Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, con la nota n. 143192 del 1° agosto 2024, ha risposto all’interpello formulato dalla Provincia autonoma di Bolzano che chiedeva chiarimenti:
– sulla possibilità di utilizzare il biochar in impianto di compostaggio;
– sulla possibilità di utilizzare il biochar nella produzione di calcestruzzo;
– sulla possibilità in generale di riutilizzare un sottoprodotto in sostituzione di una materia prima;
– sull’applicazione dei limiti previsti in Austria per la qualifica come sottoprodotto.

In particolare nel primo quesito, lettera a), la Provincia chiede se “nel caso fosse impiegato come sottoprodotto in miscela di compostaggio (punto 1), il biochar debba avere le caratteristiche stabilite dal D.Lgs. 75/2010 e dal Reg. UE 1009/2019 (in particolare limiti IPA, si veda di seguito tabella con i limiti previsti dalla normativa e dai tre schemi di certificazione volontaria IBI (USA e Canada), EBC (EU), BQM (UK))”.
A riguardo appare utile evidenziare che la Provincia di Bolzano dichiara che, a seguito del processo di gassificazione in più fasi, che interessa gli impianti Heizwerk Vierschach Srl (Centrale termo-elettrica a biomassa di Versciaco) e Fernheizwerk Laas – Eyrs (Centrale termica di Lasa), si ottengono, tra gli altri, “i residui solidi costituiti da biochar (carbone vegetale), che è un materiale ricco in carbonio prodotto per pirolisi da biomasse vegetali (legno)”.
In merito si fa presente che al punto 16 dell’allegato 2 del D.Lgs. n.75/2010 “Riordino della disciplina in materia di fertilizzanti”, (così come modificato dal DM 22/06/2015), il biochar è stato individuato come prodotto ammendante. Tale ammendante è ottenuto dal “Processo di carbonizzazione di prodotti e residui di origine vegetale provenienti dall’agricoltura e dalla silvicoltura, oltre che da sanse di oliva, vinacce, cruscami, noccioli e gusci di frutta, cascami non trattati della lavorazione del legno, in quanto sottoprodotti delle attività connesse. Il processo di carbonizzazione è la perdita di idrogeno, ossigeno e azoto da parte della materia organica a seguito di applicazione di calore in assenza, o ridotta presenza, dell’agente ossidante, tipicamente l’ossigeno. A tale decomposizione termochimica è dato il nome di pirolisi i piroscissione. La gassificazione prevede un ulteriore processo ossidoriduttivo a carico del carbone prodotto da pirolisi.”

Pertanto, qualora il carbone vegetale che residua dal processo di gassificazione in più fasi per il teleriscaldamento sia prodotto in conformità a quanto stabilito dal D.Lgs. n.75/2010, in merito alla tipologia dei rifiuti ammissibili, al processo di trattamento e alla qualità del prodotto ottenuto, esso può essere qualificato come biochar.

Il secondo quesito invece riguarda la possibilità di utilizzare il biochar nella produzione di calcestruzzo.
In particolare, nell’istanza si fa riferimento all’impiego del biochar come sottoprodotto in sostituzione del carbon black in un impianto in Germania. Secondo quanto riportato dalla Provincia, tale impianto adotta la certificazione EBC (2012-2023) “European Biochar Certificate”. Si tratta di uno standard di certificazione industriale volontario promosso al fine di valorizzare il prodotto biochar ma che non ha carattere normativo al pari di altre certificazioni volontarie in uso in alcuni Paesi, anch’esse richiamate nell’istanza (IBI in USA e Canada, BQM nel Regno Unito, MVVB in Italia).

Con riferimento, infine, al terzo quesito, relativo all’interpretazione normativa del punto 3 dell’art. 184-bis sulla normale pratica industriale si ribadisce che la qualifica di sottoprodotto dipende dalla sussistenza dei suddetti requisiti, tra i quali si configura quello relativo all’ “utilizzo diretto senza trattamenti diversi dalla normale pratica industriale”.

Il requisito in parola risponde alla duplice esigenza, da un lato, di tener conto che il bisogno di un trattamento preliminare prima della utilizzazione di un residuo può segnalare il fatto di trovarsi dinanzi ad un rifiuto e, dall’altro, di considerare che anche le materie prime talvolta necessitano di essere lavorate prima del loro impiego nel processo produttivo (Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste, cit., par. 1.2.4). Ne consegue, come riportato anche nella Circolare del 30 maggio 2017, prot. n. 7619 del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, che “le operazioni svolte sul residuo non devono essere necessarie a conferire allo stesso particolari caratteristiche sanitarie o ambientali che il residuo medesimo non possiede al momento della produzione. Scopo della disposizione è quello di evitare che, inquadrando come “normale pratica industriale” un’attività, ad esempio, finalizzata a ridurre la concentrazione di sostanze inquinanti o pericolose, possano essere sostanzialmente eluse le disposizioni in materia di gestione dei rifiuti e le relative necessarie cautele ed autorizzazioni”. In tale prospettiva, quindi, è riconosciuta la possibilità di qualificare come “normale pratica industriale” “eventuali operazioni necessarie per rendere il residuo idoneo all’utilizzo, anche sotto il profilo ambientale e sanitario, ma alla condizione che siano svolte all’interno del medesimo ciclo produttivo.
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