Il 2 marzo di 4 anni fa entrò in vigore il DM 13 ottobre 2016, n. 264, con il chiaro intento di dare finalmente un impulso ad uno dei principali strumenti della circular economy: il sottoprodotto.

Il DM aveva infatti come prioritario obiettivo proprio quello di offrire “criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”, sulla base del fondamentale articolo 184 bis del TUA e delle sue 4 condizioni che qui si riassumono: residui originati da un processo di produzione, certezza del riutilizzo, normale pratica industriale e utilizzo legale. Ha ottenuto il suo scopo?

Dopo un paio di confuse e contradditorie Circolari “esplicative” (di cui una del 3 marzo!) ci ha pensato poi la giurisprudenza a creare ulteriore confusione sulla base di numerose sentenze esplicitamente estremamente restrittive, a tal punto che molti preferiscono sprecare materie prime anziché rischiare procedimenti penali dai dubbi esiti.

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Anche il DLvo 116/2020 ha aggiunto – dal settembre scorso – qualcosa di estremamente significativo in argomento, parlando di “simbiosi industriale”, a conferma che la dimostrazione della correttezza dell’utilizzo di questo – teoricamente – straordinario istituto passa attraverso la collaborazione industriale, al fine di non sprecare materie prime. Un esempio? Rileggiamo il comma 2 dell’art. 6 di questo DM alla luce del tanto attuale concetto di transizione ecologica e troviamo già in esso una proposta concreta.

In sintesi: nel nostro Paese l’istituto del sottoprodotto è ancora al palo anche 4 anni dopo il DM 264: urge cambio di rotta, di prospettive e di opportunità.

(SM)


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