Roma 3 novembre 2014, Comunicato stampa WWF – “L’accesso alla giustizia è un diritto, di singoli o associazioni, riconosciuto e codificato da norme e princìpi internazionali ed europei. L’accesso alla giustizia delle associazioni di protezione ambientale è uno dei più importanti strumenti attraverso cui si concretizza la tutela dell’ambiente, più volte riconosciuta dalla Corte Costituzionale italiana come “valore primario ed assoluto”, “non suscettibile di essere subordinato ad altri interessi”, “valore trasversale costituzionalmente protetto”.
Il WWF Italia denuncia il fatto che in Italia il diritto di accesso alla giustizia in materia di ambiente viene sistematicamente leso e non rispettato. Qui di seguito sintetizziamo diversi fatti che possono essere individuati come cause di tale perdurante violazione delle leggi internazionali ed europee, nonché dei princìpi fondamentali dell’Unione europea in materia di tutela dell’ambiente e rispetto dei diritti dei cittadini.
Il WWF Italia chiede alla Commissione che avvii una procedura di verifica, nelle forme che riterrà opportune, compresa, se necessaria, una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, per la violazione delle norme e dei princìpi comunitari sul “Diritto di accesso alla giustizia in materia ambientale”.
Un’azione decisa della Commissione potrebbe finalmente portare l’Italia a fare rapidamente quelle modifiche normative, che il WWF e molte altre Associazioni di protezione ambientale e No Profit chiedono da anni, dirette ad assicurare la “non eccessiva onerosità”, in termini di spese di giustizia, dei procedimenti giudiziali in materia ambientale, come richiede ed impone la Convenzione di Aarhus e le Direttive comunitarie in materia.
Normativa internazionale ed europea
Come noto, il diritto di accesso alla giustizia in materia di ambiente è stato codificato e consacrato dalla Convenzione di Aarhus “sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico al processo decisionale e l’accesso alla giustizia in materia di ambiente “ (Convenzione firmata ad Aarhus, il 25 giugno 1998, in vigore dal mese di ottobre 2001, ratificata dalla Repubblica italiana con L. 16 marzo 2001 n. 108), che è considerato il primo trattato multilaterale in materia di ambiente. L’articolo 1 della Convenzione, tra gli obiettivi, recita: “al fine di contribuire a proteggere il diritto di ciascuno, nelle generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente consono ad assicurare la salute e il benessere, ogni parte garantisce il diritto di accesso alle informazioni, la partecipazione al processo decisionale e l’accesso alla giustizia in materia di ambiente, in conformità con le disposizioni della presente Convenzione“.
Anche la Direttiva 2003/35/CE – che prevede la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale e modifica le direttive del Consiglio 85/337/CEE e 96/61/CE relativamente alla partecipazione del pubblico e all’accesso alla giustizia – introduce il nuovo articolo 10 bis della Direttiva 85/337/CEE nel quale si stabilisce che gli Stati membri provvedano affinché “i membri del pubblico interessato (…) abbiano accesso a una procedura di ricorso dinanzi ad un organo giurisdizionale o ad un altro organo indipendente ed imparziale istituito dalla legge, per contestare la legittimità sostanziale o procedurale di decisioni, atti od omissioni (…)”, dichiarando che “una siffatta procedura è giusta, equa, tempestiva e non eccessivamente onerosa”.
Normativa italiana
La Legge 8 luglio 1986, n. 349 “Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale”, con l’art. 18, comma 5 (come modificato da leggi successive) ha stabilito che “Le associazioni individuate in base all’articolo 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi“, riconoscendo la loro funzione di portatori e rappresentanti di “interessi collettivi e diffusi”, nonché di diritti costituzionali quali la tutela dell’ambiente e della salute.
Grazie a questa fondamentale legge, in Italia è stato possibile attivare migliaia di azioni davanti ai giudici, in particolare amministrativi e penali, da parte delle Associazioni di protezione ambientale finalizzate alla tutela dell’ambiente e dei diritti dei cittadini alla salute ed all’ambiente salubre. Questa intensa attività giudiziaria e di denuncia ha anche contribuito a formare una Giurisprudenza, anche della Suprema Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, positiva per la tutela ambientale ha consentito anche di anticipare a volte il legislatore, compreso quello comunitario.
Negli ultimi anni, si sta invece purtroppo assistendo ad una vera involuzione, con leggi e prassi che rendono sempre più difficile ed economicamente oneroso l’accesso alla giustizia in materia ambientale, sia per i singoli cittadini sia per le Associazioni no profit e scoraggiano così la partecipazione democratica alla tutela dell’ambiente, che si dovrebbe svolgere anche attraverso l’accesso alla giustizia.
Eccessiva onerosità delle “spese di giustizia”
Tralasciando il tema della legittimazione a ricorrere e dell’interesse ad agire in materia ambientale, nonché dell’eccessiva lunghezza dei tempi dei processi in Italia, anche questi ostacolo all’effettivo accesso alla giustizia, ci concentreremo sugli ostacoli di ordine economico che rendono sempre più difficile per le ONG italiane ricorrere alla giustizia, in particolare quella amministrativa. Tutto ciò costituisce palese violazione degli obblighi della “non eccessiva onerosità dei processi in materia ambientale”, stabiliti dalle norme europee ed internazionali. Come noto, questo fondamentale principio di democrazia è stato anche ribadito da diverse sentenze della Corte di Giustizia Europea: ricordiamo, a titolo di esempio, la sentenza della Sezione II, 16 luglio 2009, causa C‑427/07, riguardante un ricorso per inadempimento della Commissione nei confronti dell’Irlanda e sentenza Sezione II, 15 ottobre 2009, nel procedimento C-263/08, a seguito della domanda pregiudiziale posta dalla Corte di Cassazione svedese). Entrambe le pronunce affrontano le problematiche dell’accesso alla giustizia ambientale alla luce della convenzione di Aharus.
Il problema della “eccessiva onerosità” nasce dal fatto che in Italia non esistono specifiche agevolazioni economiche per le cosiddette “spese di giustizia” in favore delle associazioni no profit (ONG o ONLUS). Da anni il WWF Italia e molte altre associazioni chiedono ai tanti Governi e legislatori, succedutisi, modifiche legislative in tal senso, fino ad ora senza successo. Anzi i segnali sono negativi, e si sono nel recente passato anche palesati con proposte di legge (ad esempio, Scandroglio “Modifica all’art. 18 della L. 349/1986 in materia di responsabilità processuale delle associazioni di protezione ambientale”. A.C. 2271) che addirittura arrivavano a prevedere, per le sole associazioni di protezione ambientale, la “condanna al risarcimento dei danni” in caso di ricorso avanti al Giudice amministrativo dichiarato dallo stesso “manifestamente infondato” . Presupposto di tale proposta (fortunatamente non divenuta legge grazie alle vibranti proteste e pressioni delle Associazioni ambientaliste, WWF in testa) era la convinzione che “sembra doveroso un intervento legislativo volto a responsabilizzare l’attività delle associazioni di protezione ambientale, al fine di evitare che ricorsi amministrativi, manifestamente infondati, siano presentati al solo fine di ritardare la realizzazione di opere pubbliche”.
Pagamento del contributo unificato
Le associazioni ambientaliste sono sottoposte al pagamento del cosiddetto “contributo unificato” (tassa prevista per le iscrizioni a ruolo delle cause dal Decreto legislativo T.U. 115/2002 sulle spese di giustizia), anche se riconosciute come ONLUS “Organizzazioni non Lucrative di Utilità Sociale”. L’importo della tassa è notevole: per le cause davanti al Giudice amministrativo 600 euro in via ordinaria, e fino a 1.500/2000 euro per alcune categorie di ricorsi (ad esempio quelli aventi ad oggetto i provvedimenti relativi alle opere pubbliche, come grandi infrastrutture, energia, etc.). Gli unici ricorsi giurisdizionali amministrativi esenti dal contributo unificato sono quelli riguardanti l’accesso ai documenti in materia ambientale, ai sensi del d.lgs. 195/2005. Il paradosso è però che, una volta eventualmente ottenuto l’accesso ad atti della pubblica amministrazione da una pronuncia del Giudice amministrativo, se si volesse poi impugnare tali atti sempre davanti alla magistratura ammnistrativa (Tribunali amministrativi regionali e Consiglio di Stato), si dovrebbe pagare il “contributo unificato”.
Le associazioni no profit italiane sono costrette, quindi, a pagare queste tasse per poter fare ricorsi alla giustizia ammnistrativa contro atti illegittimi e lesivi dell’ambiente emanati dalla Pubblica Amministrazione. Si tratta di debiti che lo Stato esige in maniera ormai sempre più “efficiente” e rapida, con casi sempre più frequenti di Onlus-ONG, anche di piccola dimensione, cui vengono notificate “cartelle esattoriali” con pagamenti che possono arrivare a diverse migliaia di euro e sanzioni pecuniarie, nel caso di tardivo o mancato pagamento, e rischio di pignoramento dei beni.
Il WWF Italia ha avviato diversi ricorsi dinanzi al giudice tributario per contestare il pagamento del “contributo unificato”, ma fino ad ora non si sono ottenute risposte positive e definitive.
Gratuito patrocinio
L’ordinamento giudiziario italiano prevede il beneficio del cd. “Gratuito patrocinio “, ossia l’ammissione al patrocinio di un avvocato a spese dello Stato (anche nel processo amministrativo) per la difesa del cittadino non abbiente. Tale beneficio è espressamente esteso anche ad enti o associazioni “che non perseguono scopo di lucro e non esercitano attività economica“. Però l’ammissione è sottoposta al vaglio di apposite commissioni che spesso negano il gratuito patrocino alle associazioni di protezione ambientale, motivando col superamento della “soglia di reddito imponibile annuo massimo” per poter accedere al beneficio (attualmente fissata in euro 10.628,16). Non si tiene conto in questi casi che il cd. “reddito” tale non è, perché non deriva dall’esercizio di attività economiche (che le ONLUS italiane non possono praticare ) e non è distribuibile.
Spese di “soccombenza”
Negli ultimi anni in Italia si sono avute alcune riforme della giustizia amministrativa (da ultimo il “ Codice del processo amministrativo Decreto legislativo 02.07.2010 n° 104 ), tendenti anche ad un regime più severo e costoso per il contenzioso amministrativo e civile. In queste codificazioni il legislatore non ha tenuto affatto conto della necessità, anzi obbligatorietà, di prevedere un regime “agevolato” per garantire l’accesso alla giustizia ambientale, anche attraverso la sua “non eccessiva onerosità”.
Infatti, l’art. 26 del DLGS 104/2010 “spese di giudizio” stabilisce che: “1. Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese di giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile. 2. Il giudice nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra di una somma di danaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati”.
Questa norma si traduce, nel concreto, nel rischio per il ricorrente “soccombente” di dovere pagare somme anche considerevoli alle controparti vittoriose.
Solo per citare i casi più recenti: il WWF Italia è stato condannato dal Tribunale Ammnistrativo della Liguria (Impugnazione del WWF Italia dell’autorizzazione per la costruzione di un porto turistico in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico- ambientale Sentenza n. 48/2011) a pagare ad ognuna delle “controparti” costituitesi 4.000 (quattromila) euro. Essendo 4 le parti costituite in giudizio (Ministero Trasporti, regione Liguria , Comune Ventimiglia, Società costruttrice ), il WWF sta pagando 16.000 euro di “spese di soccombenza” . E’ stato anche fatto ricorso al Consiglio di Stato che ha però respinto l’appello e ci ha condannati a pagare ulteriori 2000 euro (duemila) per ogni parte costituita in giudizio.
Il TAR Toscana (Sentenza n. 1261/2013) ha condannato il WWF Italia ed altre tre associazioni ricorrenti, al pagamento delle spese processuali quantificate in 3.000. (tremila ) euro per ognuna delle 6 controparti costituite , arrivando quindi alla somma di 18.000 (diciottomila) euro!
Si pensi che, il solo WWF Italia, avvia ogni anno oltre 100 nuovi contenziosi giudiziari, spesso anche insieme ad altre associazioni, di cui 50/60 ricorsi ai Tribunali ammnistrativi regionali. Moltiplicando per ognuno di questi il pagamento del contributo unificato ed il rischio delle “spese di soccombenza, si può valutare l’entità e la gravità della situazione in Italia. Si tratta di una situazione che anziché agevolare, scoraggia e fa diminuire ogni anno in maniera consistente la concreta possibilità di accedere alla giustizia in materia di tutela dell’ambiente. Persino più grave la situazione per i singoli cittadini o comitati di cittadini che devono pagare di tasca propria migliaia di euro.
Siamo di fronte a palesi violazioni del “diritto di accesso alla giustizia”, che sono già state condannate dalla Corte di Giustizia Europea per altri Paesi: si ricorda, ad esempio, la pronuncia del 16 luglio 2009 con cui la Sezione II della Corte di Giustizia condanna l’Irlanda perché la sua legislazione non assicura l’obbligo, imposto dalla Convezione di Aarhus e dalle direttive comunitarie che vi si sono adeguate, che i procedimenti giudiziali (nel caso si specie avviati in materia di VIA e di IPPC) “non devono avere un costo eccessivamente oneroso”).La Corte precisa che, anche se i giudici possono pronunciare una condanna alle spese per la “parte soccombente”, l’importo della “condanna alle spese ”deve soddisfare la condizione della “non eccessiva onerosità”.
La Corte europea ha, peraltro, considerato non sufficiente che i giudici possano rinunciare a condannare la parte soccombente alle spese, né che questa sia una prassi consueta, perché, non avendo i requisiti di certezza di una legge ma, essendo affidata al mero giudizio discrezionale del giudice, non può considerarsi come corretto ed indifferenziato adempimento degli obblighi comunitari nella materia de quo. Riportiamo l’opinione di un noto avvocato italiano, che cura da molti anni numerosi ed importanti processi per le più importanti associazioni di protezione ambientale italiane: “(…) Mentre dunque i Giudici europei condannano un Paese membro perché non ha introdotto espresse previsioni che assicurino un regime differenziato per agevolare l’accesso alla giustizia in materia ambientale, dando così piena attuazione alla convenzione di Aarhus, l’Italia sembrerebbe addirittura avviarsi sulla strada dell’introduzione di un regime differenziato in pejus, ossia volto a scoraggiare il contenzioso in materia ambientale, in particolare delle associazioni con l’applicazione dello strumento della condanna alle spese del giudizio. (…) Mi pare che in tale situazione sarebbe dunque urgente l’introduzione di espresse previsioni normative atte ad assicurare la “non eccessiva onerosità”, in termini di spese di giustizia, dei procedimenti giudiziali avviati dinanzi al G.A. in materia ambientale imposta dalla Convenzione di A. e dalla richiamate direttive comunitarie in materia di VIA e di IPPC. In mancanza si rischia evidentemente una condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia com’è avvenuto per l’Irlanda. Non sembrano tuttavia esserci segnali positivi” (Avv. Matteo Ceruti “La prevenzione dei crimini ambientali . L’accesso alla giustizia amministrativa di singoli e associazioni: dalla Convenzione di Aahrus al Codice del processo amministrativo”) .
Il WWF Italia non può che condividere tale autorevole opinione, e chiede alle competenti autorità europee (Commissione e Corte di Giustizia) un intervento nei confronti dell’Italia finalizzato al rigoroso rispetto del “Diritto di accesso alla giustizia in materia ambientale “.” (GG)


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