaneva molto elevata.
In sostanza non risultava possibile individuare le caratteristiche inequivocabili del rifiuto in quanto ogni frazione dello stesso aveva caratteristiche sempre diverse e quindi il risultato analitico era assolutamente casuale.
La questione è che l’art.183 cc) dlgs 152/06 rinvia alle norme UNI rigide che fissano limiti tassativi poco dimostrabili. Sarebbe importante che le norme UNI fissassero solo le soglie minime dei diversi parametri.
Peraltro a fronte della rigidità delle norme succede che spesso i campionamenti effettuati nei procedimenti penali avvengono a distanza di molto tempo dal fatto oggetto di indagine allorquando le caratteristica si sono alterate.
I valori delle determinazioni analitiche sono sempre affetti da errori, anche se si è operato con la massima cura. A causa di tale errore il valore sperimentale trovato si discosta da quello vero. Gli errori sistematici determinano l’accuratezza del risultato che non va confuso con la precisione del risultato, né con la sensibilità del metodo.
La gestione del c.d.r. è studiata da anni. Data l’estrema eterogeneità del materiale, non è mai stato finora possibile individuare tutte le trasformazioni a cui questo particolare rifiuto è sottoposto. Il materiale è eterogeneo sia nella sostanza che nella provenienza ed è fortemente contaminato dalle sostanze assorbite provenienti dal contatto con l’intera massa dei rifiuti. Ciò determina il fatto che le reazioni chimiche e biologiche tipiche della frazione cd “umida” del rifiuto urbano sono sempre presenti anche nel c.d.r.
Tali considerazioni assumono un significato preoccupante laddove il riscontro di determinati superamenti di soglia in una frazione di rifiuto dia luogo ad una iniziativa giudiziaria.
In un procedimento penale, che attendibilità possono avere i risultati ottenuti su un materiale eterogeneo che magari nel tempo ha inevitabilmente subito un’incipiente degradazione? La degradazione ha prodotto acqua (con alterazione del contenuto di umidità), biossido di carbonio, ammoniaca ed eventualmente composti solforati, tutti in grado di abbassare il potere calorifico ed in grado di concentrare il materiale stesso determinando un’apparente aumento dei metalli pesanti presenti.
Il rifiuto indifferenziato per sua natura non è materiale inerte, sterile, immodificabile. E’ quindi una assurdità (oltre che inutile) esigere che rispetti i parametri normativi. Come sopra ricordato, anziché disperdere denaro ed energie per analizzare in continuazione i rifiuti sarebbe meglio investire sull’adozione delle tecnologie più avanzate per trasformarli in una risorsa nel rispetto dell’ambiente e della salute con l’installazione di sistemi di monitoraggio efficaci.
L’unico parametro che le norme devono necessariamente indicare è quello del potere calorifico da stabilire come soglia minima.
Ebbene paradossalmente proprio sotto questo aspetto le norme tecniche (norme UNI che prevedono diverse granulometrie a seconda del tipo di analisi) difettano clamorosamente. Infatti, molto importante è l’operazione di frantumazione del materiale prima di sottoporlo alle analisi per la ricerca dell’umidità e del potere calorifico.
Vista l’eterogeneità del CDR la possibilità di macinare un materiale siffatto e poterlo tutto ridurre a frazioni normativamente previste rappresenta molto spesso un ostacolo difficilmente superabile. I moderni mulini operano attraverso un’azione di urto o di taglio e questa azione, in genere, ha poca efficacia sulla parte organica del CDR come i polimeri plastici, la stoffa, il legno oppure i comuni cartoni politenati per bevande costituiti da plastica, cellulosa ed alluminio in strati. Ciò comporta che questi materiali non passano il vaglio dei 3 o dei 4 mm in genere previsti, perché non sufficientemente sminuzzati. La conseguenza è un’elevata perdita del potere calorifico poiché, paradossalmente, i materiali più facilmente triturabili o sminuzzabili sono gli “inerti” come i metalli e la frazione minerale (sassolini, sabbia, vetro, ecc.).
Avrebbe piuttosto significato demandare ad un “tecnico” la determinazione della composizione chimica di campioni del materiale al fine di verificare la capacità di combustione ed il potere calorifico del materiale individuando le percentuali di carbonio ed idrogeno in esso contenuti, ciò nell’immediatezza del loro utilizzo, ovvero all’atto dell’immissione negli impianti di combustione. Esercitare un’analisi chimico fisica a campione su prodotti in giacenza che, per loro natura tendono a modificare le loro caratteristiche anche nel volgere di alcuni giorni, non ha alcun senso. E’ interesse del gestore degli impianti di combustione fare in modo che il materiale immesso abbia la massima resa e la minima produzione di scorie, atteso che un processo di combustione ottimale consente un drastico abbattimento delle spese di manutenzione e pulizia degli impianti. In tale ottica, demandare al “tecnico” presente in loco la possibilità di determinare le caratteristiche del prodotto da avviare alla combustione, istante per istante, consentirebbe una più precisa miscelazione del prodotto al fine di trarne la massima resa con il minimo impatto ambientale.In sostanza la rigidità normativa mette nei guai l’imprenditore anche se è animato dalla volontà di migliorare le tecnologie volte a ridurre le emissioni in atmosfera e aumentare il materiale da combustione per produrre energia.
In tale contesto si inserisce la problematica della valutazione della responsabilità penale da parte della magistratura.
L’esistenza di norme tecniche e procedurali vincolanti obbligano la magistratura ad accertare la loro osservanza a prescindere dalla loro adeguatezza al caso concreto e soprattutto al nesso causale tra la loro inosservanza e l’evento dannoso.
Se scoppia un incendio in un capannone e dagli accertamenti emerge che non sono state rispettate talune distanze previste dalle norme richiamate dalla legge che ne sanziona l’inosservanza, poco importa se si accerta che sarebbe accaduto comunque. La legge sanziona la violazione di quelle distanze anche se tutti dicessero che quelle realizzate sono più ragionevoli di quelle prescritte.
La violazione formale di ciascuna norma tecnica è dunque sanzionata a prescindere dal nesso causale con l’incendio, il quale costituisce un titolo autonomo di reato da accertarsi cercando la causa reale per capire cosa non ha funzionato.
Se poi a causa dell’incendio qualcuno muore o rimane ferito allora i reati potranno assumere configurazioni diverse (omicidio colposo o lesioni colpose). Certamente se un progetto deve essere redatto secondo norme tecniche di dettaglio numerose, spesso poco chiare e a volte difficilmente realizzabili, quando scoppia l’incendio si corre il rischio che si imputi all’inosservanza delle norme la causa dello stesso anche se in realtà quell’inosservanza sia derivata dalla necessità di forzare la norma per adeguarla alle esigenze concrete e magari non ha influito affatto sulla causazione dell’evento. Il magistrato che si trova a dover verificare la causa dell’evento, di fronte ad una miriade di norme tecniche non potrà che affidare ad un consulente la valutazione dell’impianto antincendio. Le cose si complicano sempre di più se il parere del consulente del pubblico ministero è smentita da quello nominato dall’indagato e magari non condiviso in sede dibattimentale dal consulente tecnico d’ufficio. Di fatto al magistrato sfugge il controllo dell’indagine perché più che una analisi di carattere giuridico sulla causalità dell’evento si trova di fronte ad una analisi tecnica per la quale si rimette all’opinione di un consulente.
Se invece il progetto dell’impianto viene elaborato secondo le regole dell’arte non vincolanti seppure orientative ed utilizzate per motivare le scelte progettuali e scoppia l’incendio, il magistrato non sarà distratto da norme di carattere formale e, dato per presupposto la bontà dell’impianto (perché non ci sono norme obbligatorie che dicono come deve essere fatto, quindi il magistrato che è sottoposto solo alla legge non le può contestare), si concentra sul corretto funzionamento dello stesso. Le regole di condotta che il magistrato dovrà valutare per contestare la colpa dovranno essere quelle di diligenza, prudenza e perizia nel realizzare a regola d’arte il progetto, affinchè questo (che nessuno mette in discussione) funzioni al meglio. La consulenza sulla installazione corretta di un impianto è cosa diversa ed ha un carattere più obbiettivo da quella sulla bontà del progetto.
Sul tavolo del magistrato arrivano meno notizie di reato che a ben guardare a causa della farraginosità del sistema normativo nemmeno esprimono di per sé un disvalore che meriti una sanzione penale, ma arrivano quelle meritevoli di attenzione.
L’ipertrofia delle norme penali previste nelle materie tecniche che sfuggono alle conoscenze del magistrato ed affidate inevitabilmente ai consulenti, non esalta ma svilisce la magistratura che a sua volta, non potendo avere il controllo delle innumerevoli indagini nei più disparati settori, si burocratizza e non garantisce qualità.
Peraltro devolvere alla magistratura la valutazione di questioni tecniche significa aumentare i tempi delle indagini affiancate sempre da consulenze e cui seguono spesso incidenti probatori costosi e lunghi con passaggi alla fase dibattimentale e dilatazione dei tempi dei processi.
Tuttavia, poiché nelle materie tecniche i reati contemplati sono quasi tutti contravvenzionali la prescrizione è piuttosto breve (quattro anni e mezzo al massimo) e quindi a fronte di disagi, costi, energie, quand’anche la violazione fosse accertata la sanzione non fa a tempo ad essere comminata. Se invece di avere tante norme confuse ve ne fossero poche con obbiettivi precisi, salva la discrezionalità per raggiungerli, le indagini della magistratura sarebbero meno numerose, più mirate, meno costose e si risolverebbero in tempi ragionevoli garantendo alla collettività un servizio sostanziale.
Nella materia ambientale la probabilità di contestare violazioni formali a cui non corrisponde un pericolo o danno sostanziale, ovvero, anche in presenza di condotte sostanzialmente virtuose salva l’impossibilità tecnica di effettuare scelte diverse è elevatissima soprattutto perché spesso la normativa italiana non è coordinata con quella europea.
Nel caso che segue si dimostra come di fronte ad un problema pratico da risolvere qualsiasi scelta potrebbe essere contestabile.
Un’azienda produceva travature in cemento armato destinate ad impieghi peculiari (viadotti ferroviari ed autostradali) in due stabilimenti, uno in una provincia del Nord ed uno in una provincia del Sud. I rifiuti prodotti erano costituiti da pezzi delle travature suddette ottenuti tagliando la parte iniziale e finale della travatura stessa per ottenere, tra l’altro, la dimensione in lunghezza richiesta dal cliente.
I pezzi di cemento armato sono utilizzati per fare sottofondi stradali e per basamenti in aree industriali. Si tratta di frammenti, che talvolta sono anche ridotti in pezzatura, di altissima qualità poiché di altissima qualità è il cemento e la lavorazione a cui è sottoposto (se una trave de reggere il peso di un treno, è facile capire che la qualità del manufatto è l’aspetto di gran lunga più rilevante).
Si tratta, naturalmente, di materiali inerti.
A distanza di poco tempo, nei due stabilimenti giungeva la PG contestando alla ditta il recupero di detti materiali senza alcuna autorizzazione. La ditta si difendeva dichiarando che tali materiali sono “sottoprodotti” e non rifiuti.
Questo caso è particolare poiché, per i materiali da costruzione esiste una legislazione parallela, sorta, fin dai primi anni 2000. Esigenze di mercato spesso sollecitano riferimenti ufficiali che regolamentino certi aspetti della gestione di specifici materiali. Nel settore delle costruzioni, la direttiva 89/106/CEE ha costituito il punto di partenza per la marcatura CE dei prodotti da costruzione, con l’obiettivo di abbattere, per essi, le barriere economiche e tecniche poste dalla Comunità Europea. Tra i prodotti suddetti, ampio spazio è riservato agli aggregati ed ai filler ottenuti dalla lavorazione di materiali naturali, industriali o riciclati.
La Direttiva della Comunità Europea 89/106/CEE (Costruction Product Directive, modificata dalla Direttiva 93/68/CEE e recepita attraverso il D.P.R. 21.04.1993 n. 246, integrato col D.P.R. 10.12.1997 n° 499, che ne è diventato “Regolamento di attuazione” (G.U. n. 170 del 22.07.1993) prevede l’apposizione del marchio CE su gran parte dei materiali da costruzione, dove per “materiale da costruzione” la Direttiva intende: “ogni prodotto fabbricato al fine di essere incorporato o assemblato in modo permanente negli edifici o nelle altre opere di ingegneria civile”. Nel D.P.R. sono identificati come idonei al loro impiego quei prodotti che consentono alle opere in cui sono utilizzati di soddisfare i requisiti essenziali come la resistenza meccanica e la stabilità, la sicurezza in caso di incendio, la sicurezza di utilizzazione, la protezione contro il rumore. il risparmio energetico e l’isolamento termico, l’igiene, la salute e l’ambiente. Si noti che per soddisfare quest’ultima esigenza l’opera deve essere concepita e costruita in modo da non costituire una minaccia per l’igiene o la salute degli occupanti o dei vicini, causata, in particolare, dalla formazione di gas nocivi, dalla presenza nell’aria, dall’emissione di radiazioni pericolose, dall’inquinamento o dalla contaminazione dell’acqua o del suolo, da difetti di evacuazione delle acque, dai fumi e dai residui solidi o liquidi e dalla formazione di umidità in parti o sulle superfici interne dell’opera. Il CEN (Comitè Europèen de Normalisation) ha elaborato norme riguardanti gli aggregati, nelle quali i requisiti essenziali delle opere stabiliti dalla Direttiva sono tradotti in requisiti tecnici specifici di ciascun prodotto da costruzione. Per la destinazione d’uso, il CEN ha elaborato varie norme armonizzata, recepite, in Italia, tramite .l’Ente Nazionale Italiano di Normazione (UNI), che le ha tradotte in italiano. Ad esempio, esiste la UNI EN 12620 (Aggregati per calcestruzzo), la UNI EN 13043 (Aggregarti per miscele bituminose), la UNI EN 13055 (Aggregati leggeri), la UNI EN 13139 (Aggregati per malta), la UNI EN 13242 (Aggregati per materiali non legati e legati con leganti idraulici per l’impiego in opere di ingegneria civile e nelle costruzioni di strade), la UNI EN 13383 (Aggregati per opere di protezione), ecc. Nei casi in cui tali normative non esistano, il Comitato Costruzioni dell’UNI ha proposto l’introduzione dell’obbligo di indicare i valori corrispondenti delle caratteristiche del prodotto dandone le motivazioni tecniche oggettive. L’elenco delle norme nazionali di recepimento delle norme europee, tra le quali si evidenziano quelle inerenti gli aggregati, è stato pubblicato, nella G.U.n. 95 del 23 aprile 2004, con il decreto 7 aprile 2004 del Ministero delle Attività Produttive.
Affinché un prodotto si possa marcare CE esso deve quindi rispondere ad una norma europea di riferimento (definita norma armonizzata). Il produttore e/o il laboratorio e l’organismo di certificazione devono effettuare i controlli sulla produzione seguendo i criteri stabiliti nella norma europea. Si deduce che, ai fini di stabilire in termini di prestazioni un’opera, bisogna garantire e assicurare anche la qualità degli aggregati. Pertanto, prima di immettere un prodotto sul Mercato Unico Europeo, il produttore è tenuto ad assoggettarlo ad una procedura di attestazione della conformità.
L’azienda in questione produce manufatti in calcestruzzo destinati ad opere edili strutturali ove le caratteristiche chimiche, fisiche e meccaniche sono tra le più severe fra quelle richieste dal mercato. I capitolati tecnici a cui i manufatti devono soggiacere sono stabiliti da norme internazionali anch’esse omologate dagli organismi europei a ciò deputati (il Comitè Europèen de Normalisation – CEN, poc’anzi nominato). Si deduce che gli sfridi di detti manufatti, presentano, com’è ovvio, le stesse caratteristiche dei prodotti finiti. Nel “mare nostrum” degli scarti di demolizione, questi sfridi si pongono su un piano di eccellenza, proprio per la loro qualità. In conclusione non vi è alcuna ragione di considerare rifiuto ciò che deriva dalla demolizione di un materiale certificato di cui non ci si voglia disfare ma anzi se ne richiede l’utilizzazione.
L’ipertrofia normativa ha un ulteriore effetto deleterio di carattere generale. Più numerose e dettagliate sono le norme che regolano i comportamenti maggiore è la tendenza ad abdicare alle proprie responsabilità. Ci si abitua ad affidare ai precetti normativi la tutela dei diritti sviluppando una pretesa che prescinde da se stessi e al buon senso che regola le azioni quotidiane. Si abbassa la soglia di attenzione certi che i presidi di sicurezza, i meccanismi automatici di protezione, i servizi di soccorso ecc si sostituiscono al naturale senso di responsabilità. Se la norma prescrive che il gradino sporgente deve essere segnalato con l’etichetta gialla lampeggiante, non guardo dove metto i piedi e se cado faccio causa a chi non ha ottemperato alla prescrizione; se decido di sciare fuori pista con rischio di valanghe annunciato ed informato e non arriva subito il soccorso non si discute del mio comportamento inconsulto ma dei ritardi nei soccorsi; se mi tuffo in piscina con la digestione in atto si indagherà sul bagnino che non si è accorto che stavo annegando. Oltre alle conseguenze speculative di tale sistema, v’è da dire che se il cittadino non partecipa alla sicurezza ed alla tutela sostanziale di se stesso, del suo lavoro e del suo territorio non c’è norma che tenga e la magistratura arriva quando è troppo tardi e il danno è fatto.

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